La vita in famiglia è bellissima

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[bada-boom #xF]

Mentre sono lì seduto guardo questi studenti di Stavanger che urlano, gridano felici, si sdraiano nel porto a creare una catena umana, dicono cose ai passanti che non capisco, ma capisco perché i loro costumi sono simili ai miei e li sento prossimi, vicini, siamo tutti occidentali, abituati a consumare, a sognare, a chiudere gli occhi dalla gioia per non vedere da dove viene questa gioia, abituati a crollare, negli interstizi sociali, quasi di nascosto perché crollare, in occidente, non si può. Li sento prossimi e mi chiedo quanta parte sia diversa da me, quante sovrastrutture la famiglia, l'ambiente, la scuola, il lavoro abbia creato o creerà dentro di loro distanziandoli da quello che sono io, quello che penso io, quello che pensa la mia famiglia.

E mi volto, guardo i miei figli seduti sulla panchina e mi chiedo quanta di quella differenza tocchi loro che non sono io e che non hanno vissuto quello che ho vissuto io. Posso passare tutto il tempo che voglio a scrivere di Pac-Man, della resistenza, del sessantotto, delle esplosioni in Jugoslavia, di Miyazaki, dei ragazzi bastonati al G8 dalla polizia, posso metterci tutto lo sforzo del mondo ma quelle cose loro non le hanno vissute e molte non le ho vissute nemmeno io. Le trasmetto, provo a trasmetterle, ma quello che gli arriva è tutta letteratura. Il materiale di cui sono composti, il loro continuo mutare, pensare e trasformarsi, è fatto di pezzi di cose che hanno sentito loro, che hanno pensato loro, che hanno usato come moneta di scambio con i loro coetanei in cambio di un posto dove essere abbracciati, dove ferire senza rabbia, dove essere qualcosa di nuovo e inaspettato.

A qualche migliaio di chilometri di distanza, in città non troppo diverse da quella in cui sono ora, ragazzi vengono chiamati dalla nazione per andare ad ammazzare altri ragazzi. Guardo questi studenti per terra che urlano un po' ubriachi e penso a quelli simili a loro che andranno in giro per le campagne in Ucraina a farsi saltare in aria, a perdere arti, a fare saltare pezzi di carne di altri ragazzi. La letteratura non insegna, penso. Il potere scuote dal capitale e muove strumenti più forti della letteratura. Relitti del passato, enormi soldati colosso emergono dalla storia e sono sempre lì, evocati da piccoli uomini a sollevare masse e rivoltarle sotto terra. Sono relitti tossici, fonti fossili che si tirano dietro un vocabolario ancestrale fatto di bellezza e di morte, capace di mostrare il fascino di interrompere, di sfondare, di annientare. Guardo i ragazzi e penso che anche lì – in pieno occidente – in mezzo a loro, c'è chi proverebbe il gusto della guerra, il sovvertimento sociale, l'inquadramento e l'avventura.

Anche lì, nel mezzo dell'occidente, mi sento uno straniero a casa. Non sento come mie le pietre della mia patria, non sento mio il linguaggio che uso, non sento mia la storia e la cultura che mi hanno raccontato i miei nonni. So che mentivano, tutti. Li ho interrogati, mi sono messo di fronte a loro e gli ho fatto delle domande, ho registrato tutto quello che dicevano, l'ho sbobinato tutto e trascritto, l'ho confrontato con quello che diceva la storia. La voce di mia nonna che raccontava la sua infanzia, l'inumana durezza delle famiglie contadine del primo dopoguerra, l'avvento del fascismo, l'arrivo della guerra, il salire degli alleati. Tutti mentivano: mentiva mia nonna, mentiva la storia. Messi uno a fianco dell'altro uscivano incongruenze e mistificazioni, silenzi e menzogne.

La tradizione non esiste, è solo quello che oggi ci fa comodo ricordare del nostro passato. Facciamo selezioni violente di quello che siamo e che siamo stati, rimuoviamo quello che ci imbarazza, togliamo tutto. Se proprio dobbiamo tramandare una letteratura, che sia fiction, seriale, commerciale. Cerchiamo di vendere la nostra storia al meglio, come se fosse un bel romanzo. Così del fascismo mia nonna ricordava cose che non aveva vissuto: ad andare a incalzare ricordava cose che poi ho scoperto aveva visto in televisione decenni dopo. I tedeschi, pazzi, furiosi. Ma alcuni di loro bellissimi, dolci, quasi dei fratelli che dopo la guerra erano tornati nelle Marche, dalla Germania, a cercare le ragazze che avevano abbandonato. E Mussolini, da bastardo, a scavare diventava un poveraccio. Uno che era stato fregato. E gli alleati che arrivavano dal sud, gli americani salvatori, i valorosi inglesi, sulla linea gotica erano tutti alti, con la pelle olivastra e con capelli bellissimi che scendevano lungo la schiena: erano indiani. O piccoli, neri, scuri, africani che chissà da dove venivano. E man mano che salivano saltavano in aria, mia nonna li vedeva passare in barelle improvvisate senza una gamba, urlando in lingue inintelleggibili per lei, marchigiana. E quelli che non saltavano in aria andavano nei casolari a violentare le ragazze. La tradizione, la letteratura.

Ora a Stavanger dov'erano quei racconti? Quanto di quella tradizione sanguinante restava tra i valori fondanti dell'occidente? Cosa poteva davvero arrivare a quei ragazzi che non sembrasse quello che sembrava a me: fiction, materiale per narrazione. Pezzi tagliati male, fatti che non collimavano con altri fatti ma che — comunque — la vita, la società, l'occidente ti chiedeva di fare collimare. La storia, la mia storia, più vado avanti più nella mia testa è un casino in pieno svolgimento e i pezzi del puzzle sono io che poi, a posteriori, li affianco, agganciarli non se ne parla, li affianco in modo che il disegno di insieme non sia troppo vergognoso. Dopo una certa età non pensi alla morte come una liberazione dal dolore, ma dalla vergogna. Dall'inconsistenza della tua interfaccia. Per fortuna, poi, arriva anche il dolore.