[4.2] – Il blocco del Puerto
Interpretare i blocchi della strada di Buenaventura come “interregni” riguarda il tentativo di rielaborare la nozione di sovranità a partire da una ritrovata capacità di molteplici soggetti di produrre una specifica architettura della loro presenza nel mondo. Significa quindi osservare la guerra civile colombiana, di cui i blocchi stradali sono evidente manifestazione, dentro una più ampia struttura simbolica composta dai variegati repertori della protesta, dalla mitopoiesi della calle e dalle relazioni di politica-economica determinate da un assemblaggio dell’altrove come il “Puerto”. Mettere tutto questo assieme implica prima di tutto chiedersi se le nozioni raccolte durante il lavoro di campo, rielaborate nel corso di alcuni anni di riflessioni e descritte fin qui, possano descrivere dei sistemi politici nei cosiddetti margini ancora non propriamente presi in considerazione in una città come Buenaventura. Spingono il pensiero ad un passo in più verso la comprensione di un possibile campo politico istituente, “nativo”, “selvaggio”, “nero”, “Afro” e “ribelle” rispetto ai mondi assolutizzanti della Tecnica (1, 2). Occorre allora chiedersi se in una rivolta o in quell’insieme di pratiche “di frontiera” siano riscontrabili delle continutà e delle ripetizioni incorporate ma non rappresentate perfettamente in istituzioni che organizzano la prepotenza come il combo\banda o il “jefe\capo” (chiefdom) o che coordinano la violenza producendo alleanze sempre in divenire per il controllo del territorio, come i gruppi in armi del tipo Rastrojos\Urabeños.
Fin qui ho cercato di mostrare che l’esistenza di questi sistemi politici piuttosto che originarsi in un’esteriorità dello Stato, cioè in una sua assenza o come prodotto di una debolezza strutturale o di un suo fallimento, si articolano e si intrecciano in variegate forme all’istituzionalità ufficiale ed alle autorità legittimate localmente. Partecipano cioè della statualità tanto quanto ne rappresentano un opposto. La loro complessità risiede nella dimensione caotica delle relazioni che producono, cioè nella loro apparente incoerenza, nella mancanza di una coordinazione centralizzata vera e propria o di strutture di intermediazione stabili che chiariscano in maniera univoca i rapporti tra centro e margini dei campi politici che generano. In questo senso rispetto all’eternità dello Stato sono normalmente analizzate come una forma-Clan, come il negativo, il non comprensibile e come un’esteriorità (si vedano Delueze e Guattari 2003:495-594). Sono però osservabili ritualità, regole e forme di appartenenza e di partecipazione e linguaggi altri che le definiscono non per la “rudimentarietà” o “elementarità” delle loro organizzazioni. Al contrario rappresentano sistemi ugualmente complessi capaci di estendere forme di influenza oltre un piccolo quartiere o gruppo di case. Famoso è il caso del radicamento di Cosa Nostra a New York che veniva interprato come una forma organizzativa elementare che sarebbe stata riportata “nello Stato” attraverso il processi di “Americanizzazione/civilizzazione” della migrazione (Lupo, 2008). Nei casi di Palermo e Napoli citati nel post precedente, organizzazioni funzionalmente simili ad un caporalato (chiefdom), nell’incontro “coloniale” e con il progetto eterno dello Stato si sono invece modellate fino a divenire-Camorra e divenire-Cosa Nostra mantenendo relazioni di estimità (intima esteriorità) con gli apparati dello Stato. Sono quindi entrate in un rapporto di divenire-Stato che in base ai contesti ed ai periodi storici le ha configurate in forma di “anti-Stato”, “Stato nello Stato” o di “Stato parallelo” istituendo così un preciso campo politico che pur ribadendo quotidianamente le differenze tra Stato e Clan, si caratterizza proprio come Stato-e-Clan.
Gli studi etnografici sull’Amazzonia (1) e sul sud-est asiatico (1) sono disseminati di esempi di società definibili nel continuo tentativo di esistere in una frontiera “simbolica” quanto fisica dello Stato, di rimanere cioè rappresentabili in una sua esteriorità, ribadendo un campo sovrano non assorbibile dai processi connettivi di politica-economica globali. Nella letteratura africanista vi sono invece molteplici esempi di pseudoregni, Stati ombra o re incoronati per diventare capri espiatori dei mali che colpiscono un popolo che rappresentano a tutti gli effetti mondi alternativi sorti nell’inevitabilità della connessione. Pur sorgendo anche loro in risposta all’incontro coloniale, manifestano infatti la coscienza di una radicale perdita identitaria che non si riversa in un profondo nichilismo, in un’aperta confrontazione o in tentativi di negoziazione di spazi d’esistenza, ma ricostruisce forme di vitalità e di riaffermazione del sé comunitario (1, 2, 3, 4, 5, 6, 7). Erano questi campi politici e magici ombra nel vero senso della parola perchè sorgevano alle spalle, nascosti dove l’azione colonizzante non poteva vederli e si articolavano attraverso linguaggi di cui “l’intruso” non possedeva grammatiche e codici. In questo senso, le bandas/combos o i jefes che sembrano costituire forme urbane di caporalato sulle pendici dei processi di espansione delle città, devono essere intesi in maniera più ampia, come strutture politiche rizomatiche che definiscono forme di socialità e di relazioni tra “mondi”, anche molto diversi tra loro, e che non sono solo quelli marginalizzati o identicabili in zone ancora “da civilizzare”. Quello che ho chiamato interregno è dunque un manifestarsi nel qui-ed-ora di una forma dell’abitare le fratture del corpo sociale imposte da rapporti di forze asimmetriche. Nel caso specifico in esame, l’interruzione di un flusso vitale urbano come la logistica e la ripetizione periodica, quasi annuale di questa azione (ho registrato blocchi simili nel 2012, 2013, 2014, 2017) paiono una produzione di un sistema di governo alternativo. Definiscono una non-battagila che aspira a ri-connettere e ad apparire ovunque invece di lasciarsi assoggettare da “presenze” di para, o da forme di controllo del territorio che frammentano, suddividono ed assegnano sfere di influenza. Territorializzano un essere diffuso e disseminato. Partendo da qui, mi chiedo allora se possano essere interpretate anche come una ripossessione rituale della città, nel senso di una riconquista psichica dello spazio e del tempo. Come le capitali celebrano la loro leadership con un vasto insieme di rituali nei “palazzi del potere”, i blocchi delle strade in un polo logistico “strategico” sono un rito culmine della critica radicale delle politiche-economiche che muovono il mondo?
Per rispondere alla domanda e conferire ai blocchi delle strade una natura rituale, è importante prima di tutto osservarli nella loro dimensione temporale, dentro cioè una guerra protratta e come parte di repertori consolidati e ripetitivi della protesta sociale. La loro comprensione deve allora iniziare in maniera imprescindibile dalla contingenza prodotta dall’assenza di acqua e dal malcontento diffuso che cerca un colpevole. Deve poi proseguire riconoscendo l’attualità dei movimenti per le autonomie africane che fin da quei fuggitivi delle piantagioni e delle miniere che fondarono nei primi anni del 1600, i primi Palenque, territori di cimarroni, di schiavi liberati, costituirono dei punti di discontinuità negli immaginari della nazione (1, 2, 3, 4, 5, 6). Queste storie sono spesso dimenticate o sottovalutate negli studi politologici colombiani centrati analiticamente sulla categoria teologica dello Stato, declinato in base ai contesti in forte o debole, in predatore o sviluppista, ma mai etnicamente come bianco e mestizo (meticcio) o blanqueado (sbiancato) (1, 2, 3). A riprova dell’importanza di queste altre entità politiche vi è invece la storia del “movimento cimarrone” degli anni settanta del secolo scorso e come la sua diffusione tra le comunità afrocolombiane seguì percorsi diversi tra le città e le zone rurali (1, 2, 3, 4). Fu proprio nelle aree meno connesse, quei territori normalmente raccontati come “senza Stato” o “vuoti” (baldios) o di povertà estrema che crebbero nelle pratiche, discorsi alternativi sulla “nerezza” del popolo afrocolombiano, fondati su progetti spesso del tutto spontanei e radicalmente critici della modernità. A partire dai primi anni ‘90, autonomie immaginate e di fatto incontrarono un quadro legale nel quale vennero progressivamente riconosciute ufficialmente anche dallo Stato colombiano. Si etnicizzarono nel senso che si iscrissero al progetto di Stato multietnico che sembrava stesse nascendo (1). Tuttavia, come visto, questi processi di riconoscimento giuridico rimasero spesso “letra muerta” (parole vuote) ed incontrarono una violenta repressione del “Capitale” che generò più di 2 milioni di desplazados solo tra gli afrocolombiani, la maggiorparte dei quali espulsi proprio dai territori riconosciuti per legge. In questo senso allora i blocchi del Puerto sono da intendersi all’interno di una storia molto lunga delle autonomie afrocolombiane che seppur siano spesso scarsamente documentate, hanno segnato queste terre con regolarità per diversi secoli (si vedano anche il post [1], [2.1], [2.2], [2.3]).
Risulta allora piuttosto importante inquadrare questi processi socio-politici dentro più ampi discorsi nazionalisti e pratiche razziali nei quali l’idea di “nerezza” tende normalmente a perdersi nella costruzione della “nazione e dello Stato meticci” (si vedano al proposito anche Cornel West sul nord America e Tianna Paschel su Colombia e Brasile). “La scomparsa del colore”, un progetto associabile alle borghesie urbane cosmopolite, ha finito col rappresentare una chiave per il dominio e lo sfruttamento delle popolazioni ai margini, in maggioranza africane ed indigene. Si è così configurata come un potente strumento di pacificazione del conflitto sociale disegnando un percorso evolutivo della nazione verso un grande melting-pot di genti e culture. Ha però anche contenuto l’elaborazione dei significati dell’essere “nero” o “Afro” in un paese come la Colombia, oppure lo ha riportato dentro meccanismi di produzione culturale per il consumo, di musiche, balli, abiti e liquori “afrocolombiani” con un mercato globale dal gusto meticcio (la storia del Viche è un caso studio molto interessante al riguardo). In questa più ampia pragmatica del potere, in alcuni casi, le accuse di razzismo si sono addirittura rovesciate contro alcuni gruppi di afrocolombiani influenzati dai movimenti del Black Power del nord America che aspiravano ad affermare ed organizzare “soggettività politiche Afro” nella cosmologia politica della nazione meticcia. Sono stati così messi sullo stesso piano di un estremo come il “suprematismo bianco” in cui idee di purezza e di protezione della razza si oppongono ad ogni progetto includente ed aperto del meticciato. Il risultato di queste divergenze, in Colombia, è stato la produzione di tipificazioni sociali apparentemente non razzializzate che caratterizzano l’Afro produttivamente come scanzafatiche, lento, senza progettualità di lungo termine oltre che pericoloso, anche se grande ballerino e musicista, eccellente nelle arti amatorie e negli sport. Nei centri urbani questo immaginario razziale e di classe offre spiegazioni facilmente accessibili sulle ragioni della povertà e dell’ingovernabilità di città come Buenaventura e si somma ad altre ragioni più generali come il “Governo corrotto”.
Fin dall’inizio di questo blog ho cercato invece di mostrare come le difficoltà della popolazione fossero interpretate localmente anche in funzione di una più ampia genealogia cosmica del male da cui discendeva il “male del Puerto”, una condizione esistenziale che toccava ogni suo abitante. I blocchi stradali generarono da subito posizioni limite ed antitetiche tra chi appoggiava la protesta ed altri che invece la biasimavano, tra chi la celebrava come “la lotta del popolo” e la viveva da vicino e quelli che erano invece alle prese con stati d’ansia insopportabili. Tuttavia obbligarono tutti a prendere coscienza di una condizione esistenziale comune che era quella di condividere “il mondo” e, nel caso specifico, di porsi domande sull’assenza di acqua nelle case, non come un fatto ineluttabile, ma come una situazione che poteva essere modificata. Non si trattava quindi di rituali religiosi, semmai guerrieri, ma non vi erano sciamani che ne dichiaravano un inizio ed una fine, o capi che li ordinavano. Come quei riti producevano però effetti curativi o di purificazione poichè visibilizzavano quel Male o un male del Puerto. In questo modo ogni abitante, volente o nolente si trovava dentro relazioni cosmiche che non riguardavano più solo l’accesso all’acqua ma la celebrazione e la rimemorazione di un insieme di relazioni e di pratiche da preservare, che pertenevano al “mondo” condiviso ed a modalità del vivere altrimenti a rischio di oblio o di cancellazione.
Un’altra caratteristica fondamentale del rito è infatti la sua esistenza specifica e definita spazio-temporalmente. Detto altrimenti: si è sempre nel rito. Tutto ciò che ne segue o ne deriva, cioè la ricerca di un suo significato o di una funzione, fa parte di un altro campo antropologico, teologico e politico che inquadra invece i rapporti di potere esistenti. Definire i blocchi stradali come momenti rituali significa allora condurre l’analisi verso la comprensione delle forme con cui il piano religioso o più propriamente magico, in questo caso, e quello politico condividono uno stesso spazio simbolico e significante generato in quella coscienza di condivisione del “mondo”. Nell’imposizione di una sospensione radicale della quotodianità, i blocchi esercitavano sugli abitanti un potere quasi mistico e riunificante che operava al di sopra delle divisioni prodotte dalla guerra civile stessa (si veda anche il post [3.3.1]). Ciò avvenne a mio parere proprio attraverso la riaffermazione di un controllo sociale su flussi economici altrimenti incommensurabili ed infinitamente più grandi dell’esperienza quotidiana. Ristabilirono l’adentro mentre visibilizzavano un’afuera di ogni quartiere nel quale si condensava “il male del Puerto” per cercarne una cura diversa da quella proposta dai “capi”, che pasasse da “soggettività politiche Afro e ribelli” di solito volutamente invisibilizzate nei racconti che seguivano o precedevano il rito.
Nel caso di Buenaventura, ciò avveniva in due modi paralleli. Da un lato si produceva una dimensione quasi carnevalesca che celebrava una momentanea e ritrovata capacità di sovversione di tutti gli ordini. I blocchi stradali manifestavano una verità popolare che si opponeva a quella del “Puerto” (si vedano ancora i post [1] e [2.1]) riaffermando un’esperienza di sovranità dei soggetti più intima e quotidiana. Dall’altro si diffondevano immaginari che superavano visioni parziali e territorializzate come quelle dei “monopolios” ed altre tipificazioni sociali descritte in questo blog che settarizzavano l’accesso alla verità. Nel blocco quei mondi spirituali contesi che nel Barrio erano rappresentati dalla chiesa pentecostale, le fumerie di tabacco e le feste di viche “curato”, per qualche giorno persero significato. Rientrarono tutti in un ordine superiore, sospesi insieme ai flussi commerciali della città in attesa di notizie sull’acqua. Perchè ciò fosse possibile ed insieme per affermarsi come uno spazio di riconquista del sé nei cammini di espropriazione del Puerto, i blocchi stradali rappresentavano un ordine simbolico che si spazializzava. Erano un confine fisico oltre il quale il grande Altro, questo altrove cosmico che segnava i destini delle genti, non poteva e non doveva arrivare. Il totalitarismo del linguaggio della società info-finanziaria trovava allora un limite invalicabile, rappresentato creativamente e per alcuni giorni proprio dalle barricate. Si creò un vuoto di flussi informatici e finanziari che servirono precisamente a ricostituire verità condivise che sorgevano solo “nel rito” e con cui, sempre “nel rito” si riconquistavano il tempo e lo spazio, generando appunto degli interregni.
In questa prospettiva, le barricate, tra i falò notturni ed interminabili attese diurne, concessero tempo per liberarare menti e territori da un incantesimo che imponeva frontiere invisibili, marginalità, disservizi e rabbia che solitamente si sfogava sul vicino. Quanto detto appare ancora più credibile se si pensa che i blocchi stradali di Buenaventura non incontrarono la repressione delle squadre antisommossa della polizia, del famigerato ESMAD. Come scritto in precedenza, le dinamiche di controllo del “Paro” seguirono repertori non precisamente in linea con la tradizione repressiva colombiana. Invece di provocare una confrontazione diretta che in una città come Buenaventura sarebbe potuta degenerare facilmente in violenti scontri a fuoco e centinaia di morti, gli organi di controllo rimasero anche loro in attesa e colpirono negli anni. Il risultato principale fu che invece dei violenti scontri come quelli che si registravano normalmente in altre aree del paese, le giornate trascorrevano dentro un sussegguirsi di momenti di convivialità e di micromanifestazioni di solidarietà degli abitanti. Essere nel rito quindi non implicava essere in uno scontro ma essere in una convivialità eccezionale. In una città con altissimi livelli di violenza armata, di sparizioni, di espulsioni ed esili forzati, il blocco rappresentò una sorta di cessate il fuoco imposto dai quartieri e pose in primo piano il vivere in comune oltre le sue molteplici traiettorie e conflittualità. La sua ripetitizione negli anni successivi, pur riducendo progressivamente la radicalità del motto “no pasaran” (non passeranno) soprattutto rispetto ai terminali logistici e pur configurandosi in forme alternative come “Paro armado”, “Paro minero” o “Paro Civil” (sciopero/blocco armato, dei minatori o civile), definizioni che quindi ne inquadravano il prima e il dopo ed alcuni aspetti politici ed organizzativi, mantenne inalterate queste caratteristiche di fondo nel senso di recupero di spazi del comune nel qui-ed-ora. Prima quindi della sua traduzione politica e poi mediatica, il blocco del Puerto si pose in continuità, a mio parere, con tutti i repertori di resistenza menzionati fin qui, cioè con le feste nelle case “ribelli”, le partite di calcio sulle frontiere, i poemi resistenti, i boicottaggi dei pagamenti e molte altre pratiche di frontiera, ma su di una scala più ampia e diffusa. Per questa ragione partecipava di un campo di “sovranità dal basso” che ho chiamato “interregno”.
Per intendere in profondità queste dinamiche in Colombia non bisogna considerarle fenomeni isolati o prodotti di contigenti alleanze tra bande o gang capaci di creare “caos” in città. Questa è la visione più propriamente borghese degli eventi, quella associabile a strategie securitarie. In maniera analoga occorre fare attenzione a non romanticizzare le improvvise rivolte del subproletariato come una manifestazione di coscienza e quindi di lotta di classe pura e semplice. Si rischia poi di ritrovarsi con nuovi Pablo Escobar e signori della guerra che impongono i loro “monopolios”. Seguendo l’approccio applicato fin qui, invece, la rivolta di Buenaventura dovrebbe essere interpretata attraverso una pragmatica del potere prodotta da rapporti di forze asimmetriche nelle quali emergono discontinuità non riducibili alla visione romantica o quella securitaria. Vi sono interazioni ed intesezioni tra diversi attori politici e corpi legittimi o legittimati che sostengono una pluralità di verità disponibili seppur dentro l’unità particolare del blocco delle strade. Questi molteplici incontri erano e sono resistenze diffuse al totalitarismo del linguaggio della società info-finanziaria e, come ho cercato di mostrare, permeavano gli spazi del vivere quotidiano di Buenaventura. Forse, proprio per questa ragione, la città era anche disseminata di tecnologie per la riproduzione dell’orrore, di fosse comuni, di frontiere da immaginare, di armi per “far credere” e di droghe per “far fuggire” mentalmente o materialmente. Tutto questo insieme di dispositivi di controllo caotici aspiravano a sopprimere o a riportare all’obbedienza una vitalità Afro e ribelle. Occorre però notare che dal punto di vista della pragmatica del potere che ho descritto, il loro scopo non era realizzare effettivamente quel controllo totale, ma produrre piuttosto un insuccesso sistematico. Il vero obiettivo era ripetere lo scontro, cioè rendere la guerra civile il paradigma di governo della città ed assicurare gli interessi strategi che in essa confluivano. In questa prospettiva allora, i blocchi delle strade erano azioni capaci di fermare la macchina da guerra incorporata nella forma-Stato di Buenaventura. Erano il prodotto di soggettività capaci di riterritorializzarsi sotto la pressione di entità nomadi che vivevano invece l’altrove. Mentre il mondo offshore imponeva infrastrutture per la circolazione di Capitale, localmente proliferavano resistenze irriducibili dalle quali si generava uno scontro senza sosta perchè l’esproprio delle terre e degli spazi non si fermava. Nelle sospensioni periodicamente imposte, si ricostruivano così degli spazi vitali per riconoscersi e per portare il “Male del Puerto” in un fuori dei quartieri ricostituendo soggettività politiche al loro interno. Questo campo aperto era segnato da una rinnovata accoglienza del negativo, di tutto quello che veniva mantenuto fuori per non mischiarsi e per proteggersi ma che in quello specifico frangente rappresentava la vita vera, nel senso del coraggio della verità. Ne scriverò forse nel prossimo post.