GRIDO muto (podcast)

Psoriasi

La mia vita a Tenerife? ☀️ Speranze e priblemi di un Malato Invisibile 🌫️🧍‍♂️❤️‍🩹.

Se preferisci ascoltare anziché leggere, puoi trovare qui questa puntata del podcast, la numero 17:

Ricordo il 2022 come un altro anno molto impegnativo. Oltre al cambio di lavoro, c'era ancora la pandemia ed era molto presente nelle nostre vite. Non riuscivo ad andare dai miei molto spesso, anche se ce ne sarebbe stato davvero molto bisogno, visto che il mio povero papà si era rotto un braccio cadendo sul ghiaccio; alla sua età non era un trauma da poco.

Guardando indietro a quel periodo, oggi faccio fatica a ricordarlo con precisione. Gli anni della pandemia, nella mia memoria, somigliano a una specie di frullato di ricordi. Faccio fatica a non percepirli come un qualcosa di unico, come se il tempo non fosse passato in quel periodo. Forse perché le giornate sembravano tutte uguali.

Ma i viaggi, quelli me li ricordo benissimo!

Si andava dove si poteva.

A gennaio a Ragusa, per vedere com'era l'inverno laggiù. La zona mi piacque molto, ma il clima non mi ha fatto stare bene. L'inverno lì era tiepidino, sì, ma anche tanto umido. E in estate, mi dicevano, si moriva dal caldo e dall'umidità, come in Emilia, se non peggio.

A marzo andai di nuovo alle Canarie per godermi la mia nuova macchina fotografica ed esplorare tutti gli angoli di Tenerife che ancora non conoscevo. Anche quella volta il suo clima mi fece stare molto bene, e cominciavo a guardarla con occhi diversi, quelli di chi iniziava a chiedersi: “Potrei vivere qui? Con quale professionalità? E in quale zona? E con quali soldi affrontare un trasferimento?”.

Sono tutte domande che chi vuole trasferirsi da qualche parte, qualsiasi parte, deve chiedersi. Figuriamoci per trasferirsi all'estero, e in particolare alle Canarie. E figuriamoci poi nella mia condizione.

Infatti guardavo l'isola valutando i vari paesi, anche in relazione alla distanza dall'ospedale e se fosse presente o meno un reparto di reumatologia.

Mi vedevo già in quella bolla di benessere, lontano da dove vivo ora, lontano da tutti quelli che conoscevo, ma finalmente senza dolore, coccolato da un clima perfetto: non troppo caldo in estate, ma non freddo d'inverno.

Ma poi, all'improvviso, una morsa fredda mi aveva stretto il cuore. Quel viaggio a Tenerife, in cui mi ero messo a fantasticare, è stato quello in cui ho aperto gli occhi sul mio sogno di un futuro migliore e ho cominciato a vedere le isole con una maturità interiore diversa. Non tutto è rose e fiori laggiù.

Da bambino sognavo di fare la rockstar, ma tre malattie invisibili hanno cambiato tutto. Oggi voglio far sentire il mio grido, che finora è rimasto muto, ma che deve essere ascoltato.

Questa è la storia di chi ha perso tanto, ma ogni giorno trova nuovi modi per farcela, in un mondo che non ha posto per i malati invisibili.

Ogni giorno che passa, migliaia e migliaia di persone si riversano alle isole Canarie, a causa della loro particolare bellezza e del loro clima da manuale. Probabilmente molti si sentiranno benebcome mi ci sento io, laggiù, e molti altri penseranno a quanto sarebbe bello viverci per sempre, coccolati dal sole tutto l'anno.

Probabilmente immaginano che vivere nell'arcipelago significhi andare in spiaggia tutti i giorni, a divertirsi estate e inverno, in un ambiente sociale rilassato e pieno di gente felice e allegra che vuole solo rilassarsi. Questo è ciò che immaginano tutti, ed è un'illusione in cui ero caduto anch'io all'inizio.

Grattando sotto la superficie, sia in quel viaggio che in tutti i successivi, sono arrivato a capire qual è la realtà. E la realtà è ben diversa.

Nelle ultime decadi, le isole Canarie sono state letteralmente prese d'assalto. Ogni anno milioni di turisti le visitano, attratti dai prezzi bassi (almeno fino a qualche anno fa) o dal clima. Milioni di europei passano da là: inglesi, francesi, italiani, belgi... chi più ne ha, più ne metta.

Il problema è che, a forza di metterne, in troppi hanno avuto la mia stessa idea.

Il settore edilizio ha praticamente fatto esplodere le isole principali di edifici, edifici e ancora edifici. Le isole maggiori sono al collasso. E intendo dire letteralmente.

Le infrastrutture non sono più sufficienti a contenere tutta quella popolazione in un territorio così piccolo e pieno di parchi nazionali.

Le autostrade sono estremamente trafficate e gli ingorghi sono praticamente costanti. I prezzi degli immobili sono lievitati fino all'inverosimile. Il cibo è sempre più costoso, visto che il 90% di ciò che si mangia e si beve – sì, anche l'acqua – viene importato.

Come se non bastasse, la regione delle isole Canarie è quella che, in tutta la Spagna, è la peggiore per possibilità di impiego e tenore di vita. Il poco lavoro che c'è è nel settore turistico, ormai saturo, e ci sono pochissime altre occasioni.

Vivere oggi alle isole Canarie significa abitare in un posto così lontano dall'Italia che, per raggiungerlo, ci vuole una giornata. Significa vivere in un posto con poca occupazione, con tanta disoccupazione, se vogliamo essere più chiari.

Ancora una volta avevo perso tutto. Ogni speranza di un futuro migliore era svanita.

Cosa mi aspetta ora? Non lo so. Ma so che una vita alle Canarie senza dolore è una prospettiva che vedo allontanarsi di più ogni giorno, a causa dei problemi che ti ho raccontato.

Devo viaggiare ancora per trovare altri posti che mi fanno stare bene, ma in cui è più facile vivere rispetto alle Canarie. Alcuni li ho già trovati: si tratta della Sardegna, della provincia di Murcia (all'interno, non sul mare) che si trova in Spagna, e un'isola della Croazia, l'isola di Krk (credo sia Cherso in italiano).

Speriamo che almeno questi posti restino come sono ora.

Come se tutto questo non fosse abbastanza, nell'estate del 2022 scoprii per puro caso che una collega aveva sintomi simili ai miei. Per la prima volta, dopo tanti anni, provai un senso di sollievo. Non dovevo spiegare nulla: lei sapeva già cosa sentivo.

“Anche tu hai l'artrite?” le chiesi.

E lei mi disse: “No, io ho la fibromialgia”.

Non sapevo neanche cosa fosse quella malattia, ne avevo solo sentito parlare vagamente, ma la collega descriveva il suo malessere con le stesse parole che avrei usato io per i miei.

Questa esperienza scatenò in me diversi ragionamenti. Anzitutto, cominciai a informarmi bene su cosa fosse la fibromialgia.

Sembrava un'altra cosa terribile.

Non appena capii di cosa si trattasse, compresi subito che molte persone che avevo conosciuto nella mia vita si trovavano nella stessa condizione della collega.

Semplicemente, descrivendomi come stavano, non avevano mai usato quella parola. Un'amica del mio paese, ad esempio, la madre di mia cognata e tante altre persone: tutte con gli stessi problemi. Affaticamento costante, dolore diffuso, mancanza di forza e rigidità articolare e muscolare. E, soprattutto, tanto, tanto dolore.

Una parte di me stava cominciando a capire che il problema mi riguardava, ma non avevo la forza per affrontare anche questo. I mesi passavano e non ci pensai. Ci sarei tornato sopra più avanti: avevo un'altra cosa a cui pensare.

Purtroppo, a fine aprile, in qualche modo presi il Covid, nonostante tutte le precauzioni. Fino a quel momento ero riuscito ad evitarlo e, invece, eccomi lì, ammalato di questa malattia strana e nuova e, per di più, con la mia condizione.

Non ho mai capito perché, ma quando ho una malattia molto forte, la psoriasi sparisce all'istante. Forse perché il sistema immunitario impazzito ha qualcosa di reale da combattere e allora si concentra su quello e non sulle mie articolazioni. Fatto sta che, per me, il Covid non è stato una passeggiata. Per i primi giorni la temperatura superò senza troppi problemi i 39 gradi, nonostante tutte le medicine. E quando dico “i primi giorni”, intendo due settimane. Poi si stabilizzò sui 38 per un'altra settimana, poi sui 37 e mezzo per un'altra ancora. E anche quando il tampone diventò negativo, cioè dalla terza settimana, avevo ancora qualche linea di febbre.

Rimasi a letto per tutto il tempo, a volte persino incapace di andare in bagno. Ricordo un dolore lancinante alla schiena, forte come quello che, vent'anni prima, mi aveva costretto all'immobilità per qualche giorno. In questo caso, forse, era ancora più forte. Potevo prendere soltanto del paracetamolo, perché in quel momento non si sapeva con esattezza se gli antinfiammatori avessero un senso nelle prime fasi della malattia. Dopo qualche giorno, però, li presi ugualmente, perché altrimenti non sarei riuscito ad alzarmi dal letto. Non sarei neanche riuscito a stare seduto sul gabinetto per il troppo dolore, figurati.

Nei mesi successivi alla “guarigione” — chiamiamola così — le cose non migliorarono. Non riuscivo a salire una scala senza fermarmi almeno due volte. Sul lavoro non ricordavo i cognomi dei colleghi che vedevo tutti i giorni, ma non ricordavo neppure i nomi. A tratti mi sembrava incredibile.

Prova a immaginare quanto è difficile ritrovare una mail, una qualsiasi mail, per esempio, senza ricordarti il nome, né l'oggetto, né chi te l'ha inviata, né il contenuto. Sai che esiste, sai che la devi trovare, ma non hai la possibilità di farlo. È stato un periodo difficilissimo, del quale ancora oggi sento le conseguenze.

Ci sono volte in cui non ricordo i nomi dei paesi intorno alla mia città, i nomi di persone con cui lavoro tutti i giorni, oppure indirizzi, eccetera. A volte vivo in un mondo tutto mio, in cui la mente è così offuscata e le percezioni esterne così amplificate e disturbanti che non riesco neanche a rendermi conto che sono in quello stato. Tutte le risorse mentali annaspano per cercare di capire qual è lo scopo, qual è l'obiettivo di quello che devo fare, senza riuscirci, senza neanche ricordare perché devo fare una certa cosa, o quale sia l'obiettivo.

Non ricordo i nomi dei programmi che uso o che ho usato in passato. E questo, per un informatico, purtroppo, viene visto come una cosa abbastanza grave. Per me, che la vivo, è chiaro che questa è una difficoltà, non incompetenza. Ma riuscirò a farlo capire all'esterno? Non si sa. Riuscire a farlo capire all'esterno è qualcosa di impossibile.

Nell'età della performance e della competizione, se non hai la risposta sempre pronta, ciò che viene percepito dall'altra parte è sempre che sei un incompetente.

E io sarei anche stufo di tutto questo. Ma è molto difficile sradicare queste convinzioni. È molto difficile far capire che un malato invisibile, pur con tutti questi problemi, rimane comunque una persona, ha un valore intrinseco e, soprattutto, non ha scelto lui o lei di avere questi problemi.

Con un po' di organizzazione e il giusto tempo può comunque fare il proprio lavoro.

Certo, sarebbe bello se le autorità riconoscessero la nostra condizione in qualche modo e ci dessero gli strumenti per affrontare la vita con le stesse possibilità di una persona sana.

Ad esempio, attraverso uno status di invalidità, che potrebbe incoraggiare le aziende a tollerare le nostre caratteristiche, ai loro occhi poco utili al business.

Ma questa è un'altra storia.

Mi auguro che le future generazioni non vivano tutto questo. Ma dipende anche da noi. Quanto siamo disposti a fare oggi affinché questa strana cultura che ci siamo creati cambi per sempre? Dipende anche da noi.

Io ho deciso di fare questo podcast per sensibilizzare le coscienze.

Condividerlo e parlarne, aquesto punto, spetta soltanto a te.

Stammi bene.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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🦠 Pandemia, 💉 vaccini anticovid, 🦵 artrite e 🌀 psoriasi: il mio 2020 da malato invisibile

“Ed ecco allora che mi si accese una lampadina: avrei dovuto viaggiare il più possibile. Da quel viaggio a Lanzarote e da tutti i precedenti e i successivi, soltanto un anno dopo, avrei fatto nascere una cosa bellissima: un canale YouTube.”

[...]

Se preferisci ascoltare anziché leggere, puoi trovare qui questa puntata del podcast, la numero 16:

In questo episodio ti racconterò il mio fantastico 2020 da malato invisibile.

L'argomento è delicato e complesso e lo affronterò come normale dal mio punto di vista. Ti chiedo di capirlo e di rispettarlo anche se la tua idea dovesse essere diversa dalla mia.

Alla fine del 2019 mi era ormai chiaro che l'artrite facesse parte della mia vita, anche se la diagnosi non era ancora certa, ma c'era solo un fortissimo dubbio. Continuavo ad assumere i rimedi ayurvedici e, anche se a volte avevo l'impressione che non facessero molto, notavo che se smettevo di prenderli le cose peggioravano sensibilmente, specialmente nelle articolazioni delle mani e dei piedi. Possiamo dire che la situazione precipitava, perché molte articolazioni non potevo più usarle da quanto facevano male.

In più, mi pareva che queste compresse mi dessero un certo brio a livello mentale, una sensazione di presenza nella realtà che non mi dispiaceva affatto e anzi mi aiutava molto, soprattutto nelle mie complicatissime giornate di lavoro. Avevo capito che se andavo in palestra e allenavo gambe, bacino e schiena, stavo bene per due, tre, quattro giorni. La ricetta per il successo sembrava facile: bastava continuare ad allenarsi e prendere le medicine ayurvediche, quelle pastiglie che il medico in India mi aveva suggerito di prendere tanti anni prima e poi riscoperte da mio fratello. Un'altra cosa che avevo capito era che io alle isole Canarie ci stavo veramente tanto, tanto bene.

Come ti dicevo, mi bastava allontanarmi dalla Pianura Padana per sentirmi molto meglio, ma in quell'arco un po' ovunque mi ci sentivo meglio che in qualsiasi altro posto del mondo. Ogni volta in cui ci tornavo, questa sensazione di benessere la percepivo sempre di più, non tanto perché la sensazione aumentasse, ma perché in Emilia la mia condizione di salute stava peggiorando visibilmente e quindi sentivo di più la differenza tra casa mia e le isole.

Specialmente in inverno, tra novembre e dicembre, ero stato nell'isola della Palma, una delle isole periferiche dell'arcipelago delle Canarie, e anche lì avevo beneficiato di questo effetto. Mi tornava il buon umore, il dolore e la psoriasi sparivano e potevo muovermi meglio, fare tanti sentieri che a casa non sarei mai riuscito a fare. Questo effetto benefico durava anche al mio ritorno per un mese; tornavo a stare bene anche in Italia. Cominciavo a capire perché in tanti si trasferissero nell'arcipelago. Da un lato, pensavo che fosse semplicemente l'effetto della vacanza e attribuivo tutto allo stress del lavoro che laggiù non c'era. Però qualcosa non tornava.

Come avevo già iniziato a pensare negli anni precedenti, anzitutto l'effetto positivo era immediato; cioè, intendo che già dopo 10 ore che ero sceso dall'aereo, il “Simone” angosciato dal dolore e dalla confusione mentale che viveva in Emilia Romagna scompariva senza lasciare traccia. Ma non solo, era come se quel Simone non fosse mai esistito, e ripensando a me stesso in Italia mi sembrava che quei ricordi non fossero miei.

Tornavo quello di un tempo, come ero da giovane, solare, sempre di buon umore. Era come se qualcuno mi togliesse di dosso all'improvviso una cappa dolorosa fatta di malessere, sofferenza, tristezza e confusione. Tornavo a splendere come il sole delle isole. Ottimo, pensavo, tornerò periodicamente nelle isole e in tutti gli altri posti che mi fanno stare bene e tutto questo mi aiuterà a combattere la mia condizione, qualsiasi sia il suo nome. Forte di questa convinzione, non avevo neanche fatto in tempo a tornare a casa che avevo già trovato un altro aereo a basso costo che mi avrebbe portato a visitare Gran Canaria qualche mese dopo. Non ero mai stato su quell'isola, ci sarei andato tra gennaio e febbraio del 2020.

Arrivato di nuovo nell'arcipelago, trovai anche a Gran Canaria le stesse condizioni benefiche che avevo già trovato alla Palma a novembre del 2019. Si stava anche lì perfettamente anche a fine gennaio, e l'acqua dell'oceano e il sole mi rimisero a nuovo entro poche ore. Mentre scoprivo quell'isola affascinante e rilassante, nelle televisioni e sui giornali locali si sentiva parlare di una cosa lontanissima, un virus che sembrava mietere diverse vittime e si stava diffondendo molto rapidamente. Memore degli stessi allarmi letti sulla stampa italiana a proposito della Sars qualche anno prima, non ci pensai troppo.

Il mare era così invitante! Così invitante che non ci pensai neanche un attimo a quel virus lontano. Era un piacere perdersi dentro quelle acque, godere del tepore del sole di gennaio ed esplorare le valli e i canyon di quell'isola bella. Mi faceva sentire di nuovo vivo, le mie mani si erano sgonfiate un pochino ed era anche sparita quella fastidiosissima sciatalgia. Insomma, stavo veramente molto bene.

Dopo un paio di giorni giunse la notizia che il primo ammalato di tutta la Spagna, contagiato proprio a causa del coronavirus cinese, si trovava nell'isola de La Gomera, un'altra isola dell'arcipelago vicinissima a me, proprio a due passi di distanza. Nonostante questo, continuavo a non pensarci troppo. Mi sembrava l'ennesima esagerazione della stampa, magari fatta per cavalcare l'onda di un argomento molto popolare. Non ci pensai nemmeno nel corso del viaggio di ritorno, quando durante lo scalo a Madrid mi ritrovai nella enorme H dell'aeroporto, dove arrivavano voli da tutto il mondo, Cina compresa. E neppure mi venne in mente nulla quando poche settimane dopo venne celebrato il 50° anniversario dei miei, con tanti invitati da diverse zone d'Italia. Nessuno di noi sapeva che la nostra vita sarebbe cambiata per sempre nel giro di poco tempo e che non ci saremmo più rivisti per un pezzo. E non ero neppure cosciente del fatto che, come ammalato di patologie croniche e reumatiche, stavo correndo un rischio molto più elevato di tutti gli altri.

Nel giro di poche settimane, la vita di tutti noi cambiò all'improvviso. Certamente te lo ricorderai anche tu benissimo. Prima Codogno divenne zona rossa e isolata dal resto del paese, poi i comuni limitrofi. Poi fu il turno dell'Emilia-Romagna. Visto che lavoravo in un ambiente sanitario, ovviamente ci vennero date alcune indicazioni su come comportarci e che cosa ci aspettava nelle settimane successive, o almeno quello che si pensava ci avrebbe aspettato nelle settimane successive. E fu una stima un po' ottimistica. Come informatico percepivo direttamente la fatica e la stanchezza degli operatori sanitari, che poi si riversava su di noi, perché le richieste di aiuto aumentarono a dismisura. La qualità della mia giornata lavorativa peggiorò drasticamente, così come quella di molti altri in Italia e in Europa. A un certo punto, io e i miei colleghi ci ritrovammo isolati. Ci separarono gli uni dagli altri, creando due gruppi di lavoro. Nessuno si sarebbe dovuto vedere di persona e ognuno avrebbe dovuto lavorare in una stanza da solo, condividendo soltanto il bagno con gli altri. In caso di contagio, si sperava che almeno uno dei due gruppi di lavoro sarebbe rimasto sano, consentendo dunque l'operatività ordinaria e straordinaria.

Chi vive in Emilia-Romagna sa benissimo cosa sia la Via Emilia: è sempre la più trafficata, qualsiasi città attraversi. Mentre prima della pandemia guardavo fuori dalla finestra del mio ufficio e vedevo una fila ininterrotta di macchine, in quei giorni vedevo passare una macchina ogni 10 minuti, forse. Ancora peggio del mese di agosto, quando la città si svuota, e all'improvviso un enorme silenzio. Questo grande silenzio che ti faceva notare chi non c'era, piuttosto che chi attraversava le strade, e che tutti erano a casa. Cercavo di andare poco in bagno e ogni volta ero un po' spaventato, perché toccare le varie superfici con le mani aperte a causa della psoriasi sicuramente mi esponeva a un rischio molto maggiore di altri. Avevo imparato bene da un medico come lavarmi le mani e così cercavo di tenerle pulite usando il sapone al posto del gel tutte le volte che potevo. Ci avevano anche fornito alcuni spray disinfettanti con cui pulivamo scrivanie e maniglie, pomelli, tutto ciò che si poteva. Chi di noi non era in ufficio lavorava da casa a settimane alterne. Alla fine, come tutti, cominciai a non vedere più nessuno: niente genitori, niente amici, niente colleghi, solo chi viveva con me. Inutile che entri troppo nel dettaglio, perché sai già cosa abbiamo vissuto tutti. Posso dirti però che da malato invisibile fu tutto più complicato. Avevo già capito prima di quel periodo che il mio sistema immunitario iperattivo e impazzito reagisce malissimo a qualsiasi tipo di virus o battere mi passi vicino. E poi, come ti ho appena detto, ti raccontavo che le mie mani sono costantemente spaccate a causa della psoriasi. In quel periodo era obbligatorio usare il gel disinfettante in qualsiasi ospedale, ufficio o negozio. Il gel è a base di alcool: immaginati di buttare alcool su una ferita aperta ogni volta, la stessa storia, tanto bruciore, ma non c'era modo di non farlo. O lo facevi o non entravi.

La pandemia e l'isolamento volevano dire anche lavoro da casa. Significava alzarsi dal letto per andare alla scrivania, lavorare lì tutto il giorno, staccarsi dalla scrivania, mangiare qualcosa, dormire e ricominciare da capo. Immagina come mi sentivo in tutta questa situazione: proprio io, abituato ad andare in palestra tre volte a settimana, io abituato a viaggiare, abituato a prendermi una pausa dal dolore e dalla sofferenza proprio viaggiando periodicamente. Ora non si poteva fare e chissà per quanto tempo. Mi sentivo in trappola, impotente, l'ennesima situazione è senza una via d'uscita. Che il mio benessere precario, fatto di integratori e viaggi alle Canarie e palestra, sarebbe finito per sempre. Sentivo ancora una volta di aver perso tutto. E in un certo senso è stato così, perché da quell'anno è iniziata la fase più veloce del mio declino e credo che dipenda anche dal fatto che all'improvviso non potevo più allenarmi. Può sembrare paradossale, ma in questa situazione terribile non so come l'esaurimento passò. Forse perché ero sempre più stanco e in qualche modo riuscivo a dormire un po' di più, non avendo molto altro da fare del resto. Forse ho trovato dentro di me risorse che neanche sapevo di avere. Forse è stata la situazione eccezionale, la consapevolezza che di fronte a qualcosa di enorme, di così grande, che i problemi di tutti i giorni non sembravano più così grandi. Davvero non lo so come sia successo. Fatto sta che a un certo punto, pure affaticato, pure in ansia per tutta la situazione, mi sono svegliato una mattina senza sentirmi depresso. E poi un'altra, e poi un'altra ancora. C'erano delle cose importanti che sentivo di dover fare. Era il momento di rimboccarsi le maniche.

Uno dei miei compiti era quello di tenere in piedi i sistemi informatici che consentivano ai medici di lavorare bene. Una volta mi venne chiesto di preparare dei tablet con sopra WhatsApp, Skype o applicazioni del genere. Moltissimi pazienti purtroppo stavano morendo nei reparti di terapia intensiva, isolati dal mondo esterno, magari perché in molti casi si trattava di anziani che non sapevano usare queste tecnologie e non le avevano installate sul loro cellulare. O magari erano persone che erano state portate lì d'urgenza, e chi le portava lì, visto che non stavano respirando, magari non si fermava a pensare di prendere il cellulare. I tablet che avrei dovuto fare avrebbero consentito loro di contattare i loro cari a casa e, da quanto so, per molti di loro è stata l'ultima volta. Forse in tutto questo avevo trovato uno scopo più grande, qualcosa di più grande di me, che mi aveva consentito di non pensare troppo a me stesso e alla mia situazione.

Dopo un'estate di semilibertà, in cui riuscì finalmente a guardare un paesaggio diverso sulle magnifiche Alpi italiane, fu il turno del Cilento, una spettacolare terra con poche persone che visitai i primi di ottobre. In quei giorni si potevano leggere già i sintomi di una nuova chiusura, che ci avrebbe di nuovo riguardati tutti entro poche settimane. Poi tutto tornò di nuovo come prima, come a fine marzo.

A fine anno però qualcosa cambiò: arrivarono i primi vaccini, insieme a un vago sentimento di speranza. Forse potevo riuscire a non ammalarmi e questa cosa mi dava un elemento di tranquillità in più, perché grazie al mio lavoro ero a conoscenza di tante morti, troppe. Su questo argomento di solito l'opinione pubblica si spacca. Io ti sto raccontando che cosa ha rappresentato per me il vaccino. Ho fiducia nella medicina e nella scienza e non ho pregiudizi nei confronti di questi farmaci, davvero nessuno. Ritengo che siano utili e anzi indispensabili. So che molti non condividono con me questa opinione e ci sta, perché siamo in un paese libero, ma questo è il mio podcast. Sono io che ti sto raccontando la mia vita, ti racconto di me e non potrei mai raccontare qualcosa di diverso da quello che penso davvero. Se la tua idea è diversa dalla mia, non è assolutamente un problema: basta che tu non cerchi a tutti i costi di convincermi che la mia idea è sbagliata.

Tutto ciò che ruotava attorno alle vaccinazioni mi tenne impegnato per molto tempo: report, analisi, condivisione di documenti, insomma tutto ciò che serviva allo scopo aveva la priorità e significava altro lavoro per me. Con l'arrivo dell'estate, però, cambiai lavoro. La sanità mi era bastata, tanto più che la situazione che mi portava a dei burnout sempre più frequenti sembrava non cambiare. La mia fatica era sempre di più, sia fisica che mentale, e il lavoro aumentava costantemente, nonostante la pandemia stesse pian piano acquistando la forma di una nuova normalità. Bene, sarei andato altrove, sperando in un ambiente più tranquillo. Un nuovo lavoro avrebbe dovuto comportare un calo dello stress, se non altro nel periodo del preavviso, e invece il mio corpo era sempre più dolorante, sempre più malessere, sempre più confusione mentale, e per uno che lavora con il cervello è quanto di peggio si possa immaginare.

Tornai allora in reumatologia. Una parte di me pensava che il fatto di trovarsi lì si trattasse di un errore di valutazione di qualche tipo. I malati di artrite che conoscevo stavano ben peggio di me. Magari i miei problemi potevano essere soltanto, che ne so, un tunnel carpale o qualcosa del genere. Ma dopo avermi ascoltato, il reumatologo mi prescrisse una risonanza magnetica, un'altra, e all'appuntamento successivo mi fece anche di nuovo una approfondita ecografia alle mani, ai piedi, ai polsi e alle caviglie. Ci volle quasi un'ora e mezzo. Alla fine venne emesso un altro terribile verdetto e questa volta definitivo:

ARTRITE PSORIASICA

“L'artrite psoriasica è una patologia cronica infiammatoria che colpisce le articolazioni e i tendini,

associata alla psoriasi, una malattia infiammatoria della pelle caratterizzata da lesioni cutanee arrossate

e ricoperte da squame. Questa malattia autoimmune può provocare dolore, rigidità articolare e gonfiore,

causando un impatto significativo sulla qualità di vita dei pazienti.”

Fonte: Istituto Ortopedico Rizzoli. Ti lascio il link nella descrizione dell'episodio.

In maniera ancora più convinta, continuai a tenermi tutto dentro.

Anche se ne avessi voluto parlare, chi avrebbe capito davvero quello che avevo da dire? Chi mi avrebbe ascoltato? Le persone con cui ci ho provato non sono state in grado di capire e questo mi ha incoraggiato ancora di più a cercare di non parlarne con nessuno.

Arrivò di nuovo l'inverno e con lui quell'umidità fredda che riempie così spesso la nostra pianura; la nebbia che ti avvolge, e che non ti fa vedere a un metro; la pioggia scrosciante che sembra volerti annientare goccia a goccia; il grigio interminabile che a qualcuno piacerà anche, ma a me ricorda sempre gli inverni lunghissimi e bui del paese in cui avevo trascorso l'infanzia. Al giorno d'oggi ho un motivo in più per detestarlo: l'umidità. Qualsiasi tipo di dolore aumenta con l'umidità, a noi scatena dolori nuovi, inaspettati, che magari ti colgono nel sonno, proprio nel bel mezzo della notte. Sto parlando di dolori simili a nevralgie, che bruciano nelle articolazioni, che tu ti muova oppure no. A volte sembrano dolori pulsanti, sembrano pulsare. Tante volte ho avuto il privilegio di provare queste sensazioni fantastiche, e magari che qualche dito delle mani o dei piedi si bloccasse dal dolore, impedendomi così di usarlo.

Già ai primi di ottobre del 2021 non ne potevo più. Sentivo il corpo rattrappirsi come un pomodoro messo ad essiccare al sole. Il problema è che quel pomodoro ero io e sentivo tutto il processo. Nel frattempo, il gonfiore di tutto il corpo stava diventando insopportabile. E allora ricorsi all'unica terapia efficace che conoscevo: prenotai un viaggio per Lanzarote, la quinta delle isole Canarie che sarei andato a scoprire tra fine novembre e dicembre. Fu un viaggio indimenticabile: le fotografie si sprecavano in quei terreni che sembravano usciti direttamente dalla Luna. Come sempre, le isole mi avevano tolto il malumore, il dolore e il gonfiore. Quel sole caldo mi aveva allontanato dal buio della pianura e il suo effetto si sarebbe fatto sentire fino a dopo Natale almeno. O così speravo, perché in realtà l'effetto positivo delle isole durava sempre meno. Quando rientravo in Italia si esauriva sempre più in fretta ad ogni viaggio. Ormai avevo capito che avrei dovuto cambiare residenza se avessi voluto stare un po' meglio, perché la mia vita, la nostra vita, intendo mia e di chi sta come me, non è vita.

Ed ecco allora che mi si accese una lampadina: avrei dovuto viaggiare il più possibile, non soltanto per stare meglio lontano dalla pianura, non soltanto per fotografare tanto, cosa di cui mi stavo innamorando perdutamente. Avrei dovuto viaggiare per cercare una seconda casa, perché oggi la mia casa è l'Emilia, ma un domani no, non mi ci vedo qui e quindi chissà... Dobbiamo, come ti dicevo, creare le condizioni per essere felici e io queste condizioni le voglio creare, ci voglio provare.

Da quel viaggio a Lanzarote e da tutti i precedenti e i successivi, soltanto un anno dopo avrei fatto nascere una cosa bellissima: un canale YouTube in cui condivido tutta la bellezza che trovo nel mondo con chiunque lo voglia guardare. E lo faccio naturalmente a modo mio, per ciò che sono diventato osservando, ascoltando, riportando ciò che mi colpisce, soprattutto fotografando tanto. Dalla fine del 2022 mi sarei impegnato seriamente per alimentare questo canale, che ti invito ad andare a vedere. Si chiama “Il Simone Viaggiatore”. Se non lo conosci già, potrai trovare il link per visitarlo nella descrizione di questo episodio. Quello è un canale in cui cerco di riversare tutta la gioia che provo durante i miei viaggi e provo a trasmettere quanto sia appagante il contatto con la tranquillità dei luoghi naturali con pochi turisti, dove posso stare in pace con me stesso, a dimenticare tutti i miei problemi e a fotografare la bellezza del nostro pianeta. Se vedrai i miei video e ti sentirai così anche tu, allora avrò raggiunto il mio scopo: la condivisione di tutta questa bellezza. D'altra parte, qualcosa doveva pur sostituire l'enorme vuoto lasciato dalla perdita della musica, che niente fino a quel momento era riuscito a riempire, e quel canale è stato ed è ancora un grande aiuto per me, per cercare di indirizzare la mia vena creativa su qualcosa di bello e credo anche utile. Potessi più tenerlo, la testa mi scoppierebbe, piena di idee inespresse e di cose non dette. Spero che lo visiterai e capirai quanto sia importante per me.

Nel frattempo, stammi bene. Podcast pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia, non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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🌧️💭 A volte ti ritrovi depresso senza neanche saperlo 😔🌈 Come il viaggio mi aiuta a stare meglio.

In questo episodio ti racconto quanto rapidamente ci si può avvicinare all'abisso della vita se sei un malato invisibile.

“Le aziende sono ben felici di approfittare degli sgravi fiscali e delle sovvenzioni che hanno se assumono personale con una disabilità riconosciuta. Ma se la disabilità non è riconosciuta, come nel mio caso, nel caso di tanti altri, beh, allora sei un peso. Non importa quanto tu provi a spiegare che non dipende tutto da te, non verrai mai creduto.”

Se preferisci ascoltare questo episodio, il 14°, anziché leggerlo, puoi farlo a questi indirizzi:

[...]

Nella vita tutti abbiamo alti e bassi: periodi in cui tutto va meglio rispetto ad altri momenti. In quei mesi o anni siamo all'apice delle nostre possibilità,e poi ci sono altri periodi in cui le cose non vanno. A volte non ci accorgiamo che le cose ci stanno andando bene, non ci pensiamo più di tanto. È soltanto dopo, guardandoci indietro, che realizziamo di essere stati felici anche se non lo sapevamo. D'altra parte eravamo così impegnati a raggiungere i nostri obiettivi che non ce ne siamo resi conto.

Per me il 2010 era uno di quei momenti.

Frequentavo la palestra regolarmente e il mio corpo diventava sempre di più come lo desideravo: forte, muscoloso, bello, vitale. Nonostante qualche difficoltà, stavo riuscendo a dare gli esami più difficili all'università, analisi matematica 1 e 2. Il lavoro era lontano, sì, ma sembrava andare tutto bene e poi c'era in vista l'acquisto della mia prima casa di proprietà: arredamento, progetti, piani per il futuro. Avevo finalmente ripreso a viaggiare dopo qualche anno in cui non mi era stato possibile.

Avevo incontrato Steve Vai, il mio riferimento musicale del momento. In quanti possono dire di avere avuto la fortuna di incontrare il proprio idolo? Io credo pochissimi.

Eppure, sentivo che mi mancava qualcosa. L'incontro con lui e i suoi consigli mi avevano dato la carica per suonare, suonare e suonare ancora.

Con il passare del tempo e l'estrazione dei denti del giudizio, le crisi di fatica sembravano non tornare più. Ero contento perché mi sembrava di avere risolto anche questa situazione. Avevo anche trovato un nuovo gruppo in cui suonare non troppo lontano da casa. Il proprietario della casa in cui suonavamo aveva un organo Hammond originale degli anni '70. Suonavamo i Deep Purple come bere un bicchier d'acqua e poi qualsiasi altra cosa ci venisse in mente. Quelle jam sessions mi piacevano molto. Si poteva imparare moltissimo improvvisando, lasciandosi trasportare, intendendosi con gli altri al volo su come fare avanzare un'idea. Può sembrare strano ma si arriva a capire in quale momento tutti cambieranno tempo o accordo, anche senza parlare.

Mi piacevano molto i Black Crowes in quel momento, e tante delle cose che suonavo lì ricordavano il loro stile, pieno di influenze diverse, dal soul al blues al rock, e mi piacciono molto ancora. Suonavamo sempre per il piacere di suonare, a volte fino alle 2:00 del mattino o anche alle 3:00. Dormivo magari 3 ore e poi via a lavorare a Bologna. Se ci penso oggi, non capisco come facessi. Mi sembrano i ricordi di un'altra persona. A forza di suonare, esercitarsi, passare tante ore ad ascoltare musica, a un certo punto qualcosa si era come sbloccato. Avevo fatto un altro salto di livello. Le mie dita e il mio cervello all'improvviso avevano imparato a trasformare in note quello che avevo in testa e nel cuore con sempre maggiore precisione e accuratezza. Poche sbavature, pochissimi errori, suoni delicati o arrabbiati, ma sempre molto precisi.

L'ausilio dell'elettronica era entrato nella normalità del mio strumento dopo che Steve mi aveva fatto capire che non era un punto di arrivo, ma un mezzo. Ora riuscivo a suonare la musica del maestro e a suonare meglio anche quella di Joe Satriani. Anzi, non capivo come avessi fatto prima a non riuscirci. In realtà era così semplice! Riuscivo a suonare anche altro naturalmente, o a suonarlo meglio: Jimi Hendrix, il brasiliano Kiko Loureiro, i pezzi straordinari di Guthrie Govan. Non ogni singolo brano, certo, ma tanti, tantissimi. Finalmente avevo raggiunto l'apice che sognavo sin da quando avevo messo le mani sullo strumento più di 20 anni prima. Quello era soltanto l'inizio. Era ora di fare un altro salto di qualità. Dovevo cercare un gruppo in cui suonare e con cui sarei arrivato, beh, se non lontano, da qualche parte.

Tutto questo non era altro che altra benzina per il mio ego. Anche sul lavoro le cose spingevano in questo senso. Come informatico, ero il punto di riferimento in azienda per tantissimi colleghi e le loro necessità quotidiane: problemi di stampa, di posta elettronica, di navigazione, e tutto il resto. Non avevo un attimo di pace, ma mi piaceva questo stato di cosa. Mi dava l'impressione di contare qualcosa e che tutti mi cercassero, anche se non avevo ancora un titolo di studio avanzato che nel giro di poco comunque sarebbe arrivato, ne ero certo.

Però...però stava accadendo qualcosa attorno al 2014.

[...]

Le crisi di stanchezza non c'erano più già da tempo, ma comunque ero sempre più stanco. Mi alzavo già stanco al mattino, anche quando non andavo a suonare fino alle 3:00 di notte. Qualcuno mi diceva: “Beh, hai 37 anni ormai, cosa pretendi?” Ma io sentivo che c'era qualcosa di più del normale invecchiamento. Paradossalmente, per dormire avevo sempre più bisogno di prendere qualcosa: melatonina, prodotti di erboristeria come tisane, oppure avevo bisogno di stancarmi molto. La palestra in questo senso mi aiutava. E a proposito della palestra, i tempi di recupero normali non mi bastavano più. Da quattro volte a settimana cominciai ad andarci tre volte, poi due. Con il passare degli anni facevo cose più leggere, eppure avevo bisogno di tanti giorni in più per recuperare e fare sparire il dolore muscolare. A volte mi serviva una settimana, cosa che vanificava ciò che avrebbe dovuto essere più frequente. Gli episodi di tendinite, torcicollo e dolore cervicale erano sempre più frequenti. Parlandone con il mio personal trainer, riuscivamo sempre a trovare qualcosa che riuscissi a fare, ma era evidente che stessi andando indietro anziché avanti. Eppure tanti altri della mia età e senza essersi allenati per 20 anni come nel mio caso, riuscivano a fare ben di più!

Io solo qualche anno prima potevo alzare senza problemi un bilanciere di 160 kg da terra o fare squat, dei piegamenti verso il basso sulle gambe, con 100 kg addosso, o ancora muovere 250 kg nella pressa per le gambe. Chi frequenta la palestra sa che sono livelli che non tutti raggiungono. Lentamente, però, era arrivato il momento di dimezzare questi carichi e sentivo che ancora non bastava. Le presunte manifestazioni di allergia nella mia tibia erano sparite da qualche tempo con mia grande gioia e potevo finalmente tornare a mettermi i pantaloni corti. Ma queste chiazze di pelle squamosa e fragile non sparivano dalle mie mani, che continuavano anzi a spaccarsi, anche se un po' meno di prima. Avevo preso l'abitudine di usare chili e chili di crema idratante per mantenere la pelle elastica e far sì che si rompesse un po' meno, ma questo complicava molto il mio rapporto con la chitarra. Difficile suonare uno strumento con le mani unte, o, se per questo, fare qualsiasi altra cosa!

Una dermatologa che avevo visto mi aveva detto chiaramente che si trattava di psoriasi, non di allergia. Ero sempre più abbattuto per questa malattia che sembrava non trovare una soluzione e anzi evolveva, peggiorava. Ogni tanto, suonando, le mani avevano delle difficoltà, non si muovevano più come volevo. Erano sempre in ritardo rispetto alla mia mente e anche a livello mentale c'erano enormi difficoltà. Cose che un giorno mi sembravano semplicissime, il giorno dopo non riuscivo neanche a concepirle, figuriamoci a suonarle. Ascoltavo le registrazioni fatte il giorno prima e mi chiedevo se le avessi suonate davvero io. Sembravo un'altra persona. Dopo tanti anni a studiare le scale musicali, non riuscivo neanche più a ricordarle mentre suonavo.

Continuavo ad andare a trovare i miei nel fine settimana. Guidare da Reggio al paese dove ero cresciuto non era un lungo tragitto, eppure sembrava sempre più impegnativo e avevo la paura costante di addormentarmi durante la guida, cosa che un paio di volte è anche successa, per fortuna senza conseguenze gravi. Mi risvegliavo, ad esempio, nella corsia di sorpasso in autostrada senza ricordare come ci fossi arrivato. Poi presi l'abitudine di cantare, e uso questa tecnica ancora oggi: mi tiene sveglio abbastanza bene. Era chiaro però che c'era qualcosa che non andasse nel mio corpo. Oltre ai colpi di sonno, alcune falangi mi facevano male, ma non ricordavo di avere preso colpi o di averle sforzate così tanto in palestra. Era questa qui la vecchiaia? Finalmente era arrivata a 37 anni? Era colpa della palestra, forse?

Mio fratello mi segnalò alcuni rimedi ayurvedici che aveva visto online e che stava per ordinare dall'India. Si presumeva che servissero per il tono muscolare, tendini, la lucidità mentale e i dolori articolari. Per puro caso erano gli stessi che mi aveva consigliato il medico indiano tanti anni prima, ammesso che fosse un caso, e che allora non avevo preso. Senza pensarci troppo, ordinai quelle compresse. Arrivarono in un barattolino di plastica blu che sapeva di India e, una volta aperte, mi tornò in mente perché non le avevo prese allora: il loro inconfondibile tanfo.

Però, una volta prese mi accorsi che le dita mi facevano meno male e avevo un po' più di brio a livello mentale. Ero più lucido, più presente nel momento. Molto bene: lavorare sarebbe stato un po' più facile.

L'effetto durò per un po', ma poi le compresse finirono.

In più di un'occasione al mattino non riuscivo neanche a mettere in moto la macchina. Girare la chiave mi provocava un dolore intenso in tutta la mano destra, non più una falange ma tutta la mano. Un dolore così forte che non riuscivo a fare forza e girare la chiave o a muovere la mano in nessun modo. Dovevo girare la chiave prendendo la mano destra e facendola ruotare con la mano sinistra o non sarei riuscito a mettere in moto la macchina. Davvero non riuscivo a capire. Non riuscivo a capire perché fosse proprio quel movimento a mettermi in crisi o da dove provenissero questi strani dolori che poi sparivano apparentemente da soli, magari il giorno dopo o solo poche ore dopo.

Ero sempre così stanco! Pensavo che questa stanchezza fosse la causa per dei vuoti di memoria che avevo sempre più spesso. Piccole cose che però rendevano il lavoro sempre più difficile. Sembrava che anche le informazioni che avevo acquisito e consolidato non fossero più disponibili nel mio cervello. Il lavoro mi stava rendendo sempre più stanco e anche la mezz'ora a piedi che mi separava dalla stazione di Bologna all'ufficio cominciava a sembrarmi qualcosa di insormontabile. Arrivavo tardi in ufficio e avevo iniziato a usare l'autobus. Sempre più stanco, sempre più svogliato. Alla fine, visto che tutta la situazione lavorativa stava peggiorando ed ero sempre più carico di lavoro e di stanchezza, nel 2016 decisi di cambiare lavoro dopo 11 anni di permanenza nella stessa azienda. Così, mi dicevo, sarebbe stato più semplice portare a termine la laurea.

Purtroppo niente da fare. Il nuovo lavoro era stato palesemente un grande errore di valutazione. La mia memoria poi si era rivelata comunque inaffidabile. Non riuscivo ad imparare né in quel lavoro né per gli esami all'università, che pure erano affini. In quel lavoro non ricordavo il nome di alcuni prodotti che usavo o di alcune tecnologie. Per un informatico questo è abbastanza grave e anche insolito, perché mancano i termini per dialogare con i colleghi e poi l'impressione che facevo era pessima. Me ne rendo conto. Immagina di lavorare in una cucina e di non ricordare che la pentola si chiama pentola o che il sale si chiama sale.

Accadde quello che succede a tutti i malati invisibili: le aziende sono ben felici di approfittare degli sgravi fiscali e delle sovvenzioni che hanno se assumono personale con una disabilità riconosciuta. Ma se la disabilità non è riconosciuta, come nel mio caso, nel caso di tanti altri, beh, allora sei solo un peso. Non importa quanto tu provi a spiegare che non dipende tutto da te, non verrai mai creduto. Ti diranno che sei poco sveglio, che “ci aspettavamo molto di più da te”, anche se quello che stai dando è già molto di più del tuo massimo. Anche se magari fino a pochi anni prima avevi una memoria di ferro e lavoravi in maniera eccellente.

Dissi che probabilmente l'aspettativa era stata troppo alta nei miei confronti. Come chiedere a un pesce di arrampicarsi su un albero: non solo non lo farà, ma non potrà mai farlo. L'esperienza con questa azienda, fatta di vuoti principi, di profonda incomprensione sulle persone che la facevano andare avanti e sulle regole più banali dell'organizzazione del lavoro, aveva deluso profondamente anche me. Mi ritrovai a fare l'unica cosa possibile: cambiare lavoro nuovamente dopo pochi mesi.

Una bella azienda moderna nella quale apparentemente il lavoro veniva ben valorizzato e il tempo scorreva bene, con tante cose da fare ma non troppe, e tante nuove tecnologie da gestire e possibilità di imparare, ma con la tranquillità che la tua opera potesse essere valorizzata e riconosciuta adeguatamente. Il 2016 proseguiva così come era iniziato per me: denso di cambiamenti, ma anche felice tutto sommato.

A novembre, quando i primi freddi iniziarono a sferzare le pianure emiliane e le giornate ad accorciarsi, sentii il freddo che mi penetrava dentro il corpo per una volta, per la prima volta anzi, in maniera un po' diversa, un po' più insistente. Mi fece realizzare all'improvviso che avevo passato l'estate lavorando e basta. Avendo iniziato il nuovo lavoro a metà luglio, ero stato così occupato con la nuova attività che non avevo trovato il tempo di vivere, di rilassarmi.

In quel momento cominciai a fare caso anche alle giornate ormai minacciosamente corte e buie, senza che riuscissi bene a capire perché. L'idea che sarebbe arrivata presto la nebbia e le giornate ancora più buie mi mise addosso una grande tristezza. Forse perché la mia mente si ricordava di tante altre giornate buie, quelle del paesello sulle montagne dove il sole tramontava presto ed il mio vecchio ufficio a Bologna che non aveva neppure una finestra che guardasse su qualcosa di diverso da un muro.

Senza pensarci troppo decisi di prendere l'unica medicina possibile che conoscevo per quello stato d'animo: fare un altro viaggio. Con l'occasione comprai anche la mia prima macchina fotografica “seria”, per così dire, una bella reflex Canon che avrei portato con me a Tenerife. Sarei stato a Tenerife nove giorni e senz'altro avrei trovato bellissime cose da fare e riportare a casa con me sotto il formato di tante belle fotografie da conservare e riguardare di tanto in tanto. Ho raccontato quell'esperienza nelle prime quattro puntate di un altro podcast che ti lascio qui:

https://youtu.be/aVEs-zM8wwk?si=LR0ug2Tp_opBIi5l

Vai ad ascoltarlo, valuta di ascoltarlo se ti va. Potrai scoprire come ho vissuto quei momenti e la mia scoperta dell'isola.

Ero partito senza troppe aspettative. Volevo solo cambiare aria e passare un po' di tempo lontano dal freddo su un'isola spagnola più vicina al tropico che non alla latitudine dei cappelletti. All'inizio non riuscivo ad apprezzare l'isola e mi sentivo quasi fuori posto. Era novembre e non pensavo che potesse esserci chissà quale caldo. Alla fine Tenerife era un'isola sperduta in mezzo all'oceano, cosa poteva mai esserci? Ma quando arrivò il momento di ripartire mi dispiaceva moltissimo. In pochi giorni mi ero già innamorato di quel posto così lontano da casa e non sapevo neanche bene perché. Certo, sì, ero in vacanza e c'erano anche tante cose nuove e belle da vedere in quell'isola, ma non così tanto da innamorarsene, pensandoci bene. Almeno a prima vista il mare non era granché, le spiagge dorate erano pochissime. La maggior parte erano scure, nere, proprio come il buio che volevo lasciare a casa in Emilia Romagna, e l'oceano era sempre così impetuoso che le onde ti facevano cadere anche nei giorni di bel tempo. C'erano dei boschi molto belli da visitare, sì, ma niente di così strano per noi che conosciamo il Trentino o i meravigliosi boschi degli Appennini qui da noi in Italia. Nonostante tutto questo, stranamente tornai comunque a casa mal volentieri. Forse una parte di me sentiva cosa stava per accadere.

Non appena rientrai al lavoro mi diedero una notizia tremenda: durante la mia assenza, soltanto 9 giorni, l'azienda per cui lavoravo era fallita.

Ero andato in vacanza per alleggerirmi il cuore, pensare ad altro, godermi il momento e rilassarmi anche. Avevo lasciato un'azienda apparentemente florida e con buone prospettive per il futuro, che stava investendo in attrezzature, persone, tecnologie. C'era un fermento in tutti i settori a causa di nuove attività che avremmo dovuto avviare nel giro di breve tempo. Come un fulmine a ciel sereno, però, mi resi conto che non era uno scherzo. Guardandomi intorno vedevo cumuli di sporcizia negli uffici, nessuno veniva più a pulire visto che non era pagato per farlo. Poi mancavano delle attrezzature, i musi delle persone erano lunghi, non ci stavano più pagando. In pratica si veniva in ufficio per obbligo ma per la gloria.

Il 9 dicembre 2016, esattamente un mese dopo che rientrai da Tenerife, arrivò una comunicazione dal curatore fallimentare: non eravamo più obbligati a presentarci in azienda.

Per la prima volta dopo quasi 20 anni di lavoro ininterrotto, mi ritrovavo senza un lavoro, senza uno stipendio e senza nessun tipo di sussidio. Sì, perché devi sapere che la legge del nostro meraviglioso Paese prevede che quando un'azienda fallisce diventa un'altra cosa: un'azienda in fallimento. Può sembrare banale questa distinzione, ma questa forma giuridica non può pagare i dipendenti per il lavoro che stanno svolgendo. Ma i loro contratti sono ancora validi. Se i dipendenti vogliono trovare un nuovo lavoro, sono obbligati a dimettersi e, come si sa, per le dimissioni volontarie, almeno fino ad allora, non era previsto nessun sussidio. Se ti sembra assurdo è perché lo è, ma nelle prossime puntate scoprirai che in Italia riusciamo a raggiungere livelli di assurdità ancora peggiori.

Il buio delle giornate invernali in quel periodo mi faceva davvero paura. Mi sembrava qualcosa di terribile, una specie di pozzo senza fondo a cui ogni giornata sembrava assomigliare, uguale alla precedente, senza nessuna speranza di cambiamenti in vista. Non si riusciva a trovare un altro lavoro, tanto più che eravamo sotto Natale. Passavo le giornate sul divano, al buio. Mi sentivo debole, dolorante, rifiutato da...non sapevo bene chi o perché, colpevole di qualcosa persino, ma io non avevo fatto nulla. Un'influenza pesantissima mi colpì e non riuscii nemmeno ad andare dai miei per Natale. Il tempo sembrava non passare mai. Sentivo molto dolore a livello fisico, anche quando l'influenza era già passata. Un giorno un pollice iniziò a farmi malissimo. Poteva essere uno strascico dell'influenza difficile. Senza poter usare il dito per il troppo dolore, non potevo fare nulla per passare il tempo se non guardare un po' di TV. Mi sembrava che un camion mi fosse passato addosso e cominciavo a chiedermi se i giorni di Tenerife, che in fondo erano lontani soltanto 45 giorni nel passato, fossero esistiti davvero. Il sole, la brezza dell'oceano, l'aria pulita, la luce solare fino alle 6:00 di sera in inverno. Ci pensavo continuamente. Riguardavo le foto fatte con la mia Canon e mi veniva da piangere ripensando a quanto ero stato felice in quel posto.

Con il passare delle settimane e dell'inverno, i dolori aumentarono sempre di più: fitte, nevralgie e mal di testa continui. Qualcuno mi disse che stavo somatizzando, che era tutto nella mia testa. “Devi uscire di più”, mi dicevano, oppure “Guarda, se ti metti a pensarci è ancora peggio. Non ci pensare.” Curiosamente mi dicono quelle stesse cose ancora oggi.

Un pensiero fisso stava cominciando a insinuarsi nella mia mente, un pensiero che prendeva sempre più corpo. Se pensavo a Tenerife, più ci pensavo più mi convincevo di avere ragione. A Tenerife ero stato bene non solo perché ero in vacanza, ma perché quel posto aveva qualcosa di magico per me. Mi ci ero trovato bene. Essere in vacanza sicuramente mi aveva tolto un po' di pensieri lavorativi, ma c'era dell'altro. Là mi era tornato facilmente il buon umore, la voglia di fare, la capacità di pensare più chiaramente, cose che non provavo più da anni, nemmeno con le compresse magiche dell'India. Nessun vuoto di memoria, nessun tentennamento nei movimenti delle mani. Mi sentivo sciolto, in forma, come non mai negli ultimi anni, con tanta energia per camminare e fare tanti sentieri, esplorare l'isola. Al mio ritorno avevo raccontato che mi sentivo 10 anni di meno, e più ci riflettevo più mi sembrava vera questa cosa. Una vacanza aveva questo potere? Ne avevo fatte tante altre in vita mia, ma mai mi ero sentito così bene negli ultimi anni. Poi l'improvviso rientro in aereo e il ritorno alla vita quotidiana, dove tutto era andato a rotoli. Bastava questo a giustificare come mi sentivo? Forse sì, perché come dicono in tanti la condizione mentale ha un grande potere sul corpo, ma avevo la sensazione che ci fosse molto di più.

Avrei avuto molte altre occasioni in futuro per approfondire questa bella sensazione, questo presentimento.

Ti racconto di questa sensazione perché è molto importante per ciò che verrà dopo.

Ti ho raccontato cosa ho passato in quegli anni perché credo che ogni malato invisibile abbia vissuto le stesse cose, in una forma o nell'altra. Tutti noi abbiamo dovuto lottare contro la sensazione che ci fosse qualcosa che non andasse. Ci siamo resi conto di avere qualcosa di profondamente diverso che ci distingue dagli altri, e non in meglio purtroppo. Non abbiamo saputo spiegarlo. Ci siamo chiesti se questo qualcosa avesse un nome, ma in fondo riuscivamo a conviverci fino al giorno in cui non ci siamo riusciti più e allora abbiamo dovuto capire, ricercare, trovare un nome per ciò che ci faceva soffrire. Perché senza un nome, senza le parole, non si può comprendere un fenomeno.

Ecco il perché di questo podcast: trovare le parole per gridare al mondo cosa ci sta succedendo. Se non lo raccontiamo, resterebbe solo una nostra esperienza e noi persone strambe con qualche fissa. Capisci dunque quanto sia importante diffondere il più possibile gli episodi di questo podcast, perché se non lo farai il resto del mondo non saprà che esistiamo. Parlane con i colleghi, gli amici, i familiari. Fai sapere a tutti che esistiamo, che non dobbiamo essere dimenticati nella vita di tutti i giorni.

Negli anni tra il 2010 e il 2016 mi stavo soltanto affacciando all'abisso. Nel prossimo episodio sentirai quanto può essere profondo quell'abisso. Stammi bene.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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🌟 I miei anni '90: quando le mie mani funzionavano da Dio! 🙌✨

“Se le tue mani funzionano o funzionano ancora abbastanza bene, ti invito ad usarle.

Usale finché puoi, perché anche se non soffri di una delle patologie degli invisibili, è vero che prima o poi quasi tutti non potremo più usarle, ad un certo punto.”

Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 9), anziché leggerlo, puoi farlo qui:

[...]

In questo episodio ti racconto come le mie mani siano sempre state forti, capaci e molto attive e di come la malattia le abbia cambiate radicalmente. All'incirca alla metà degli anni '90, gli anni delle superiori volavano via tra lo stress della scuola, che richiedeva un impegno sempre crescente, e la scoperta di nuovi gruppi musicali: i Queen, ad esempio, ma anche i Mr Big, i Metallica e diversi chitarristi virtuosi come Joe Sateiani e, soprattutto, Steve Vai, di cui mi innamorai istantaneamente. Non tanto per le melodie che produceva con lo strumento, che erano quasi sempre incomprensibili, ma per i suoni che riusciva a tirare fuori dalla sua chitarra elettrica, qualcosa di incredibile, mai sentito prima. Riusciva a farla addirittura parlare in inglese, ad esempio. Non si distinguevano chiaramente le parole, ma era come se una persona stesse parlando e intonando il senso del discorso sulla chitarra. Ed era chiaro: la sua tecnica mi avrebbe dato tantissimi nuovi spunti più avanti e avrebbe anche definitivamente modificato il mio orecchio musicale, che da quel momento avrebbe considerato musica anche melodie che, fino a poco prima, mi sarebbero sembrate suoni buttati lì a caso. E invece no, c'era un disegno, una logica in quelle note che aspettava solo di essere scoperta. Non per niente Steve Vai era stato il chitarrista prodigio di Frank Zappa, un altro pioniere della musica moderna.

Per un periodo mi ero distaccato dal mio gruppo storico a causa della nostra differenza di vedute dal punto di vista musicale. Avevo bisogno di suonare più cose che mi piacessero, mentre il gruppo stava insistendo molto sulla musica italiana, in quel periodo, che a me piaceva meno. Così, a Pontremoli, incontrai Emanuele e Giovanni. Emanuele era un chitarrista, ma anche un bassista, mentre Giovanni era un pianista di talento. Entrambi mi fecero fare un salto evolutivo enorme: due persone molto in gamba a suonare, a cui però era più difficile stare dietro. E in più c'era un altro problema: volevano fare un concerto di fine anno all'Azione Cattolica di Pontremoli. Tutto bello, ma mancavano un bassista e un batterista per fare qualcosa di decente. Il batterista si trovò facilmente, mentre il basso... beh, iniziai a suonarlo io!

Che emozione! Uno strumento simile alla chitarra, ma completamente diverso nella sua funzione, che aspettava solo di essere scoperto. Riesci a immaginare qualcosa di più bello? Io, no!

Emanuele era già abituato a suonare il basso perché lo usava come strumento principale a casa, e così mi insegnò cosa significasse suonare senza accordi, cercare la nota giusta lungo il manico piuttosto che vicino a quella che stai già suonando, perché l'effetto sonoro che si ottiene è completamente diverso. E spesso è proprio quello l'effetto che si cerca sul basso! Imparai i vari modi di creare ritmo in una canzone, perché il basso in fondo è di quello che si occupa. Mi incantava quel suono pieno, non distorto, che ti faceva vibrare la pancia e faceva da collante tra tutti gli altri strumenti. Uno strumento che non si notava, insomma, ma la sua voce c'era, eccome, ed era importante. Insomma, un altro invisibile.

Se la chitarra metteva sotto stress le dita, il basso era ancora più difficile da suonare. Ci voleva ancora più forza sulla punta delle dita; ci voleva più forza per stringere abbastanza le corde, che erano molto più spesse rispetto a quelle della chitarra. E poi, visto che con la mano destra suonavo le corde direttamente, senza il plettro che usavo sulla chitarra, l'avambraccio mi faceva malissimo. L'indice e il dito medio, infatti, dovevano muoversi molto rapidamente per pizzicare le corde; anche i polsi mi facevano molto male all'inizio. Insomma, quello strumento mi costringeva anche a una serie di esercizi per preparare il fisico a poterlo suonare, ma ne valeva assolutamente la pena. Ti racconto tutto questo per farti capire qual era la mia abilità di ignorare il dolore, o persino di sentirlo: quella che viene chiamata soglia del dolore, insomma, e poi anche per farti capire la mia determinazione. Non ero una persona che si tirava indietro di fronte agli ostacoli o a quello che non conosceva; anzi.

Il tempo trascorse velocemente e arrivò anche Capodanno. Il concerto andò molto bene e ne conservo ancora una registrazione. Suonammo musica dei Queen, dei Doors, dei Nomadi, di Baglioni e naturalmente anche dei Pink Floyd, la nostra passione comune. Subito dopo però tornai al gruppo storico, quello del mio paese, un po' per impegni vari, ma anche perché il gruppo di Capodanno non aveva più ragione di essere. Mi presentai ai miei amici del paese con il mio nuovo basso in mano: finalmente avevamo un bassista: io!

Per un po' suonai con piacere quello strumento insieme a loro, ma non bastava. Decidemmo allora che ci serviva un batterista. Ma chi? In paese non c'era nessuno che suonasse la batteria. Il tempo passava e questo salto di qualità non si riusciva a fare. Così, pur di continuare a suonare con loro, decisi che il batterista sarei stato io. Marco, che era il nostro cantante poeta, comprò il mio basso e da quel momento lo avrebbe suonato lui. Io invece acquistai una batteria economica, altra opportunità di imparare. È così che iniziai a suonare anche la batteria, e il mio super orecchio mi aiutò non poco. Riuscivo ad ascoltare le cassette dei miei musicisti preferiti e poi deducevo, dai suoni che ascoltavo, in quale sequenza colpire i pezzi della mia batteria per riprodurre la parte di batteria del brano musicale.

Tutto questo processo avveniva velocemente nella mia mente, a volte anche in pochi millisecondi, e riuscivo così a suonare anche sul momento alcuni semplici pezzi che non avevo mai sentito. A pensarci, oggi mi sento molto orgoglioso delle mie capacità di allora.

In breve tempo, un colpo di sfortuna ci costrinse a cambiare ancora. Danilo, per un infortunio grave a un dito, non avrebbe mai più potuto suonare la chitarra, o almeno non bene quanto prima. Poteva essere la fine e invece cogliemmo l'occasione: perché non scambiarsi le parti? Lui avrebbe suonato la batteria e io di nuovo alla chitarra, con il ruolo di solista che era stato suo. L'anno successivo avremmo dovuto incidere il nostro primo CD dimostrativo, che avremmo poi potuto distribuire. Però occorrevano strumenti migliori. Questa volta non avrei potuto contare sui miei: ero grande ormai e giustamente mi dissero che avrei dovuto guadagnarmi quello che volevo. Lavorai per tutta l'estate, tra la quarta superiore e la quinta, come cameriere. Imparai a conoscere il lavoro e pensai bene di iniziare col botto: 10, 12, anche 14 ore al giorno per tutta l'estate. Ma a settembre comprai il mio primo strumento, che mi ero guadagnato con le mie stesse mani: una soddisfazione incredibile. Era una bellissima chitarra elettrica Ibanez, completamente nera, con un amplificatore Fender a valvole che ancora oggi produce suoni fantastici.

Finalmente potevamo andare in studio e quell'esperienza ci fu molto utile per unirci ancora di più come amici e musicisti. I pezzi che avevamo preparato erano venuti abbastanza bene per le nostre possibilità ed eravamo molto soddisfatti.

Dopo pochi mesi partecipammo a un concorso a Castrocaro. Chi si fosse piazzato ai primi posti avrebbe potuto partecipare al famoso Festival di Castrocaro e, se fosse andata bene lì, a Sanremo. Con nostra grande sorpresa, la prima serata andò benissimo: arrivammo primi, ma decidemmo di non continuare. Il concorso sarebbe stato troppo impegnativo economicamente, considerando anche che qualcuno di noi lavorava già e non poteva mancare ai suoi impegni. Nel frattempo iniziai a frequentare altri gruppi che suonavano pezzi degli AC/DC, degli Iron Maiden, dei Metallica e dei Deep Purple. Mi dava sempre più soddisfazione saper suonare i pezzi dei grandi della musica, espormi come chitarra solista, sapere che tutti gli occhi, o meglio tutte le orecchie, sarebbero state puntate su di me. Era anche una grande responsabilità: bastava una nota sbagliata e avrei fatto una pessima figura. Mi stavo abituando sempre di più a essere un punto di riferimento, e a mio modo mi sarebbe stato molto utile poco tempo dopo.

La maturità fu l'esperienza forse più stressante della mia vita, ma per fortuna passò anche quella. Mi sentivo svuotato, esausto. Finalmente ero riuscito ad arrivare sulla cima di quella montagna che solo tre anni prima mi sembrava impossibile da scalare. Ero pronto a ricominciare? No, assolutamente no! E infatti decisi di non fare l'università, seguendo anche l'esempio dei miei fratelli maggiori, a cui stava costando moltissimo (prima che l'abbandonassero).

Finalmente non avevo più obblighi scolastici. Iniziai così ad affacciarmi al mondo del lavoro soltanto con un diploma da ragioniere programmatore in mano. Valeva poco anche allora, ma sicuramente qualcosa in più di quanto possa valere oggi. Salutai i miei, il paesello e i suoi inverni bui e lunghi e decisi di andare a cercare fortuna a Parma. Una città grande avrebbe offerto senz'altro di più a una persona in cerca di lavoro, ed era vero, ma non fu così facile ottenere il mio primo impiego da sviluppatore software. Ci vollero tre lunghi anni, in cui nel frattempo mi adattai a fare di tutto: il facchino in un hotel, con grande gioia per le mie giovani vertebre, e poi il fattorino, l'operaio in fabbrica e tante altre professioni. Non amavo nessuna di queste: ciascuna a proprio modo, tutte erano pericolose. Avevo visto alcune cose decisamente inquietanti nei reparti di verniciatura e montaggio delle varie fabbriche dove avevo lavorato. Avevo deciso, allora, che avrei dovuto fare l'impiegato, anche perché ci tenevo molto al mio corpo, alla sua integrità e alla sua salute. Questa cosa, detta oggi, è al limite del tragicomico, visto come sono andate le cose. Sono il genere di persona che non farebbe mai un piercing o un tatuaggio, non per chissà quale implicazione morale, ma semplicemente perché credo che i corpi siano belli così come sono, senza bisogno di cambiarli in maniera permanente, se non c'è un motivo di salute per farlo. Semplice gusto personale. E pensa a cosa è accaduto al mio corpo. Pensa a tutto quello che ti ho raccontato finora. Le mie dita allora erano capaci di muoversi agilmente e velocemente, in pochi millimetri, con grande precisione e velocità, applicando forze anche piuttosto importanti per un dito solo. I muscoli delle mie mani erano grandi, pulsanti e bene in vista. Riuscivo ad aprire le noci schiacciandole tra pollice e indice.

Oggi la forza le ha abbandonate. Ci sono momenti in cui quasi non riesco a credere che quello che ti sto raccontando sia vero. Ho la sensazione che siano i ricordi di un'altra persona e faccio fatica ad accettare quello che sono diventato oggi, soprattutto in relazione a ciò che sono stato.

Per effetto dell'artrite e della fibromialgia, le mie mani hanno poca forza e, fino a poco tempo fa, tremavano quando chiedevo loro di afferrare. Ora non tremano più, semplicemente perché la forza non c'è. Se voglio stringere la mano, questa rimane poco più che inerte. Al mattino le mani sono rigide, prima che si sciolgano un po', e sono gonfie e dolorose. Niente a che vedere con ciò che sono state.

Qualcuno mi dice che prima o poi invecchiamo tutti e io rispondo che sì, è vero, invecchiamo tutti, ma non tutti si ritrovano così prima dei 50 anni. Non è la stessa cosa ed è buffo notare che chi ci dice queste cose non soffre dei problemi degli invisibili.

Ma tant'è.

Se le tue mani funzionano o funzionano ancora abbastanza bene, ti invito ad usarle.

Usale finché puoi, perché anche se non soffri di una delle patologie degli invisibili, è vero che prima o poi quasi tutti non potremo più usarle, ad un certo punto.

Non rimandare quello che vuoi fare. Fallo oggi, perché la vita può sorprenderti in modi che non ti aspetti neanche.

Accarezza qualcuno a cui vuoi bene; usale per aiutare: penso che sia la cosa più bella che si possa fare.

Crea qualcosa di bello, gioiscine, suona: io non posso più farlo.

Ci sentiamo martedì.

Stammi bene.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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