“Agatha Raisin e la quiche letale” di M.C. Beaton

Ciò che era abituale sul vecchio “Nonsolobotte” ha il gusto di novità, qui, ma è anche accompagnato da un certo nervosismo perché, lo confesso, mi sento ancora un’esordiente nel Fediverso. Però qualcosa è rimasto uguale a prima, come il fatto che io non scriva recensioni. Recensire libri è un lavoro serio: si parte da un’attenta analisi del testo, si valuta lo stile narrativo, si argomenta lo sviluppo di intreccio o trama, si esaminano i personaggi e le ambientazioni, si soppesano persino le parole utilizzate, arrivando fino a disquisire se un termine sia più o meno funzionale di un suo sinonimo… un lavorone! Io, qui come sul precedente “Nonsolobotte”, sono e resto una semplice lettrice, non una addetta ai lavori; le mie non sono recensioni ma semplici impressioni e riflessioni scaturite dai libri che mi hanno tenuto compagnia, spesso nelle mie peripezie da pendolare Trenord (a proposito, su Mastodon trovate #libripendolari , oltre alle mie imprecazioni per ritardi e disservizi). Ma adesso bando alle proverbiali ciance e veniamo a lei, alla signora Raisin e alla sua (?) quiche letale.

Agatha ha poco più di cinquant’anni quando decide di averne avuto abbastanza del lavoro e della City, vende la sua agenzia di pubbliche relazioni – che aveva creato dal nulla e fatto prosperare – e acquista il cottage dei suoi sogni nel paesino dei suoi sogni tra i compaesani dei suoi sogni. Solo che non c’è niente di peggio dei sogni che si concretizzano. Il cottage, arredato da un esperto di design d’interno assoldato appositamente, sembra più un set cinematografico che un’abitazione; il paesino pare essere di una noia mortale per una donna in carriera dal piglio deciso e sempre super attiva, abituata a strigliare i dipendenti e a manovrare giornalisti; i compaesani appaiono superficiali quando non apertamente ostili, come quell’antipatica della vicina di casa del cottage Nuova Dehli o quei boriosi snob dei coniugi Cummings-Browne. Agatha, ben decisa a raggiungere un ruolo di spicco nella piccola comunità di Carsely, scopre che a breve si terrà una gara di quiche e pensa bene di partecipare e, ovviamente, vincere: quale modo migliore per inserirsi nel tessuto del villaggio, reclamando la parte di protagonista che da sempre le appartiene da quando ha iniziato a sgomitare nel mondo delle pubbliche relazioni londinesi? Certo, c’è il piccolo dettaglio, forse non proprio irrilevante, che lei non sa cucinare ed è la regina del cibo precotto, la sovrana del microonde, l’imperatrice dell’apri-e-gusta. Come caspita si fa a vincere una gara di quiche, se non si sa cuocere nemmeno un uovo? Facile: si va alla Quicherie di Londra, proprio quel simpatico locale che tante volte le ha salvato le pause pranzo, si compra una quiche agli spinaci, la si porta a casa, si fa sparire la confezione, sostituendola con un incarto volutamente raffazzonato, e la si porta alla gara spacciandola per una propria creazione.

Agatha Raisin e la torta salata spero NON letale Agatha Raisin e la torta salata spero NON letale

Non voglio anticiparvi troppo, per non guastarvi il piacere di scoprire pagina dopo pagina cosa succederà; vi basti sapere, per ora, che Agatha non vince la gara, che il giudice – proprio quel viscido snob di Cummings-Browne – viene trovato morto stecchito nella propria casa il giorno dopo aver cenato con la quiche portata da Agatha e che lei pensa bene di improvvisarsi detective, non tanto per discolparsi dall’accusa – che peraltro quasi nessuno le rivolge – di avvelenamento, quanto per diventare persona di spicco nel villaggio, ruolo che le è sfuggito nella gara di cucina palesemente truccata.

La lettura corre via veloce, personalmente non mi sono innamorata dei personaggi – Agatha l’ho trovata anche un po’ antipatica, a dirla tutta, ma forse era a questo che puntava l’autrice – ma la trama è intrigante e la scrittura davvero piacevole, con punte di ironia British che non guastano certo.

Il libro, la cui lettura era stata suggerita su Mastodon.uno da troppacaffeina, era uno di quelli che giacevano dimenticati in un angolo, uno dei tanti (troppi?) acquistati d’impulso e poi accantonati in attesa di avere tempo… Be’, questa esperienza mi ha ricordato – come già affermava un bel po’ di secoli fa Seneca nel De brevitate vitae – che il tempo non è poco, dipende dall’uso che se ne fa. Io, ad esempio, ho approfittato dei miei viaggi in treno e dell’ interminabile pomeriggio ai seggi elettorali con miserrima affluenza di votanti per leggere.

Viviana B.