I videogiochi italiani

Penso si sia giunto il momento di parlare in tutta tranquillità di videogiochi italiani. Mi sono sempre chiesto come mai non ci sia stata una fioritura di videogiochi italiani nel corso della lunga storia videoludica. Mi sono domandato perché non sia nata una corrente, un movimento, una linea espressiva chiaramente legata al nostro bel paese e in grado di modificare o quantomeno influenzare la forma del videogioco così come la conosciamo oggi. Tanto per intenderci, mi interrogo nello specifico sul perché non si sia mai originato un filone tipo gli spaghetti-western o le commediacce anni ’70 per il cinema, cioè non solo una corrente creativa capace di catturare l’attenzione mondiale e diffondersi al grande pubblico ma anche una serie di titoli capaci per lo meno di attrarre un po’ di aficionados nostrani in virtù di una serie di riferimenti locali, tipo personaggi, usi e costumi dialettali (vedi cinepanettoni, sempre per il cinema) o giochi di parole intraducibili (alla maniera dei film di Ciccio e Franco o Totò). Invece nulla o quasi. Sì, qualche titolo automobilistico o motociclistico ma siamo lontani dal dire che siamo entrati da protagonisti, o quantomeno da espressivi caratteristi, nel media-videogioco. Perché? Proverò a rispondere con un paio di riflessioni.

1. Il videogioco si presta poco a caratterizzazioni di qualsiasi tipo

Se ci pensate, non è che le caratterizzazioni nazionali abbiano avuto un impatto molto potente sulla forma dei videogiochi. Ad esempio, avete in mente il tipico videogioco francese? O il tipico videogioco norvegese? In realtà ci sono solo grandi successi isolati che spesso non si distinguono affatto da una produzione statunitense o inglese. Se Clash Royale, per il mobile, fosse stato ideato da un manipolo di programmatori canadesi, anziché dai finlandesi della Supercell, non ci saremmo affatto stupiti. L’unica eccezione sono forse i giapponesi per due ordini di motivazioni: a) hanno avuto fortuna col genere del gioco di ruolo con combattimento a turni alla Final Fantasy al punto da considerarlo quasi “cosa loro” (difatti adesso è chiamato J-Rpg); b) hanno trasmesso l’estetica manga e anime, che tanta fortuna ha avuto in patria e all’estero, nel mondo videoludico. Al di là di questo, la dinamica di gioco obbliga nella maggior parte dei casi a regole stringenti. Solo videogiochi come le avventure grafiche o le visual novel potrebbero sfuggire a queste regole. Ma parliamo di un genere considerato abbastanza di nicchia e, non casualmente, molto più vicino al media cinematografico rispetto a tutto il resto della produzione. Questa difficoltà a fornire di caratterizzazioni nazionali o, in generale, culturali ci porta ad un’altra domanda. Posto che non abbiamo potuto, come italiani, personalizzare l’esperienza di gioco, come mai non è stato possibile creare “grandi successi italiani”? Risponderò dicendo che…

2. Il videogioco si è trasformato troppo presto in una impresa ad alta intensità di capitale

Finché il prodotto videogioco poteva essere sfornato da un paio di giovani volenterosi in un proverbiale garage in provincia di Seattle, gli sviluppatori italiani hanno avuto qualche speranza. Ma creare un videogioco da vendere voleva e vuol dire aprire una partita iva, cioè mettersi nelle mani del nostro Fisco, un’entità paragonabile ad una divinità bizzarra e mutevole. Questo ha generato una selezione avversa alla radice: solo coloro che non sanno far di conto hanno scelto negli anni passati di avviare un’impresa (perché di questo si tratta) che sbarcasse il lunario cercando di vendere videogiochi. Videogiochi che, tra parentesi, sono tra le cose storicamente più piratate e “condivise” fra i giovani. Quando i due ragazzi del garage non sono stati più sufficienti a sfornare un prodotto che potesse andare incontro al mercato, con l’ingresso del 3D e delle megaproduzioni, allora l’Italia è uscita direttamente dai giochi. Mentre all’estero, ad esempio nel mondo anglosassone, i videogiochi venivano incentivati e finanziati in vario modo in quanto rappresentanti di un settore innovativo, qui da noi vigeva un silenzio che solo recentemente qualche tardivo intervento governativo ha cercato di interrompere. Diciamo pure che il fenomeno indie ha dato l’illusoria sensazione, negli anni passati, che bastasse far uscire una pretenziosa boiatella dichiaratamente non mainstream per diventare sviluppatori professionisti di giochi, attirando una schiera di ragazzotti senza arte né parte e facendo enormemente crescere delusioni e frustrazioni. Insomma, il videogioco non è sfuggito nel nostro paese alle dinamiche di tutti gli altri settori economici. A quanto pare oggigiorno, se lo Stato non finanzia, le cose non esistono. Si può cambiare questo andazzo pericoloso ma a costo di grandi sacrifici o di miracoli, tipo singolarità tecnologiche, magiche o mistico-esistenziali. Al momento però è così.

3. Il videogioco sconta la crisi del nostro sistema culturale

Parliamoci chiaro: cosa abbiamo prodotto di recente come biglietto da visita nel mondo a parte Paolo Sorrentino che imita a modo suo Federico Fellini (già uno che viaggiava tanto di nostalgia)? Poco o nulla – è ancora la risposta. Questo perché la cultura, come diceva Henri Laborit, non è quella bella parola che ci vogliono far credere ma è la cultura dei dominanti sui dominati. E noi, come Italia, siamo evidentemente dominati. Intendiamoci bene: non voglio fare il nazionalista perché non c’è nulla che mi disgusti di più. Però, a livello culturale almeno, dominati lo siamo. Forse lo siamo per mancanza di entusiasmo, di fantasia, di stimoli. Ma l’umore, detto tra noi, non è particolarmente buono dalle nostre parti e l’atto creativo richiede molta energia. Vedo l’effetto di questa dinamica anche sulla mia persona. La crisi del videogioco non è forse il sintomo più evidente di tutto questo e probabilmente è sbagliato utilizzare una riflessione sul videogioco per allargare il discorso ad una crisi generale della genialità, dell’immaginazione, della prospettiva futura. Ma questo è un blog di videogiochi e se si vuole capire quel che accade al centro bisogna prima analizzare la periferia (come dicevano quelli) ovvero i fenomeni minori, i piccoli dettagli, le constatazioni insignificanti. Come il fatto che l’Italia non è la campione mondiale della produzione di videogiochi di successo. Per colpa degli Illuminati di Baviera.

Gippo for Comitato Yamashita