🌧️💭 A volte ti ritrovi depresso senza neanche saperlo 😔🌈 Come il viaggio mi aiuta a stare meglio.

In questo episodio ti racconto quanto rapidamente ci si può avvicinare all'abisso della vita se sei un malato invisibile.

“Le aziende sono ben felici di approfittare degli sgravi fiscali e delle sovvenzioni che hanno se assumono personale con una disabilità riconosciuta. Ma se la disabilità non è riconosciuta, come nel mio caso, nel caso di tanti altri, beh, allora sei un peso. Non importa quanto tu provi a spiegare che non dipende tutto da te, non verrai mai creduto.”

Se preferisci ascoltare questo episodio, il 14°, anziché leggerlo, puoi farlo a questi indirizzi:

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Nella vita tutti abbiamo alti e bassi: periodi in cui tutto va meglio rispetto ad altri momenti. In quei mesi o anni siamo all'apice delle nostre possibilità,e poi ci sono altri periodi in cui le cose non vanno. A volte non ci accorgiamo che le cose ci stanno andando bene, non ci pensiamo più di tanto. È soltanto dopo, guardandoci indietro, che realizziamo di essere stati felici anche se non lo sapevamo. D'altra parte eravamo così impegnati a raggiungere i nostri obiettivi che non ce ne siamo resi conto.

Per me il 2010 era uno di quei momenti.

Frequentavo la palestra regolarmente e il mio corpo diventava sempre di più come lo desideravo: forte, muscoloso, bello, vitale. Nonostante qualche difficoltà, stavo riuscendo a dare gli esami più difficili all'università, analisi matematica 1 e 2. Il lavoro era lontano, sì, ma sembrava andare tutto bene e poi c'era in vista l'acquisto della mia prima casa di proprietà: arredamento, progetti, piani per il futuro. Avevo finalmente ripreso a viaggiare dopo qualche anno in cui non mi era stato possibile.

Avevo incontrato Steve Vai, il mio riferimento musicale del momento. In quanti possono dire di avere avuto la fortuna di incontrare il proprio idolo? Io credo pochissimi.

Eppure, sentivo che mi mancava qualcosa. L'incontro con lui e i suoi consigli mi avevano dato la carica per suonare, suonare e suonare ancora.

Con il passare del tempo e l'estrazione dei denti del giudizio, le crisi di fatica sembravano non tornare più. Ero contento perché mi sembrava di avere risolto anche questa situazione. Avevo anche trovato un nuovo gruppo in cui suonare non troppo lontano da casa. Il proprietario della casa in cui suonavamo aveva un organo Hammond originale degli anni '70. Suonavamo i Deep Purple come bere un bicchier d'acqua e poi qualsiasi altra cosa ci venisse in mente. Quelle jam sessions mi piacevano molto. Si poteva imparare moltissimo improvvisando, lasciandosi trasportare, intendendosi con gli altri al volo su come fare avanzare un'idea. Può sembrare strano ma si arriva a capire in quale momento tutti cambieranno tempo o accordo, anche senza parlare.

Mi piacevano molto i Black Crowes in quel momento, e tante delle cose che suonavo lì ricordavano il loro stile, pieno di influenze diverse, dal soul al blues al rock, e mi piacciono molto ancora. Suonavamo sempre per il piacere di suonare, a volte fino alle 2:00 del mattino o anche alle 3:00. Dormivo magari 3 ore e poi via a lavorare a Bologna. Se ci penso oggi, non capisco come facessi. Mi sembrano i ricordi di un'altra persona. A forza di suonare, esercitarsi, passare tante ore ad ascoltare musica, a un certo punto qualcosa si era come sbloccato. Avevo fatto un altro salto di livello. Le mie dita e il mio cervello all'improvviso avevano imparato a trasformare in note quello che avevo in testa e nel cuore con sempre maggiore precisione e accuratezza. Poche sbavature, pochissimi errori, suoni delicati o arrabbiati, ma sempre molto precisi.

L'ausilio dell'elettronica era entrato nella normalità del mio strumento dopo che Steve mi aveva fatto capire che non era un punto di arrivo, ma un mezzo. Ora riuscivo a suonare la musica del maestro e a suonare meglio anche quella di Joe Satriani. Anzi, non capivo come avessi fatto prima a non riuscirci. In realtà era così semplice! Riuscivo a suonare anche altro naturalmente, o a suonarlo meglio: Jimi Hendrix, il brasiliano Kiko Loureiro, i pezzi straordinari di Guthrie Govan. Non ogni singolo brano, certo, ma tanti, tantissimi. Finalmente avevo raggiunto l'apice che sognavo sin da quando avevo messo le mani sullo strumento più di 20 anni prima. Quello era soltanto l'inizio. Era ora di fare un altro salto di qualità. Dovevo cercare un gruppo in cui suonare e con cui sarei arrivato, beh, se non lontano, da qualche parte.

Tutto questo non era altro che altra benzina per il mio ego. Anche sul lavoro le cose spingevano in questo senso. Come informatico, ero il punto di riferimento in azienda per tantissimi colleghi e le loro necessità quotidiane: problemi di stampa, di posta elettronica, di navigazione, e tutto il resto. Non avevo un attimo di pace, ma mi piaceva questo stato di cosa. Mi dava l'impressione di contare qualcosa e che tutti mi cercassero, anche se non avevo ancora un titolo di studio avanzato che nel giro di poco comunque sarebbe arrivato, ne ero certo.

Però...però stava accadendo qualcosa attorno al 2014.

[...]

Le crisi di stanchezza non c'erano più già da tempo, ma comunque ero sempre più stanco. Mi alzavo già stanco al mattino, anche quando non andavo a suonare fino alle 3:00 di notte. Qualcuno mi diceva: “Beh, hai 37 anni ormai, cosa pretendi?” Ma io sentivo che c'era qualcosa di più del normale invecchiamento. Paradossalmente, per dormire avevo sempre più bisogno di prendere qualcosa: melatonina, prodotti di erboristeria come tisane, oppure avevo bisogno di stancarmi molto. La palestra in questo senso mi aiutava. E a proposito della palestra, i tempi di recupero normali non mi bastavano più. Da quattro volte a settimana cominciai ad andarci tre volte, poi due. Con il passare degli anni facevo cose più leggere, eppure avevo bisogno di tanti giorni in più per recuperare e fare sparire il dolore muscolare. A volte mi serviva una settimana, cosa che vanificava ciò che avrebbe dovuto essere più frequente. Gli episodi di tendinite, torcicollo e dolore cervicale erano sempre più frequenti. Parlandone con il mio personal trainer, riuscivamo sempre a trovare qualcosa che riuscissi a fare, ma era evidente che stessi andando indietro anziché avanti. Eppure tanti altri della mia età e senza essersi allenati per 20 anni come nel mio caso, riuscivano a fare ben di più!

Io solo qualche anno prima potevo alzare senza problemi un bilanciere di 160 kg da terra o fare squat, dei piegamenti verso il basso sulle gambe, con 100 kg addosso, o ancora muovere 250 kg nella pressa per le gambe. Chi frequenta la palestra sa che sono livelli che non tutti raggiungono. Lentamente, però, era arrivato il momento di dimezzare questi carichi e sentivo che ancora non bastava. Le presunte manifestazioni di allergia nella mia tibia erano sparite da qualche tempo con mia grande gioia e potevo finalmente tornare a mettermi i pantaloni corti. Ma queste chiazze di pelle squamosa e fragile non sparivano dalle mie mani, che continuavano anzi a spaccarsi, anche se un po' meno di prima. Avevo preso l'abitudine di usare chili e chili di crema idratante per mantenere la pelle elastica e far sì che si rompesse un po' meno, ma questo complicava molto il mio rapporto con la chitarra. Difficile suonare uno strumento con le mani unte, o, se per questo, fare qualsiasi altra cosa!

Una dermatologa che avevo visto mi aveva detto chiaramente che si trattava di psoriasi, non di allergia. Ero sempre più abbattuto per questa malattia che sembrava non trovare una soluzione e anzi evolveva, peggiorava. Ogni tanto, suonando, le mani avevano delle difficoltà, non si muovevano più come volevo. Erano sempre in ritardo rispetto alla mia mente e anche a livello mentale c'erano enormi difficoltà. Cose che un giorno mi sembravano semplicissime, il giorno dopo non riuscivo neanche a concepirle, figuriamoci a suonarle. Ascoltavo le registrazioni fatte il giorno prima e mi chiedevo se le avessi suonate davvero io. Sembravo un'altra persona. Dopo tanti anni a studiare le scale musicali, non riuscivo neanche più a ricordarle mentre suonavo.

Continuavo ad andare a trovare i miei nel fine settimana. Guidare da Reggio al paese dove ero cresciuto non era un lungo tragitto, eppure sembrava sempre più impegnativo e avevo la paura costante di addormentarmi durante la guida, cosa che un paio di volte è anche successa, per fortuna senza conseguenze gravi. Mi risvegliavo, ad esempio, nella corsia di sorpasso in autostrada senza ricordare come ci fossi arrivato. Poi presi l'abitudine di cantare, e uso questa tecnica ancora oggi: mi tiene sveglio abbastanza bene. Era chiaro però che c'era qualcosa che non andasse nel mio corpo. Oltre ai colpi di sonno, alcune falangi mi facevano male, ma non ricordavo di avere preso colpi o di averle sforzate così tanto in palestra. Era questa qui la vecchiaia? Finalmente era arrivata a 37 anni? Era colpa della palestra, forse?

Mio fratello mi segnalò alcuni rimedi ayurvedici che aveva visto online e che stava per ordinare dall'India. Si presumeva che servissero per il tono muscolare, tendini, la lucidità mentale e i dolori articolari. Per puro caso erano gli stessi che mi aveva consigliato il medico indiano tanti anni prima, ammesso che fosse un caso, e che allora non avevo preso. Senza pensarci troppo, ordinai quelle compresse. Arrivarono in un barattolino di plastica blu che sapeva di India e, una volta aperte, mi tornò in mente perché non le avevo prese allora: il loro inconfondibile tanfo.

Però, una volta prese mi accorsi che le dita mi facevano meno male e avevo un po' più di brio a livello mentale. Ero più lucido, più presente nel momento. Molto bene: lavorare sarebbe stato un po' più facile.

L'effetto durò per un po', ma poi le compresse finirono.

In più di un'occasione al mattino non riuscivo neanche a mettere in moto la macchina. Girare la chiave mi provocava un dolore intenso in tutta la mano destra, non più una falange ma tutta la mano. Un dolore così forte che non riuscivo a fare forza e girare la chiave o a muovere la mano in nessun modo. Dovevo girare la chiave prendendo la mano destra e facendola ruotare con la mano sinistra o non sarei riuscito a mettere in moto la macchina. Davvero non riuscivo a capire. Non riuscivo a capire perché fosse proprio quel movimento a mettermi in crisi o da dove provenissero questi strani dolori che poi sparivano apparentemente da soli, magari il giorno dopo o solo poche ore dopo.

Ero sempre così stanco! Pensavo che questa stanchezza fosse la causa per dei vuoti di memoria che avevo sempre più spesso. Piccole cose che però rendevano il lavoro sempre più difficile. Sembrava che anche le informazioni che avevo acquisito e consolidato non fossero più disponibili nel mio cervello. Il lavoro mi stava rendendo sempre più stanco e anche la mezz'ora a piedi che mi separava dalla stazione di Bologna all'ufficio cominciava a sembrarmi qualcosa di insormontabile. Arrivavo tardi in ufficio e avevo iniziato a usare l'autobus. Sempre più stanco, sempre più svogliato. Alla fine, visto che tutta la situazione lavorativa stava peggiorando ed ero sempre più carico di lavoro e di stanchezza, nel 2016 decisi di cambiare lavoro dopo 11 anni di permanenza nella stessa azienda. Così, mi dicevo, sarebbe stato più semplice portare a termine la laurea.

Purtroppo niente da fare. Il nuovo lavoro era stato palesemente un grande errore di valutazione. La mia memoria poi si era rivelata comunque inaffidabile. Non riuscivo ad imparare né in quel lavoro né per gli esami all'università, che pure erano affini. In quel lavoro non ricordavo il nome di alcuni prodotti che usavo o di alcune tecnologie. Per un informatico questo è abbastanza grave e anche insolito, perché mancano i termini per dialogare con i colleghi e poi l'impressione che facevo era pessima. Me ne rendo conto. Immagina di lavorare in una cucina e di non ricordare che la pentola si chiama pentola o che il sale si chiama sale.

Accadde quello che succede a tutti i malati invisibili: le aziende sono ben felici di approfittare degli sgravi fiscali e delle sovvenzioni che hanno se assumono personale con una disabilità riconosciuta. Ma se la disabilità non è riconosciuta, come nel mio caso, nel caso di tanti altri, beh, allora sei solo un peso. Non importa quanto tu provi a spiegare che non dipende tutto da te, non verrai mai creduto. Ti diranno che sei poco sveglio, che “ci aspettavamo molto di più da te”, anche se quello che stai dando è già molto di più del tuo massimo. Anche se magari fino a pochi anni prima avevi una memoria di ferro e lavoravi in maniera eccellente.

Dissi che probabilmente l'aspettativa era stata troppo alta nei miei confronti. Come chiedere a un pesce di arrampicarsi su un albero: non solo non lo farà, ma non potrà mai farlo. L'esperienza con questa azienda, fatta di vuoti principi, di profonda incomprensione sulle persone che la facevano andare avanti e sulle regole più banali dell'organizzazione del lavoro, aveva deluso profondamente anche me. Mi ritrovai a fare l'unica cosa possibile: cambiare lavoro nuovamente dopo pochi mesi.

Una bella azienda moderna nella quale apparentemente il lavoro veniva ben valorizzato e il tempo scorreva bene, con tante cose da fare ma non troppe, e tante nuove tecnologie da gestire e possibilità di imparare, ma con la tranquillità che la tua opera potesse essere valorizzata e riconosciuta adeguatamente. Il 2016 proseguiva così come era iniziato per me: denso di cambiamenti, ma anche felice tutto sommato.

A novembre, quando i primi freddi iniziarono a sferzare le pianure emiliane e le giornate ad accorciarsi, sentii il freddo che mi penetrava dentro il corpo per una volta, per la prima volta anzi, in maniera un po' diversa, un po' più insistente. Mi fece realizzare all'improvviso che avevo passato l'estate lavorando e basta. Avendo iniziato il nuovo lavoro a metà luglio, ero stato così occupato con la nuova attività che non avevo trovato il tempo di vivere, di rilassarmi.

In quel momento cominciai a fare caso anche alle giornate ormai minacciosamente corte e buie, senza che riuscissi bene a capire perché. L'idea che sarebbe arrivata presto la nebbia e le giornate ancora più buie mi mise addosso una grande tristezza. Forse perché la mia mente si ricordava di tante altre giornate buie, quelle del paesello sulle montagne dove il sole tramontava presto ed il mio vecchio ufficio a Bologna che non aveva neppure una finestra che guardasse su qualcosa di diverso da un muro.

Senza pensarci troppo decisi di prendere l'unica medicina possibile che conoscevo per quello stato d'animo: fare un altro viaggio. Con l'occasione comprai anche la mia prima macchina fotografica “seria”, per così dire, una bella reflex Canon che avrei portato con me a Tenerife. Sarei stato a Tenerife nove giorni e senz'altro avrei trovato bellissime cose da fare e riportare a casa con me sotto il formato di tante belle fotografie da conservare e riguardare di tanto in tanto. Ho raccontato quell'esperienza nelle prime quattro puntate di un altro podcast che ti lascio qui:

https://youtu.be/aVEs-zM8wwk?si=LR0ug2Tp_opBIi5l

Vai ad ascoltarlo, valuta di ascoltarlo se ti va. Potrai scoprire come ho vissuto quei momenti e la mia scoperta dell'isola.

Ero partito senza troppe aspettative. Volevo solo cambiare aria e passare un po' di tempo lontano dal freddo su un'isola spagnola più vicina al tropico che non alla latitudine dei cappelletti. All'inizio non riuscivo ad apprezzare l'isola e mi sentivo quasi fuori posto. Era novembre e non pensavo che potesse esserci chissà quale caldo. Alla fine Tenerife era un'isola sperduta in mezzo all'oceano, cosa poteva mai esserci? Ma quando arrivò il momento di ripartire mi dispiaceva moltissimo. In pochi giorni mi ero già innamorato di quel posto così lontano da casa e non sapevo neanche bene perché. Certo, sì, ero in vacanza e c'erano anche tante cose nuove e belle da vedere in quell'isola, ma non così tanto da innamorarsene, pensandoci bene. Almeno a prima vista il mare non era granché, le spiagge dorate erano pochissime. La maggior parte erano scure, nere, proprio come il buio che volevo lasciare a casa in Emilia Romagna, e l'oceano era sempre così impetuoso che le onde ti facevano cadere anche nei giorni di bel tempo. C'erano dei boschi molto belli da visitare, sì, ma niente di così strano per noi che conosciamo il Trentino o i meravigliosi boschi degli Appennini qui da noi in Italia. Nonostante tutto questo, stranamente tornai comunque a casa mal volentieri. Forse una parte di me sentiva cosa stava per accadere.

Non appena rientrai al lavoro mi diedero una notizia tremenda: durante la mia assenza, soltanto 9 giorni, l'azienda per cui lavoravo era fallita.

Ero andato in vacanza per alleggerirmi il cuore, pensare ad altro, godermi il momento e rilassarmi anche. Avevo lasciato un'azienda apparentemente florida e con buone prospettive per il futuro, che stava investendo in attrezzature, persone, tecnologie. C'era un fermento in tutti i settori a causa di nuove attività che avremmo dovuto avviare nel giro di breve tempo. Come un fulmine a ciel sereno, però, mi resi conto che non era uno scherzo. Guardandomi intorno vedevo cumuli di sporcizia negli uffici, nessuno veniva più a pulire visto che non era pagato per farlo. Poi mancavano delle attrezzature, i musi delle persone erano lunghi, non ci stavano più pagando. In pratica si veniva in ufficio per obbligo ma per la gloria.

Il 9 dicembre 2016, esattamente un mese dopo che rientrai da Tenerife, arrivò una comunicazione dal curatore fallimentare: non eravamo più obbligati a presentarci in azienda.

Per la prima volta dopo quasi 20 anni di lavoro ininterrotto, mi ritrovavo senza un lavoro, senza uno stipendio e senza nessun tipo di sussidio. Sì, perché devi sapere che la legge del nostro meraviglioso Paese prevede che quando un'azienda fallisce diventa un'altra cosa: un'azienda in fallimento. Può sembrare banale questa distinzione, ma questa forma giuridica non può pagare i dipendenti per il lavoro che stanno svolgendo. Ma i loro contratti sono ancora validi. Se i dipendenti vogliono trovare un nuovo lavoro, sono obbligati a dimettersi e, come si sa, per le dimissioni volontarie, almeno fino ad allora, non era previsto nessun sussidio. Se ti sembra assurdo è perché lo è, ma nelle prossime puntate scoprirai che in Italia riusciamo a raggiungere livelli di assurdità ancora peggiori.

Il buio delle giornate invernali in quel periodo mi faceva davvero paura. Mi sembrava qualcosa di terribile, una specie di pozzo senza fondo a cui ogni giornata sembrava assomigliare, uguale alla precedente, senza nessuna speranza di cambiamenti in vista. Non si riusciva a trovare un altro lavoro, tanto più che eravamo sotto Natale. Passavo le giornate sul divano, al buio. Mi sentivo debole, dolorante, rifiutato da...non sapevo bene chi o perché, colpevole di qualcosa persino, ma io non avevo fatto nulla. Un'influenza pesantissima mi colpì e non riuscii nemmeno ad andare dai miei per Natale. Il tempo sembrava non passare mai. Sentivo molto dolore a livello fisico, anche quando l'influenza era già passata. Un giorno un pollice iniziò a farmi malissimo. Poteva essere uno strascico dell'influenza difficile. Senza poter usare il dito per il troppo dolore, non potevo fare nulla per passare il tempo se non guardare un po' di TV. Mi sembrava che un camion mi fosse passato addosso e cominciavo a chiedermi se i giorni di Tenerife, che in fondo erano lontani soltanto 45 giorni nel passato, fossero esistiti davvero. Il sole, la brezza dell'oceano, l'aria pulita, la luce solare fino alle 6:00 di sera in inverno. Ci pensavo continuamente. Riguardavo le foto fatte con la mia Canon e mi veniva da piangere ripensando a quanto ero stato felice in quel posto.

Con il passare delle settimane e dell'inverno, i dolori aumentarono sempre di più: fitte, nevralgie e mal di testa continui. Qualcuno mi disse che stavo somatizzando, che era tutto nella mia testa. “Devi uscire di più”, mi dicevano, oppure “Guarda, se ti metti a pensarci è ancora peggio. Non ci pensare.” Curiosamente mi dicono quelle stesse cose ancora oggi.

Un pensiero fisso stava cominciando a insinuarsi nella mia mente, un pensiero che prendeva sempre più corpo. Se pensavo a Tenerife, più ci pensavo più mi convincevo di avere ragione. A Tenerife ero stato bene non solo perché ero in vacanza, ma perché quel posto aveva qualcosa di magico per me. Mi ci ero trovato bene. Essere in vacanza sicuramente mi aveva tolto un po' di pensieri lavorativi, ma c'era dell'altro. Là mi era tornato facilmente il buon umore, la voglia di fare, la capacità di pensare più chiaramente, cose che non provavo più da anni, nemmeno con le compresse magiche dell'India. Nessun vuoto di memoria, nessun tentennamento nei movimenti delle mani. Mi sentivo sciolto, in forma, come non mai negli ultimi anni, con tanta energia per camminare e fare tanti sentieri, esplorare l'isola. Al mio ritorno avevo raccontato che mi sentivo 10 anni di meno, e più ci riflettevo più mi sembrava vera questa cosa. Una vacanza aveva questo potere? Ne avevo fatte tante altre in vita mia, ma mai mi ero sentito così bene negli ultimi anni. Poi l'improvviso rientro in aereo e il ritorno alla vita quotidiana, dove tutto era andato a rotoli. Bastava questo a giustificare come mi sentivo? Forse sì, perché come dicono in tanti la condizione mentale ha un grande potere sul corpo, ma avevo la sensazione che ci fosse molto di più.

Avrei avuto molte altre occasioni in futuro per approfondire questa bella sensazione, questo presentimento.

Ti racconto di questa sensazione perché è molto importante per ciò che verrà dopo.

Ti ho raccontato cosa ho passato in quegli anni perché credo che ogni malato invisibile abbia vissuto le stesse cose, in una forma o nell'altra. Tutti noi abbiamo dovuto lottare contro la sensazione che ci fosse qualcosa che non andasse. Ci siamo resi conto di avere qualcosa di profondamente diverso che ci distingue dagli altri, e non in meglio purtroppo. Non abbiamo saputo spiegarlo. Ci siamo chiesti se questo qualcosa avesse un nome, ma in fondo riuscivamo a conviverci fino al giorno in cui non ci siamo riusciti più e allora abbiamo dovuto capire, ricercare, trovare un nome per ciò che ci faceva soffrire. Perché senza un nome, senza le parole, non si può comprendere un fenomeno.

Ecco il perché di questo podcast: trovare le parole per gridare al mondo cosa ci sta succedendo. Se non lo raccontiamo, resterebbe solo una nostra esperienza e noi persone strambe con qualche fissa. Capisci dunque quanto sia importante diffondere il più possibile gli episodi di questo podcast, perché se non lo farai il resto del mondo non saprà che esistiamo. Parlane con i colleghi, gli amici, i familiari. Fai sapere a tutti che esistiamo, che non dobbiamo essere dimenticati nella vita di tutti i giorni.

Negli anni tra il 2010 e il 2016 mi stavo soltanto affacciando all'abisso. Nel prossimo episodio sentirai quanto può essere profondo quell'abisso. Stammi bene.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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