RICOSTRUZIONI
Balvano è un piccolo centro abitato della provincia di Potenza. Come molti paesi della Lucania, non arriva a 2000 abitanti. La sua storia recente è stata segnata profondamente dal terremoto del 23 novembre 1980, quello erronamente ricordato solo come terrremoto dell'Irpinia, nel quale fu quasi completamente distrutto. Un evento in particolare si è impresso indelebilmente nella memoria dei suoi abitanti. Durante la scossa più forte, 77 persone si trovavano nella chiesa di Santa Maria Assunta. Tra loro, 66 erano bambini ed adolescenti. Il crollo della parete principale della chiesa è stato immediato. Non ha lasciato a nessuno il tempo di rifugiarsi. Sono morti tutti. Solo il parroco che celebrava la messa è riuscito a salvarsi. E questo ha raccontato alle telecamere della RAI giunte per documentare l'evento: “E' indescrivibile, inimmaginabile, non ce lo aspettavamo. Stavamo lì ad attendere forse questa sciagura. Chi lo sa. Non sappiamo. Intanto il fatto è questo. Crudo. Tremendo.” Queste scarne parole che documentano l'apocalisse vissuta dagli abitanti di Balvano hanno purtroppo precedenti storici. Vito Teti ricorda che già nella seconda metà del 1700, in Calabria, sulla Sila, accadde qualcosa di analogo. Gli uomini indaffarati nei campi si salvarono da un violento terremoto mentre donne e bambini alle prese con funzioni liturgiche o faccende domestiche morirono nelle chiese e nelle case crollate. Ne seguì un'epoca di brigantaggio e di migrazione che condusse molti di quei villaggi a spopolarsi e poi a divenire rovine. La periodicità dei terremoti ha in effetti scandito distruzioni e ricostruzioni con una certa regolarità su queste terre. Tuttavia, nonostante i noti rischi sismici, le popolazioni dell'appenino calabro-lucano e dell'Irpinia preferirono per secoli vivere sulle sommità delle montagne invece che nelle valli. I loro villaggi furono costruiti non in prossimità della costa o su fiumi più facilmente in comunicazione con altri centri commerciali ma su cime scoscese e difficilmente raggiungibili con i mezzi di trasporto medievali.
Le mappe urbane si assomigliano con una certa regolarità. Sono dominate da fortificazioni, per lo più torri, poi progressivamente abbandonate, dove c'erano caserme ed accampamenti militari invece che abitazioni nobiliari o di grossi proprietari terrieri. Erano quindi villaggi facilmente difendibili ma dove la vita risultava piena di asperità, con cicli economici estremamente locali. Oggi osservare questi centri abitati relativamente isolati e nascosti fa immaginare una sorta di paura atavica ma anche un'ansia di preservazione. La loro “ritirata dal mondo” non dipese però dai terremoti, bensì da una debolezza strutturale medico sanitaria e militare. Le vallate erano per lo più aree paludose e malariche e per questo invece di abitarle si preferiva rimanerne lontani. Erano anche segnate dal passaggio della via Appia, una delle principali vie di comunicazione d'Italia, fin dall'epoca dell'Impero Romano. Ci troviamo quindi in una terra di mezzo, percorsa da eserciti e carovane di mercanti che si spostavano da Roma e Napoli fino a Brindisi e Taranto e viceversa, lungo vie di comunicazione che collegavano le grandi città dell'Impero romano prima e del Sud Italia poi ai porti che portavano in medio oriente e in “terra santa”. Alcuni dei villaggi lucani avevano addirittura nomi arabi ed avevano una loro esistenza indipendente sulla cartografia ottomana. Benchè con minore intensità rispetto alle vie costiere queste terre furono create dalla doppia influenza cristiana, sia papale che monarchica, sia dal pragmatismo commerciale dei mondi islamici. Ma per oltre mille anni il Sud ha vissuto anche in una condizione di “colonia”, provincia di regni lontani che la governavano tramite figli di Re ed amici di amici; dai Normanni agli Svevi, dagli Angioini ai Borbone, fino ai Savoia. Tuttavia se città come Napoli e Palermo, ma anche Bari o Lecce emersero come centri cosmopoliti “di abitanti del Mediterraneo”, il sistema di villaggi di cui faceva parte Balvano esisteva soprattutto in quanto avamposto militare e come frontiera diffusa. Il suo scopo era assicurare un tranquillo passaggio di genti e mercanzie tra le due coste mediterranee dello Ionico-Adriatico e del Tirreno.
L'epoca del Risorgimento italiano e della “riunificazione d'Italia” fu invece segnata da un lungo confitto armato, di quasi 10 anni, che produsse migliaia di morti e la quasi completa scomparsa, ancora una volta, di molti villaggi. Dopo la “liberazione garibaldina”, Cavour tradì le promesse di vaste redistribuzioni di terre ai contadini e poco alla volta si produssero fuochi di ribellione sparsi tra tutti i villaggi. Nel momento di maggiore forza, la guerriglia contadina dell'appenino Irpino e calabro-lucano raggiunse quasi le 3.000 unità, un numero ragguardevole vista la popolazione dell'area. Erano anche discretamente armati e preparati alla guerra. Dopo aver partecipato alla spedizione garibaldina molti dei briganti ricevettero e perferzionarono le loro capacità belliche attraverso emissari inglesi e spagnoli interessati a mantanere alto il conflitto nel sud Italia, sempre per ragioni di controllo del Mediterraneo. Non vedevano di cattivo occhio il suo passaggio ai Savoia ma volevano essere certi che non potesse rientrare sotto la stretta influenza francese. La risposta dello “Stato Italiano” fu estremamente forte. Da Napoli, arrivarono diverse ondate di violenta militarizzazione che utilizzarono metodi adottati dagli Inglesi per sconfiggere l'idipendentismo irlandese con operazioni militari speciali che prevedevano il sistematico annichilimento delle basi di appoggio e dei collaboratori dei briganti. Per farlo penetravano in ogni villaggio, ammazzando chi non dava informazioni sui nascondigli, inclusi donne e bambini, e bruciando tutto quello che incontravano. Furono così commesse un numero imprecisato di stragi e si produssero sconvolgimenti demografici profondi le cui cicatrici hanno segnato queste terre per diverse decadi.
Un'intera generazione di contadini si era infatti data “alla macchia”, cioè prese le armi per contestare la legittimità del potere locale e della famiglia Savoia. In alcuni centri maggiori, come Melfi e Lagopesole, la contesa si fece estremamente sanguinosa e localissima, tanto che alcuni storici non riescono pienamente a conferirle una dimensione unitaria ed in alcune aree la considerano più simile ad una “guerra civile” che ad un movimento contadino armato e/o un movimento indipendentista. In generale la storia del “Brigantaggio”, come venne poi definito, con la B maiuscola, per lungo tempo costituì un altro della “nazione” che dopo essere stato sedato fu fatto dimenticare. Solo recentemente, negli ultimi 30 anni almeno, si è iniziato a studiarlo con maggiori dettagli nelle scuole. Rimane però ancora associato a banditismo e criminalità e non sempre gli si riconosce una rilevanza storica e politica, come una della maggiori rivolte contadine della storia d'Italia.
Questo posizionamento marginale delle aree intorno a Balvano nella storiografia nazionale riguarda, a mio parere, una più generale narrazione della dimenticanza, una nozione solo parzialmente considerata nella macro categoria “questione meridionale” che ha invece dominato i dibattiti sul Sud Italia per decadi. Ad esempio, è davvero soprendente scoprire che gli abitanti di Balvano ricordino un altro evento funesto. “Il disastro di Balvano” è il maggiore incidente ferroviario della storia italiana. Più di 500 persone persero la vita nell'ormai lontano 3 marzo del 1944 quando il treno 8017, un convoglio a vapore alimentato a carbone partito da Salerno, si bloccò nella galleria delle Armi, una galleria di quasi 2km che passa accanto al fiume Platano. Intrappolato all'interno del tunnel, i fumi del motore si diffusero rapidamente nei vagoni, uccidendo tutti. Il quotidiano “La Stampa Sera” titolò il giorno successivo “Morti nel sonno in 500”. Era difficile da credere che, nel bel mezzo della guerra, tra bombardamenti alleati e violenza nazi-fascista, si potesse morire anche così. E infatti il caso fu presto dimenticato. Anche quello. Il governo italiano impose il segreto militare sull'evento e censurò o cancellò diversi archivi. Oggi, gli unici documenti militari disponibili sono quelli inglesi, consultati da un avvocato in contatto con le famiglie delle vittime e con gli abitanti di Balvano che sono tra i pochi a custodire una memoria storica dell'accaduto. Nei verbali del Consiglio dei Ministri relativi all'incidente, il Generale Badoglio affermò che sul treno vi erano “600 contrabbandieri e viaggatori di frodo”, un'affermazione frettolosa e stigmatizzante che però evidenziava e ribadiva ancora una volta la narrazione egemone che esisteva su queste terre.
I treni merce che percorrevano la nuova linea ferroviaria Salerno-Metaponto erano spesso carichi di vettovaglie provenienti dai campi lucani, pugliesi e calabresi. Erano frequentemente presi d'assalto da gruppi di “banditi” affamati, ma venivano utilizzati anche da famiglie e contrabbandieri per recarsi direttamente dai produttori, per acquistare cibo a prezzi inferiori o per sostituirsi e competere con la logistica militare che la faceva da padrona. Molti si aggrappavano letteralmente al treno o si lanciavano su di esso. C'erano sempre vagoni vuoti, e bastava solo sapere dove trovarli. Le descrizioni di questi viaggi di fortuna, in generale, dipingono un quadro di una popolazione allo stremo, che abbandonava periodicamente la Campania per cercare cibo nella vicina Lucania. E mostrano le molteplici sfumature della quotidianità durante la guerra. In questi intrecci, il contrabbando di oggetti sottratti all'esercito alleato permetteva a intere famiglie di sopravvivere senza sostenere per questo il regime fascista. Tuttavia, sul treno 8017, i passeggeri erano quasi tutti saliti regolarmente a bordo nelle stazioni di Napoli e Salerno; molti di loro avevano persino pagato un biglietto per poter viaggiare. Esisteva cioè anche una sorta di organizzazione emergenziale e probabilmente illegale che gestiva il movimento di persone lungo la tratta utilizzata dai treni merce per sostenere gli eserciti alleati. Questo fatto era considerato inaccettabile dal governo italiano, che all'epoca, tra l'altro, aveva sede provvisoria proprio a Salerno.
L'incidente fu spiegato in tutta fretta attraverso la scarsa qualità del carbone utilizzato per la combustione. Proveniva dalla Yugoslavia e non generò il calore necessario per superare la salita. Un errore del macchinista bloccò poi il treno in galleria e i fumi in pochi secondi fecero il resto. Povertà ed errore umano sono altre due linee narrative da sempre impiegate per spiegare le storie di queste terre. Non era ad esempio possibile che treni merce come l'8017 fossero obiettivi militari e bersaglio di sabotaggi? Ad osservare meglio gli eventi, il loro oblio rappresenta un'altra grande stranezza della “nazione” e riguarda da molto vicino un piccolo paese come Balvano. Queste storie scollegate e non unitarie formano allora uno di quei nodi dell'Assenza che Mantas cercava di dipanare nei suoi lavori documentali. Balvano è un territorio trapassato dalla ripetizione storica di morti collettive. Dai disastri naturali, alle ribellioni, alla tragedia delle guerre, la storia di Balvano è segnata da momenti di tragedia condivisa che si sono sedimentati ed iscritti da qualche parte sul suo corpo sociale. Negli ultimi 40 anni Balvano è stata ricostruita e l'apocalisse testimoniata dal Parroco si è trasformata. Ma com'è stata ritualizzata, neutralizzata, contaminata, disseminata?
Arrivando a Balvano dalla strada provinciale che la collega a Picerno, si viene accolti dal fiore all'occhiello lucano degli investimenti industriali sovvenzionati dallo Stato. E questa volta la “FIAT di Melfi” non c'entra. Si tratta della piementose Ferrero. “La mattina ci svegliamo e invece dei gas dei camion si sente l'odore del pane nel forno”, diceva un ragazzo che si sedette con noi al tavolo. “Qui le crostatine le distribuiscono gratis dopo pranzo”, ci prendeva in giro un signore che ci ascoltava dall'ingresso del bar. Il paesaggio intorno a Balvano e fino a Picerno, costeggiando la “storica autostrada Potenza-Sicignano”, sembra in effetti una rappresentazione lucana del sogno del “Mulino Bianco”, per molti anni archetipo della felicità perfetta piccolo borghese del bianco caucasico, basata sulla trinità casa-famiglia-cibo. Si tratta di una narrazione resa popolare da campagne pubblicitarie durate svariati anni, dal 1977 al 2019, di un noto marchio del gruppo Barilla, un altro grande “investitore e proprietario terriero” della Lucania (l'altro, se si escludono le compagnie petrolifere e la Chiesa, è la cesenate Orogel). Le villette sparpagliate, dotate di garage e giardinetto e veicolo di trasporto con vista mozzafiato delle gole del Platano o della piana di Baragiano e degli altri villaggi sui monti lucani, da San Gregorio Magno a Vietri, sembrano proprio la realizzazione pratica di quell'utopia di progresso consumista. Qui pare di trovarsi in una specie di eccezionalità della Basilicata, un esempio virtuoso di un processo che, dal terremoto del 1980, ha visto la regione entrare in una lunga e lenta fase di ricostruzione, restauro e, in alcuni casi, anche di abbellimento del suo patrimonio artistico e paesaggistico.
Territotializzazione dei tassi di crescita della popolazione Italiana negli ultimi 20 anni
Nonostante ciò, ci troviamo comunque in una delle zone d'Italia a più alti indici di spopolamento. “Chi può se ne va, perchè in paese non c'è niente da fare.” Ci disse il nostro Virgilio. L'andare via è un tema fondante di queste aree della Lucania, e quel ragazzo ce lo diceva per aggravare lo stato di Assenza che sembrava dominare Balvano nei suoi racconti. Tuttavia, l'Assenza da migrazione ha un carattere diverso da quella del terremoto. Proprio nella valorizzazione patriottica della “restanza” e della sua confusione con un valore nazionalistico e di protezione dei territori dai non-bianchi, le estreme destre hanno raccolto un gran numero di preferenze elettorali anche da queste parti. A ben vedere, però, “l'andare via” da Balvano non riguarda un viaggio di conoscenza e di lavoro nel mondo, o il “viaggio nell'altro mondo” che ha portato molti lucani a migrare nel nord Italia, in Germania, nelle americhe o in Australia dopo la seconda guerra mondiale. Racconta invece di un processo di migrazione interna molto concreto e molto locale che porta la cosiddetta (a Potenza) “gente di paese” a spostarsi nei centri abitati maggiori e più vicini, tra cui appunto Potenza.
Trasferitasi nel capoluogo, con alte probabilità “la gente di paese” finisce per vivere in nuovi palazzi antisismici, pensati per convincere i genitori a rompere il salvadanaio, rimpinguato dai sussidi della Politica Agricola Comune dell'UE, e acquistare un appartamento dove far vivere i figli. Il nuovo cemento armato garantisce di “esserci fino alla fine” per almeno i prossimi 20 anni. Per “la gente di paese” è un investimento, per gli altri speculazione edilizia. Ne emergono progetti di urbanizzazione che rendono Potenza una “città verticale”, colma di edifici che si sviluppano in altezza, tra montagne che sfiorano i 1000 metri. Questo avviene anche perché il modello di business che li porta alla realizzazione crea una catena debitoria banche-imprese di costruzione-banche-gente di paese che non può essere compromessa ed opera in automatico, altrimenti si bloccherebbe tutta l'economia di queste terre. “la gente di paese” diventa in altre parole il preciso target di mercato di una modalità di sviluppo della città che a sua volta si modella intorno alla natura diffusa del risparmio dei potenziali acquirenti. In assenza di “grandi proprietari” che di solito vivono altrove, l'architettura si “adegua” al mercato. Il risultato è un'edilizia popolare classica, come lo furono il quartiere Zen di Palermo o Scampia a Napoli e lo stesso “Serpentone” di Potenza. Tuttavia, questa volta, gli edifici sono realizzati da ditte private che sfruttano le sovvenzioni statali per produrre costruzioni “ecologiche ed antisismiche” e gli appartamenti vengono venduti a prezzi non calmierati spesso pagati con lunghi mutui e tassi di interesse variabili.
Per essere più concreti, chi lascia Balvano per spostarsi a Potenza con altissima probabilità va a vivere a Macchia Romana. Secondo dati non completamente verificati, negli edifici della foto di sotto vivono circa 10.000 persone, il 15% della popolazione di Potenza, di cui il 60-70% viene dalla provincia. Se Balvano è “il mulino bianco”, Macchia Romana rappresenta la materalizzazione degli spettri del passato e del futuro della migrazione che danzano intorno all'Assenza prodotta dal terremoto. Quei palazzi sono un prodotto della “modernità” esattamente come le villette di Balvano. Rappresentano una ricostruzione prospettica del villaggio distrutto che ritrova patria in un altrove immemore, anonimo, in cui Balvano c'è come un nodo dell'Assenza. A Macchia Romana è il cemento armato ad emergere come idolo del nuovo mondo post terremoto del 1980. Mentre l'eredità dei genitori si capitalizza, paga l'imprenditoria edile e i suoi alleati politici e paga le banche con lavoro salariato, il cemento armato domina i paesaggi e gli spazi come baluardo di non ripetibilità e di non deperibilità, come garanzia di futura rivendita o per lo meno di mantenimento del valore.
L'urbanizzazione di boschi e campi agricoli fino a pochi anni fa pubblici o con forme di proprietà diffuse, ha prodotto edifici alti e maestosi; immagini sbiadite delle fortificazioni del passato. Un tempo però quei luoghi erano riservati ai proprietari terrieri ed ai militari, ora il “progresso” si è diffuso e si è materializzato grazie al cemento armato. Secondo i dati delle agenzie immobiliari di Potenza, l'appartamento, nuovo ed antisismico, è la modalità di investimento preferita dalla “gente di paese”. Ci troviamo allora in uno snodo centrale della ricostruzione di Balvano. Tutto farebbe pensare che la “dottrina degli shock”, come la chiamava Naomi Klein, abbia qui funzionato alla perfezione. Inoltre, Balvano sembra vivere dentro una pax petroliera criminale che lo ha lasciato fuori degli interessi economici sia della camorra casertana sia di quella emergente del foggiano. Rosaria Capacchione spiega molto bene come la ricostruzione dell'Irpinia abbia rappresentato lo spartiacque tra la camorra del contrabbando di sigarette e droghe a quella dell'edilizia creando un'alleanza funzionale con le imprese edili del nord italia, soprattuto venete e lombarde. L'accresciuto potere negoziale non derivava però dall'uso delle armi e dal controllo del territorio, o meglio, non direttamente. “Il cemento armato” della camorra costava semplicemente la metà degli altri e ciò era possibile grazie a tutti gli schemi di “lavaggio di denaro” e di superamento sistematico di regolamentazioni locali di cui era capace. C'era quindi da mangiare per tutti ma solo se ci si alleava ai clan. Il culmine di questo lungo processo di normalizzazione dei sistemi mafiosi fu raggiunto quando Nicola Cosentino e l'alleanza mafiosa e petrolifera che rappresentava divennero vice ministro delle Finanze in uno dei governi Berlusconi.
Macchia Romana e questo pezzo di Lucania sembrano invece seguire dinamiche diverse, legate da un lato ad un'occupazione nepotistica e clientelare delle burocrazie, e dall'altro alla presenza di grandi “contractors multinazionali” come l'ENI, la Total, Stellantis, la Barilla e anche la Ferrero. L'economia più che essere in mano ai clan, è in mano alla burocrazia che la gestisce per conto o insieme ai grandi contractors da cui riceve le risorse finanziarie necessarie, come le royaties del petrolio. L'obiettivo in fin dei conti è storicamente sempre lo stesso, cioè permettere un tranquillo sfruttamento del territorio. Ma il risultato è che la competizione non segue il diritto di natura, per cui il pesce grande mangia il pesce piccolo. Al contrario, quasi come in un contrappasso dantesco, vive dentro tutta una serie di isterie legali e guerre commerciali a suon di querele che rallentano fino a bloccarlo ogni meccanismo produttivo reale. A primeggiare non è, cioè, il più forte e nemmeno il “migliore”, ma il più “adattato”, di solito il meglio connesso e il più “presentabile” alle autorità antimafia. Invece di manager senza scrupoli dominati dall'ansia di profitto, questi pezzi di Sud sono gestiti da ingegneri e geometri capaci di ricostruire Balvano, e da avvocati e notai che navigano con astuzia i meandri oscuri delle infinite leggi italiane. Ne emerge così un'economia reale essenzialmente estrattiva, con un'imprendotoria locale poco innovativa e per lo più concentrata nel settore edilizio o in quello dei servizi ma con bassi livelli di produttività ed una stagnazione strutturale dei profitti. I locali cicli di debito si sostengono soprattutto grazie alla gestione dei fondi pubblici che, in un modo o nell'altro, arrivano da queste parti.
In questo contesto, Balvano è un nodo dell'Assenza. La sua ricostruzione è rimasta vuota perchè gli abitanti, dopo 45 anni, sono ancora spaesati, hanno convertito l'eredità in capitale e sostituito le vecchie case con il cemento armato di Macchia Romana. Nel frattempo la sua architettura rurale si è trasformata in un bellissimo contenitore in attesa che accada qualcosa che ne cambi il destino. Le case sono perfettamente legalizzate e in regola, sono “accatastate” e mappate negli uffici comunali. Sono prodotti pronti per il mercato immobiliare e quello del turismo. Aspettano capitali ed investitori che però non arrivano. Seguendo una traiettoria di oltre 40 anni, quei dispositivi che dopo l'evento traumatico hanno fissato Balvano in una “Zona”, ne hanno poi gestito la sua scomparsa/assorbimento/assimilazione. Dopo la messa a reddito della ricostruzione, ora il suo “spostamento” negli edifici di Macchia Romana racconta la modalità in cui Balvano può continuare ad esistere, anche se ancora in una fine collettiva. Il suo divenire “cemento armato” è infatti anche il suo divenire “rovina”, spopolata, abbandonata, in attesa di fondi e di capitali. Forse anche a questo si riferiva De Martino quando definì le apocalissi culturaleli. Indirettamente stava già osservando una lenta ed irreversibile assimilazione e l'assoggettamento al capitale dei territori connettivi in prossimità delle aree di grande urbanizzazione. Eppure si tratta solo della fine di un mondo. Ma per spiegarmi meglio devo scrivere del Laos, delle sue frontiere e di due popolazioni, i Phunoy e i Hmong.