Negozionisti 2

Non ero più stato a passeggiare vicino alla vecchia palestra. Mi era sempre piaciuta quella zona, leggermente sopraelevata rispetto alla statale, una sorta di mini-quartiere residenziale nascosto al traffico grazie al dislivello e alla strada in salita. Gli edifici più grandi e ormai dismessi li preferisco perché testimoniano la fine di un'era in cui pensavamo che avremmo potuto erigere impunemente mastodontiche cattedrali personali nella convinzione di vivere in uno Stato democratico e liberale. Per un po' era stato bello: si poteva fare qualunque cosa e nessuno ti rompeva le scatole. Poi era arrivata la burocrazia, erano giunte le tasse sugli immobili, era arrivata la crisi.

Ma la crisi passerà, stringete i denti, abbiate coraggio, siate imprenditori di voi stessi.

Però la crisi non passava. E siccome tutti non ci si poteva mettere a spacciare la droga, qualcuno si organizzava per realizzare il suo sogno. Un sogno strano, che comportava sempre il faticare, possibilmente in una attività professional lavorativa degna di questo nome. Un'attività in attivo, altrimenti si sarebbe chiamata passività. E così ecco che piccole combriccole di personal trainer, giovani e bellissimi, sodi e atletici, si univano in forma di cooperativa o associazione per affrontare il mercato in espansione del wellness/fitness. Tra questi, l'associazione che gestiva la vecchia palestra. Avevo letto qualche anno fa la triste fine della palestra. C'erano lavori da fare, non si poteva più andare avanti con le infiltrazioni. Ma il proprietario non voleva collaborare. Aggiungiamoci la crisi (ma passerà!) e la diminuzione degli introiti. Due calcoli freddi (Ma è il tuo sogno! Ci vuole coraggio! Sii imprenditore di te stesso!) e subito appariva evidente che la spesa era improba. Paola fece un bellissimo e struggente post su Facebook sulla fine del suo sogno, anche se forse non si chiamava nemmeno Paola. Comunque, pur non avendola mai vista, Paola la immaginavo con due glutei sodissimi, non per sminuire le sue toccanti riflessioni con una sessualizzazione fantastica ma per fare da contrappeso alla loro mestizia, in una sorta di equilibrio fra yin e yang.

Arrivando vicino alla palestra getto uno sguardo verso la vecchia officina. C'era dentro una volta un'auto d'epoca, arrugginita e senza finestrini, ma adesso non c'è più. C'era anche un piccolo congegno di quelli che si trovavano nei luna park degli anni 80-90, un accricco che stampava fogliettini in cui veniva rivelata l'affinità sessuale di coppia dietro versamento di monetina. A quel tempo non sapevo che esistesse una cosa chiamata affinità sessuale di coppia, anche se guardare Edvige Fenech nuda mi provocava formicolii al basso ventre che non mi sapevo spiegare. Comunque nemmeno quel congegno c'è più, sparito con tutta la sua magia cialtrona, tipo le inserzioni che vendevano gli occhiali a raggi X. O il conte Dante e la famigerata tecnica della mano velenosa.

L'officina è stata ripulita, riverniciata, rimessa a nuovo, svuotata. Lasciare i vecchi cimeli pare brutto in questi ultimi anni di cosmesi in putrefazione, allora meglio dare una mano di vernice, ristabilire il giusto decoro, anche quando non c'è più nulla da decorare. Passo avanti e la palestra è ancora lì. Almeno lei sembra la stessa. I vetri sono sempre sporchi ma trasparenti e dentro scorgo ancora il baretto e qualche tavolino spoglio e scolorito dove i soci dell'associazione, nonché clienti, potevano degustare un caffè. Ma sobbalzo di fronte ad una visione: una ragazza diafana, dai lunghi e lisci capelli corvini, appare da dietro il bancone e mi sorride. Rimango a bocca aperta e non riesco a muovermi mentre la vedo avvicinarsi alla porta a vetri per aprirla. Ha una tuta in acetato con una strana fantasia che sembra il tipico motivo di un kimono giapponese. “Salve!” mi dice “Entri, prego”. La voce è calda e vellutata e io, superando il mio imbarazzo, decido di obbedirle. “E' un frequentatore abituale di questa palestra?” “Degli esterni di questa palestra, sì” dico con sincerità “Un po' meno degli interni...” Lei mi guarda atteggiando una smorfia perplessa inclinando il capo, poi mi sorride. E rimane in silenzio. Mi sento a mio agio, stranamente, inspiegabilmente a mio agio, e osservo al di fuori dei vetri scoloriti. Solo una volta sono entrato in quella palestra per informarmi sulla tariffa mensile. Ero deciso a frequentarla perché mi sembrava il buon viatico per un cambio radicale della mia vita. Mi piaceva anche la ragazza al bancone ma non era la stessa anche se era comunque mora. La nuova ragazza mora è più magra e il suo corpo non emana una grezza fisicità come la receptionist di un tempo, ma una inspiegabile, leggera, elegante sensualità. “Non sono la stessa” dice lei e in quel momento non rifletto appieno sull'implicazione di quell'osservazione. Cioé che mi ha letto il pensiero. Ho l'improvviso, impellente bisogno di interrompere il silenzio. “Quando c'era il lockdown, mi ero ripromesso che, non appena fossero ripartite le palestre, mi sarei iscritto.” “Ma non l'hai fatto” osserva lei con durezza, dandomi irriguardosamente del tu “E adesso ci sono nuove guerre, nuove emergenze, nuove cose che debbono occuparci la mente.” “Ma non si può fare più nulla?” chiedo io con una montante angoscia. Perché questa conversazione sta diventando all'improvviso così spiacevole? Non dovrebbe fare qualcosa per attrarre il suo cliente? Perché vuol farmi sentire in colpa anziché blandirmi, coccolarmi e vendermi un abbonamento? Ma forse ragiono coi pensieri di un'altra epoca. Un'epoca passata in cui si era imprenditori di se stessi e con coraggio si realizzavano i propri sogni con la PNL. Un'epoca in cui c'era una fortissima necessità di cantati e ballerini e si allestivano talent show alla bisogna. Ancora una volta la ragazza mora sembra intuire ciò che penso, il mio disorientamento, e mi sorride lievemente, raddolcendo i lineamenti che si erano fatti all'improvviso austeri. Mi prende la mano destra con la sua sinistra e usa l'altra mano per accarezzarmi delicatamente il dorso col suo palmo. Non sono più abituato a questo contatto così intimo con una sconosciuta. “Vieni” mi dice con voce leggera. Trascina la mia mano con dolcezza nella zona degli attrezzi, lontano dalla vista della strada. Si siede sul bordo di una panca e mi mette a sedere di fronte a lei, come due fidanzatini sul muretto. Mi sembra di aver già vissuto quel momento ma non ricordo quando. E nel frattempo i suoi capelli sono diventati ricci. “Ma come...” “Tu hai una specie di passione per le ragazze ricce, no? Quelle ricce ovunque...” Arrossisco come uno scolaretto alla sfacciataggine dell'affermazione. Lei mi appoggia la mano sulla guancia e mi chiede: “Mi dai lo smartphone?” “Vuole controllarmi il green pass?” chiedo, senza il coraggio di rinunciare ancora a darle del lei. La sua risata mi spiazza. “Ah! Ah! Ah! Il green pass!” Non indago oltre e obbedisco. Lei prende lo smartphone e impone la mano sullo schermo. Poi me lo restituisce. “Ora va meglio” dice. Osservo il telefono e c'è solo uno schermo blu con lo screensaver della parola che rimbalza sui bordi. La parola però è in caratteri che non riesco a decifrare. Cirillico? Tailandse? Ripongo allora lo strumento, sapendo che sarà inservibile da ora in poi. Nel farlo, sulle pareti della palestra scopro fotografie che non avevo notato al primo ingresso, vip che forse hanno frequentato la struttura. Miguel Bosè, Enrico Montesano, Pippo Franco. “Stai facendo qualcosa per questa situazione?” mi chiede. Mi giro. I suoi capelli sono di nuovo lisci. “A che proposito?” D'un tratto capisco le foto. Ma non mi esce nessuna parola di bocca. Così parla lei. “Non devi distrarti” mi dice “E' tutto collegato ma non come pensi. Cerchi responsabili, piani, progetti ma cosi facendo perdi di vista la sostanza, che è molto più semplice. Devi osservare questa palestra. Non è diverso da un prestigiatore che agita una mano mentre il trucco si realizza nell'altra.” Rifletto su quello che mi ha detto. Osservo meglio la palestra attorno a me e al posto dei vip negazionisti c'è la foto del conte Dante e vari schemi con la descrizione della sua famigerata tecnica della mano velenosa. Dalla bocca mi partono spontanee una gragnuola di domande. “Ma... non capisco. Dovrei avere una specie di intuizione? Sta tentando di illuminarmi con strane metafore? Sono forse come Neo di Matrix? E Matrix non era solo una complessa allegoria sul cambio di sesso dei fratelli Wachowsky?” Lei non risponde. Nel frattempo si è girata di spalle. Poi, lentamente, la vedo voltarsi verso di me, con espressione impassibile. “Non hai capito un cazzo.” dice serafica. Sospira e si degna di spiegarmi. “Devi osservare la palestra. Che è chiusa. E' tutto molto semplice in effetti...” Di fronte al mio sguardo perplesso prosegue, con tono paziente: “Ricordi quando la prima ditta per la quale hai lavorato stava per fallire? Ad un certo punto era chiaro ed evidente, specie per chi stava in amministrazione. Eppure si facevano ancora le cene aziendali. Si pensava ancora di superare un momento difficile. Si parlava del fatto che la crisi potesse essere un'opportunità. I tuoi titolari non avevano una particolare predisposizione per la letteratura, erano persone pratiche come tutti gli imprenditori. Ma se avessero avuto una formazione accademica nelle lettere ti avrebbero spiegato che crisi deriva dal greco e vuol dire crescita.” “Quante cazzate si dicono...” “Già, ricordi com'era a quelle feste?” “Ballavano tutti” rispondi. “Ballavano come dei matti. Ricordi il camionista con la venditrice tedesca?” “Come sai...” “Non importa come so.” “Ricordo che mi chiese chi fosse quella venditrice e io glielo spiegai. Ricordo che era un po' forte di fianchi ma a lui non importava anzi...” “Anzi...” “Anzi, si buttò in pista verso la venditrice tedesca ripetendo il suo ultimo commento sul suo fisico.” “Che era?” Non rispondo. Come un flashback cinematografico rivedo il camionista che avanza a saltelli tipo l'Alberto Sordi de “Il medico della mutua” (solo a ritmo più rapido) lanciando il suo grido di guerra coperto dalla musica: “E' una chiappona arraposaaa!”. Di fianco l'amministratore prestanome, scatenato con sua moglie, prima di darle il benservito per la assai più giovane receptionist. C'era una sorta di disordinata energia sessuale nell'aria. Ma poi s'era capito che non si poteva continuare così, come se niente fosse. E i più “fedeli” avevano cominciato ad abbandonare la nave. Il titolare pensava che il mondo fosse improvvisamente impazzito. Il tutto era stato rapido, la nave si era inabissata in fretta. “Capisci ora?” mi chiede la ragazza. “Capisco” le dico “La palestra è chiusa. Da circa cinque anni.” “Esatto. Da prima del Covid.” “Prima del Covid.” ripeto a pappagallo. “Da prima della dittatura sanitaria.” “Prima della dittatura sanitaria.” “Da prima della guerra.” “Prima della guerra.” “Da prima degli alieni, dell'applicazione pratica dei viaggi nel tempo, della scoperta della nuova forma di energia libera e inesauribile per la quale Nikola Tesla fu ucciso.” “Eh?” “Lascia perdere” mi dice ridendo. Ma guarda te se una ragazzetta deve prendermi in giro così impunemente... Ancora immersa nelle sue risate, la vedo scomparire pian piano, senza che ci possa fare nulla. Anche stavolta la sacca temporale si è riassorbita. Controllo di nuovo il mio telefono: inutilizzabile. Ma in un angolo del display c'è una sorpresa. E' rimasto attaccato un capello (?) riccio.

Gippo for Comitato Yamashita