Negozionisti 4 – Il campetto da basket

E' così alla fine era come avevo intuito qualche mese fa, o forse qualche anno fa. I negozi avevano cominciato a chiudere perché non c'era più alcuna convenienza a tenerli aperti, tra affitto, tassa rifiuti e bollette. Però qualcosa doveva prendere il loro posto. Magari delle saracinesche verniciate in colori sgargianti, oppure delle vetrine con delle decalcomanie artistiche o oscuranti. Qualcuno riapriva, eh. Ma erano tutte robe per donne, affinché diventassero e/o restassero belle: cosmetica e accessori, estetiste, parrucchiere. Ah, sì, poi il cibo. Se escludavamo i bisogni estetici delle donne, che poi non è che fossero così alti nella piramide di Maslow (vedi voce riproduzione), restavano solo quelli primordiali del nutrimento, anche se un nutrimento eccessivo e sovrabbondante, talvolta superfluo, talvolta impreziosito da una spruzzata social ma pur sempre il classico, intramontabile bisogno primario che ci aveva accompagnato dalla notte dei tempi: mangiare (e bere). In compagnia, certo. Annamose a fa' 'na magnata! A questo stavo pensando mentre ritornavo a camminare per il paese. Sapevo che non osservavo obiettivamente, sapevo che il mio sguardo era viziato da una visione selettiva e pessimista. Il Covid mi sembrava lontano ma ogni volta che camminavo da solo non potevo fare a meno di pensarci, anche ora che di tempo libero ne avevo sempre meno. Adesso andava di moda il PNRR e la cittadina si andava riempiendo edifici inediti, con facciate nuove, linee sfavillanti, vernici eco-friendly, coibentazioni a norma, strutture antisismiche. Eppure, che so, si faceva un nuovo ospedale e nello stesso tempo i giornali scrivevano che mancavano i medici e i macchinari specialistici. Oppure si edificava una nuova struttura con finalità sociali e i soliti giornali dicevano che c'era una fuga di giovani, un disimpegno generale, una socialità contratta e limitata alla magnata conviviale accompagnata da un alcol eccessivo e foriero di piccoli, insignificanti episodi di cronaca molesta. Insomma, si privilegiava la forma sulla sostanza e non c'era null'altro che poteva plasmare meglio la forma del paese se non la cara, vecchia edilizia coi suoi pittoreschi costruttori sempre sulla cresta dell'onda (oppure falliti, a scelta).

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Sì, stavo pensando proprio questo mentre andavo a cercare il campetto da basket. Avevo letto che l'avevano rimesso a disposizione per chiunque volesse utilizzarlo, in modo libero e senza lucchetti o cancelli. Non avevo portato con me il pallone, il mio era il solito vile sopralluogo che si fa in genere quando non si hanno le palle per buttarsi subito nel vivo dell'azione. C'era un ragazzino, forse terza media o primo superiore, un po' scuretto – se così si può dire, che si allenava da solo palleggiando da un canestro all'altro e provando alternativamente il tiro. Era abbastanza robusto per la sua giovane età ma la palla gli pesava e non gli entrava. Rimasi un po' ad osservare da lontano e pensai che un ultraquarantenne che si mette a giocare uno contro uno a basket con un ragazzino è improponibile, a meno che non sia suo padre o suo zio. Poi vidi fermarsi anche una monovolume metallizzata da cui scese una famigliola: padre, madre e soprattutto figlia con pallone da basket sottobraccio. La ragazzina era alta e robusta, più alta e robusta del ragazzino scuretto, e sembrava particolarmente entusiasta. I genitori le avevano detto: “Solo un paio di tiri poi basta” il che mi fece pensare che, forse, la ragazzina aveva un piccolo ritardo mentale o era una gigantessa bambina un po' sgraziata nel suo infantilismo. Fu in quel momento che mi ritrovai al fianco la ragazza mora. Quella coi capelli lunghi. “Ciao” mi disse semplicemente. Aveva una tuta rossa dei Chicago Bulls e un berretto da baseball. Insomma, era in tenuta sportiva. “Ciao” le risposi e, in virtù della confidenza creatasi dai nostri precedenti incontri, le chiesi subito di rimando: “Come ti sei conciata?”. “Sono vestita da manager di un club giapponese di basket”. “Con una tuta dei Chicago Bulls?”. Ovviamente lei non rispose. Erano già tre volte che la incontravo e non avevo ancora capito chi era, nè perché sapesse così tante cose di me, nè perché ci tenesse a vedermi nei momenti chiave delle mie passeggiate solitarie. La vidi armeggiare con il suo orologio digitale (no, non era uno smartwatch) e, dopo un paio di rapidi sfioramenti di display, avvertii una strana, improvvisa sensazione di vertigine. Mi sentii girare il capo e...

*** Tornato cosciente a me stesso chiedo: “Cosa è successo?”. “Niente” mi risponde lei “Lo scrittore si era stancato di usare il tempo al passato remoto e allora ho attivato uno slittamento temporale”. “Non ho capito” dico. Lei fa un gesto di noncuranza con la sua manina candida e delicata, come a dire che non è una cosa importante e comunque per me è troppo difficile da capire, così non insisto nell'esigere spiegazioni. Girandomi verso il campo da basket però, noto come il ragazzino scuretto, la ragazzina gigante e i suoi genitori sono perfettamente immobili. Nel caso del ragazzino, registro con orrore la posa a mezz'aria, le punte di piedi a venti centimetri dal suolo, la mano ancora protesa nell'atto di spingere il pallone, lanciato e al contempo immobile in cielo verso un canestro ad un paio di metri di distanza: una scena innaturale e impossibile secondo le leggi della fisica. Così come è impossibile la fissità degli altri attori di quella specie di foto dal vivo a cui assiste il mio sguardo incredulo. “Co-cosa è successo?” la domanda è balbettante ma stavolta non mi accontenterò di un invito a glissare. “Niente” mi risponde di nuovo lei “ho solo attivato il mio stop-watch”. “Lo stop-watch?” “Non far finta di non conoscerlo, proprio tu che vedi tutto quel porno giapponese!” “Non vedo affatto tutto quel porno giapponese, come lo chiami tu, e comunque non sono porno ma AV, ovvero Adult Video e comunque, sì, forse ne ho visti un po' in passato ma ora non più e comunque la serie con lo stop-watch non era la mia preferita!”. “Yeah, yeah, whatever” risponde lei sibillina, guardando di fronte con uno sguardo indecifrabile. Rimango sospeso anch'io in quella situazione assurda, la ragazza mora che non parla e i giovani dilettanti del basket che fanno le belle statuine imprigionate nelle loro pose. Non so come spezzare quel momento, è come se anche per me, che pure sento di avere la facoltà di muovermi e parlare normalmente, fosse stato premuto un tasto per bloccarmi. Poi, per fortuna, la ragazza mora ricomincia a parlare. “Verso la fine degli anni '40, a seguito di un esperimento di un gruppo di scienziati capitanati da Ettore Majorana, lo spaziotempo ha iniziato a collassare.” Trascorro qualche secondo in silenzio per metabolizzare quello che ha detto. Avevo capito in passato che lei era una specie di viaggiatrice del tempo e avevo fatto qualche congettura in merito ma non ero approdato a nulla. E quello che aveva appena rivelato non illuminava certo il campo delle ipotesi con la luce dell'intuizione... “Ce ne siamo accorti subito” continua lei girando la testa e guardandomi negli occhi “E temevamo se ne accorgessero tutti. Difatti c'era un fenomeno immediamente evidente che sapevamo sarebbe cresciuto a livello esponenziale: il tempo avrebbe sempre più accelerato”. “Accelerato?” “Certo. Restando invariati gli strumenti di misurazione, adeguati al nuovo ritmo, ciò che prima si completava in un'ora avrebbe richiesto sempre più tempo nominale: un'ora e dieci, un'ora e venti, un'ora e mezza... Le giornate di 24 ore si sarebbero sempre più effettivamente accorciate sotto il peso e la durata delle cose da fare. Non dirmi che non te n'eri accorto?” mi chiede con un sorriso sardonico. Io non so cosa risponderle. “I principali governi vennero subito a conoscenza del fatto e, per evitare il panico, cominciarono a cercare un modo per camuffare questa accelerazione e, possibilmente, invertirla. Per inciso, invertire questa accelerazione, magari fino a bloccare il tempo, ci avrebbe forse consentito di raggiungere il sogno dell'umanità: la vita eterna pur se condensata in un attimo che non passa mai. E d'altronde era questo lo scopo di quel primo esperimento che, fallendo, aveva ottenuto l'effetto contrario”. La ragazza mora fa una pausa per poi riprendere. “La guerra venne conclusa in fretta e furia e la propaganda bellica venne riconvertita interamente allo scopo di dissimulare nella popolazione l'accelerazione del tempo. A questo scopo vennero instillate una serie di false idee a cui si diede l'avallo farlocco di una manipolata autorità scientifica”. “Ad esempio?” chiedo. Non ero ancora sicuro di voler credere a quello che mi stava dicendo. “Ad esempio l'idea che sentire il tempo accelerare era una cosa legata all'età, cioè che vivendo più tempo e comparando il tempo presente con la massa più ampia di quello già vissuto, il presente potesse sembrare più breve. In pratica veniva detto che la percezione personale era in grado di ingannarci mentre in realtà eravamo noi stessi a ingannare la percezione delle masse suggestionandole con questa finta considerazione pseudopsicoscientifica”. “Se permetti” mi intromisi “quella che mi hai descritto è una considerazione un po' di nicchia. Un pastore abruzzese, una casalinga di Treviso, un bracciante lucano non hanno certo mai sentito questa storia...” “Infatti non si tratta dell'unico mezzo usato per confondere la gente. Un altro mezzo, il principale, è stato quello di rendere più frenetica la vita delle persone aumentando impegni e mansioni. Anche virtuali o inutili, tipo consultare Facebook o guardare la Tv o partecipare alla riunione di una associazione culturale del tartufo molisano. Per non parlare della più mastodontica e oppressiva istituzione ideata per occupare il tempo: il lavoro salariato post-rivoluzione industriale: fummo costretti a viaggiare indietro nel tempo fino al 1700 per crearlo. In pratica ci attrezzammo per fornire alle popolazioni uno o più capri espiatori cui dare la colpa dell'improvvisa carenza di tempo. E tutto questo funzionò abbastanza bene finché, nel 2012, non decidemmo di fare l'esperimento del Cern di Ginevra”. “Decidemmo? Ma chi siete VOI?” interrompo per domandare. “Ironia della sorte” continuò lei ignorandomi “non solo non invertimmo l'accelerazione del tempo ma aumentammo ancor di più la sua intensità. E oggi non riusciamo più a nascondere nulla, nè ad invertire alcunché”. “Aspetta un attimo, non mi hai affatto convinto!” dico “Se nel 1950 certi film duravano, ad esempio, un'ora e trenta minuti, com'è possibile che adesso abbiano la stessa durata?”. “Come misuriamo il tempo?” mi chiede lei pazientemente “Come ti ho detto, con degli strumenti. Questi sono basati sull'oscillazione della frequenza di minerali come il quarzo oppure l'oscillazione degli atomi, o anche la posizione del sole. Ma se tutti questi elementi inorganici accelerano con l'accelerazione del tempo, è come se vi restassero sincronizzati senza cambiare mai velocità rispetto ad esso. Gli unici che possono avvertire l'accelerazione del tempo sono gli organismi viventi, che debbono adattarsi ad esso.” La ragazza mora mi vede un po' perplesso. Difatti sto valutando seriamente per la prima volta le sue parole. E mi sono perso. “Uhm, forse ho messo troppa carne al fuoco...” dice lei “Facciamo così, ci aggiorniamo alla prossima puntata!”. La vedo toccare un'altra volta lo schermo e faccio appena in tempo a urlare: “Aspetta! Ho bisogno di più tem...”. Con la coda nell'occhio, registro nel campetto il pallone da basket che stavolta termina la sua corsa dentro al canestro mentre il ragazzino atterra sulle sue scarpe. La bambina gigante corre felice palleggiando verso l'altro canestro, sotto l'occhio attento dei suoi genitori. E la ragazza mora, nemmeno occorre dirlo... scomparve.

***

Molti pensieri si affollarono nella mia mente. Oltre alle solite domande che sempre vengono fuori quando si tratta di incongruenze nel ragionare di viaggi nel tempo. Cose del tipo: ma se sono tornati indietro fino al 1700 per distrarre le masse con la creazione del lavoro salariato moderno, non era più semplice ritornare semplicemente agli anni 40 per impedire al gruppo di Ettore Majorana di accelerare il tempo per colpa dell'esperimento fallito? Evidentemente quest'accelerazione, seppur effetto non voluto, aveva infine trovato una qualche utilità o un qualche scopo recondito al quale loro non volevano rinunciare. Ma chi erano loro? E quale poteva essere questo scopo? “Sticazzi” urlai entrando in campo e sottraendo la palla al ragazzino scuretto e alla bambina gigante. Quindi, tirando con la mano destra e la sinistra, infilai contemporaneamente, nello stesso preciso, millimetrico istante, i due palloni a spicchi nel medesimo canestro.

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