I libri di V.

Fin da quando fece la sua comparsa nel racconto di Platone, Atlantide non ha mai smesso di affascinare l’umanità e, nei secoli, non sono certo mancati i ricercatori – più o meno degni di fiducia – che hanno creduto di poterne identificare la collocazione geografica in questo o quest’altro punto del pianeta. Anche se potrà sembrare ridondante per molti, spendo qualche parola su cosa dovrebbe essere stata Atlantide, perché, proprio per il fascino suscitato e la grande quantità di decenni trascorsi dalla sua nascita platoniana, nei secoli questa è mutata parecchio, diventando a volte isola altre continente, spostandosi a volte nel Mediterraneo o appena fuori da esso altre in pieno Oceano Pacifico o persino al Polo e così via. Secondo Platone (e qui vi piazzo il link perché un’ulteriore digressione sarebbe davvero troppo!) oltrepassate le Colonne d’Ercole si sarebbe trovata una serie di isole, la più estesa delle quali, “più grande della Libia e dell’Asia messe insieme”, era una forte potenza marinara il cui primo re fu Atlante, figlio del dio del mare Poseidone. Il filosofo parla di questa civiltà nei suoi dialoghi Timeo e Crizia, entrambi datati attorno al 360 a.C., ma si riferisce ad Atlantide come a qualcosa di già passato: la grandiosa isola, infatti, sarebbe sprofondata ”essendosi verificati terribili terremoti e diluvi, nel corso di un giorno e di una notte”, dopo il fallito tentativo di vincere una guerra contro Atene; la vicenda è tanto remota che persino gli ateniesi ne avevano perso memoria e ne sono venuti a conoscenza solo grazie a Solone (VI secolo a.C.), che, giunto in Egitto, avrebbe incontrato alcuni sacerdoti che gli raccontarono tutto. Nel Crizia lo stesso Platone si riferisce ad Atlantide parlando di novemila anni prima.

Questo ci dà un’idea di come avrebbe dovuto essere Atlantide, almeno per estensione e ubicazione geografica, e dei tempi antichissimi in cui avrebbe potuto esistere questa civiltà che, sebbene evoluta e ben organizzata, era evoluta e ben organizzata per i tempi in cui scriveva Platone il quale, per inciso, non ha mai parlato di raggi laser né di uomini-pesce. Sgombrato dunque il campo da tutta – o almeno buona parte – della letteratura fantasy e fantascientifica, passiamo adesso ad occuparci della ”vera” Atlantide e di coloro che ne hanno intrapreso la ricerca, cui si riferisce questo libro.

Fintanto che c’è stato abbastanza mondo inesplorato, Atlantide ha potuto spostarsi a piacimento un po’ più in là, oltre il conosciuto e se ai tempi di Platone il continente scomparso si trovava appena superate le Colonne d’Ercole mano a mano che queste aree venivano esplorate l’Atlantide si doveva essere trovata altrove: in prossimità delle Canarie, poco distante dalle Americhe, nei dintorni dell’Australia… Nel libro vengono elencate – e smontate – le più disparate teorie, come quella dell’Atlantide-in-America, nata in buona parte grazie al monaco spagnolo Diego de Landa che, oltre a dare alle fiamme tutta la letteratura indigena che riuscì a trovare a partire dal 1562, si interessò poi alla lingua Maya e si inventò in buona sostanza un alfabeto inesistente. Ignatius T.T. Donnelly (1831-1901) dal canto suo teorizzò che i Maya e altre civiltà antiche discendessero dagli atlantidei, mentre il suo contemporaneo Augustus Le Plongeon asserì che una principessa atlantidea scampata alla distruzione della propria terra sarebbe riuscita a fuggire in Egitto, dove eresse la sfinge in memoria del fratello-consorte e, cambiato il proprio nome in Iside, fondò la civiltà egizia. Non mancano gli occultisti, tra cui spicca madame Helena P. Blavatsky, fondatrice a fine ‘800 della teosofia, la cui visione di Atlantide, della Lemuria e dei loro abitanti è tanto articolata e complessa che non mi basterebbero una dozzina di blog per esaminarla nel dettaglio (ma se voi volete cimentarvi nell’impresa potete leggere la sua opera La dottrina segreta).

Pur essendo Sprague de Camp un autore di fantascienza, l’analisi che fa in quest’opera è improntata a un forte realismo: storiografia e geografia, occultismo ed esoterismo vengono trattati con razionalità, i miti vengono analizzati e sezionati minuziosamente, conducendo alla realizzazione di un testo più di saggistica che di narrativa. Se cercate un romanzo d’evasione, non è certo questo il libro che dovete tenere tra le mani.

L’autore raccoglie, esamina e smonta pazientemente tutte le teorie sorte nei secoli attorno ad Atlantide e ai continenti scomparsi come Mu e la Lemuria, in un affascinante viaggio nel tempo, nello spazio e nei miti, tra ricercatori che hanno seriamente cercato di trovare un riscontro tangibile e concreto alle parole di Platone e truffatori che hanno imbastito favole affascinanti per raggirare i creduloni. La conclusione di Sprague de Camp è che Atlantide non sia mai stata altro che un mito, un’invenzione di Platone per suffragare le proprie teorie filosofiche, ma, scrive anche, L’Atlantide offre il mistero romantico a coloro che giudicano la storia vera non abbastanza emozionante […] ma soprattutto fa vibrare le corde dell’animo umano con il suo concetto della malinconica perdita d’una cosa bella, di una felice perfezione posseduta un tempo dall’umanità e allora chissà che non possa essere di sprone, oggi, per guidare l’essere umano verso un miglioramento personale e sociale per il futuro.

Titolo: Il mito di Atlantide e i continenti scomparsi (Lost continents The Atlantis theme) Autore: Lyon Sprague de Camp Traduttore: R. Rambelli Editore: Fanucci Anno di pubblicazione: 1980

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Viviana B.

Il signor Stetič rimarrà forse stupito nel ricevere la lunga lettera della signorina Kayleigh: anche lei ha lavorato per diversi mesi all’Hexa ma, a differenza di gran parte dei suoi ex colleghi, non intende costituirsi parte civile nel processo contro l’azienda, né cercare di ottenere soldi. Tutto quello che vuole è essere lasciata in pace e, se possibile, dimenticare. Per questo ha deciso di scrivere all’avvocato Stetič, che da quando la storia è apparsa sulla stampa non le dà tregua e continua a chiamarla: per raccontargli tutto e venire finalmente lasciata in pace. Perché nessuno più le chieda: “Allora, signorina Kayleigh, qual è la cosa più orrenda che ha visto?”.

La Hexa è una società come tante altre, sparse nel mondo: sorge in un palazzone anonimo in un’anonima periferia di una grande città e al suo interno lavorano persone anonime che hanno il compito di visionare i post di altre persone anonime che cercano il loro istante di notorietà sui social. Kayleigh è una dei tanti moderatori incaricati di verificare che i milioni di post pubblicati siano conformi alle linee guida dettate dalla piattaforma, che è la società committente per la quale Hexa lavora. All’inizio il compito sembra facile, ed è anche ben retribuito, almeno paragonandolo agli altri disponibili in zona per persone senza specifiche competenze né titoli di studio: in fondo, tutti noi passiamo un sacco di tempo sui social e poter essere pagati, per farlo, non sembra niente male. Certo, la piattaforma ha delle regole ferree a cui devono attenersi tutti i dipendenti delle varie aziende come Hexa: un contratto che contiene clausole di riservatezza, ciò che si vede in Hexa resta in Hexa; divieto assoluto di utilizzare i cellulari, che vanno lasciati in un armadietto prima dell’inizio del proprio turno di lavoro e, naturalmente, rispetto totale delle linee guida per stabilire se un contenuto debba essere rimosso o meno dalla piattaforma stessa, ma tutto sommato queste regole sembrano facili da rispettare. Tanto che pare strano il continuo andirivieni di dipendenti, che se ne vanno lasciando il lavoro solo dopo qualche mese, e ancora più strano sembra il comportamento di qualcuno di loro, come ad esempio quello di chi arriva a minacciare il proprio supervisore con un taser… Il fatto è che la valutazione di ciascun contenuto deve essere fatta in pochi secondi, che non sempre moderatore e supervisore sono d’accordo, che non si può sprecare tempo discutendo e che un margine di errore troppo elevato nel giudizio conduce dritto dritto al licenziamento, il tutto mentre le linee guida cambiano ogni giorno o quasi: si può pubblicare il video di un ragazzo che gioca con dei gattini morti, ma quello in cui li uccide deve essere rimosso; il video della decapitazione di un uomo può essere lasciato, se si tratta di un video di informazione e di pubblica utilità, a meno che gli Stati coinvolti non facciano parte de… no, forse va rimosso comunque, in fondo è morte violenta… però il pubblico deve sapere in quale regime oppressivo si trovano certi Stati… o no? Ecco, sono già passati cinque secondi, non hai preso la tua decisione e la tua valutazione scende sotto la soglia stabilita dalla piattaforma. Ancora qualche esitazione di questo tipo e ciao ciao posto di lavoro. Non stupisce che durante l’ora di pausa coi colleghi si parli solo di video e contenuti: bisogna essere preparati, sapere cosa può restare online e cosa no, poter decidere in un battito di ciglia senza lasciarsi ingannare dagli utenti. C’è chi inventa la morte di un parente per qualche like in più, e quel contenuto – per quanto discutibile – può rimanere online, ma la ragazzina che mostra segni di tagli sulle braccia in un video sarà davvero una giovane autolesionista o solo un’abile esperta di make up da Halloween a caccia di qualche mi piace? La gente è disposta a tutto per apparire, per scalare l’algoritmo, per una manciata di like che può dare la notorietà, non importa se solo per mezza giornata o mezz’ora. Il miraggio dell’influencer, che ce l’ha fatta, che viene pagato per mostrare se stesso, ciò che fa, indossa, mangia, usa, getta, in rete è lì ad attrarre milioni di individui anonimi, pronti a tutto per agguantare il sogno.

Il semplice lavoro di moderatore si rivela, ora dopo ora, giorno dopo giorno, più complicato e logorante del previsto: ciò che si vede in rete influisce sul modo di considerare la realtà che ci circonda, teorie complottistiche si mescolano ad atti di bullismo ripresi e diffusi con lo smartphone, il Potere Vegano muove alla conquista del mondo mentre Big Pharma avvelena l’umanità, la Terra è piatta e ragazzini si fratturano le ossa in bici o sullo skateboard tentando acrobazie, forse i lager nazisti sono solo un’invenzione degli ebrei che detengono il potere economico mondiale mentre uomini e donne di ogni colore e stazza fanno sesso a favore di videocamera e la potente Razza Bianca va alla ricerca della propria supremazia sfoderando armi. E ci si sveglia nel cuore della notte ricordando all’improvviso un capezzolo sfuggito al controllo, o una bandiera dell’ISIS sullo sfondo, in lontananza in un video. Gli errori commessi ti vengono a cercare, di notte, insieme alle immagini che la tua mente ha registrato e che non sai mandare via, fino a quando arrivi a pensare che forse la soluzione sarebbe non dormire affatto.

Nato dalla fantasia dell’autrice, questo romanzo breve riecheggia comunque fatti di cronaca reale, a cominciare dalla causa intentata nel 2018 dall’ex dipendente Selena Scola nei confronti di Facebook, accusato di aver esposto lei e i colleghi a ”contenuti altamente tossici, pericolosi e dannosi” senza l’adeguato supporto psicologico, dal documentario Field of vision – The moderators e dal più recente Gli orrori di essere un moderatore di Facebook. Un discreto racconto, in cui ciascuna ”categoria a rischio odio social” trova il proprio spazio grazie alle amicizie intessute sul lavoro dalla protagonista: Kayleigh e la collega/compagna Sigrid sono lesbiche (omofobia), Kyo è sovrappeso (bodyshaming), Souhaim è nero (razzismo), Louis è ebreo (negazionismo); un racconto che, però, secondo me, avrebbe potuto essere maggiormente approfondito e mi ha lasciato la sensazione che l’autrice non abbia voluto esporsi troppo, evitando così di mettersi davvero in gioco.

Titolo: Questo post è stato rimosso Autrice: Hanna Bervoets Traduttore: Francesco Panzeri Editore: Mondadori Anno di pubblicazione: 2022

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Viviana B.

Sette mariti sono un bel numero, non c’è che dire. Persino per Hollywood, patria delle finzioni, regno dei tradimenti, terra di raggiri dove tutto è lecito pur di far splendere la propria stella. Sette mariti, lo stesso numero di quelli avuti dalla leggendaria Elizabet Taylor, ultima grande diva, divenuta celebre sia per il talento sia per la vita sentimentale quantomeno… turbolenta. Con lei Evelyn Hugo ha in comune anche la straordinaria bellezza, la precocità dello sviluppo fisico e delle prime nozze, la longevità sotto le luci della ribalta a partire dagli anni Cinquanta, la professione di svariati consorti: attore – il bello e dannato Don Adler e il bello e basta Rex North per Evelyn, il maturo Michael Wilding e l’affascinante Richard Burton per Elizabet –, cantante – Mick Riva per Evelyn, Eddie Fisher per Liz –, produttore – Harry Cameron per Evelyn, Mike Todd per Elizabet. A parte alcune significative similitudini, comunque, questa non è una biografia della Taylor camuffata da romanzo, ma forse più una summa dei vizi e dei segreti di Hollywood. È la stessa protagonista a svelare, in una riflessione personale quando il racconto volge verso l’inevitabile fine, ciò che serve per sopravvivere e fare successo nella mecca del cinema: … Gli avrei risposto che era perlopiù questione di fortuna. E che bisogna essere disposti a negare ciò che si è, mercificare il proprio corpo, mentire alle persone, anche le più buone, sacrificare chi si ama in nome di ciò che la gente potrebbe pensare di te, e scegliere continuamente di presentare una versione finta di se stessi, fino a dimenticare chi eri prima che tutto quanto avesse inizio, e perché hai voluto iniziare.

Ho parlato di protagonista perché Evelyn senza dubbio lo è. Anche se il libro si apre con le parole di Monique, che poi incontrerà la diva e la cui vicenda personale si intreccerà nel racconto in modo non sempre imprevedibile, lei è perlopiù la voce narrante, la spalla – certo preziosa – che affianca la star. Evelyn. Evelyn che splende appena adolescente tra i vicoli di Hell’s Kitchen, Evelyn che sa cosa la rende speciale e non esita a servirsene, Evelyn che ormai ottantenne rimane comunque splendida e iconica, Evelyn, Evelyn, Evelyn. Persino i mariti, i famosi sette mariti, sono spesso solo comparse; appaiono sulla scena per dare modo a lei di diventare ciò che vuole: attrice, donna consapevole dei propri desideri, la stella più pagata del mondo, madre… C’è Evelyn, c’è uno scopo, e da qualche parte c’è un futuro marito adatto a raggiungerlo. Messa così, potrebbe sembrare che si tratti di una donna spietata, una specie di mostro, ma non dobbiamo dimenticare dove si svolge la vicenda: signore e signori, questa è Hollywood! Tutti (o quasi) i mariti di Evelyn appartengono a questo mondo, tutti (o quasi) sono ben consapevoli di quale gioco si stia giocando e ne sono partecipi, non vittime. Apparire sui giornali per rilanciare la carriera dopo un flop al botteghino, esibire una moglie per tacitare compromettenti voci di omosessualità, portare nella realtà la coppia-da-sogno che milioni di fan hanno adorato sullo schermo e che potrebbe vincere un Oscar, ottenere una famiglia in modo tradizionale, senza che si sollevino dubbi circa le proprie preferenze sessuali… Pensateci bene: questa non è la storia di Evelyn Hugo, questa è la storia di Hollywood e di molti dei suoi più celebri, reali abitanti.

Poi c’è Monique, l’Oreo, come la definivano, ferendola, i compagni di scuola, la figlia di padre afroamericano e madre caucasica, piena delle insicurezze costruite nell’infanzia e solidificate durante la crescita. Monique con le sue scelte di comodo, pronta a sguazzare nella rassicurante mediocrità fino a quando una diva non irrompe nella sua vita sconvolgendo tutto e facendole, però, aprire gli occhi su ciò che davvero è e cosa può ottenere. Sullo sfondo, quasi appena percepibili dietro il fulgore della star, quarant’anni di società a stelle e strisce con le sue contraddizioni, i suoi problemi, le sue lotte: i profughi cubani e il sogno americano, i matrimoni misti e il razzismo, i giornali che danno popolarità e spargono veleno, la ricerca del potere e l’annullamento di sé, l’AIDS e le rivendicazioni LGBT+.

Fabula e intreccio coincidono, i fatti vengono esposti in ordine cronologico con qualche concessione a rari flash-back sia nel racconto di Monique sia in quello, consequenziale ma predominante, di Evelyn; alcuni elementi, riproposti a più riprese, catturano l’attenzione del lettore e lasciano presagire quale sarà la conclusione, che quindi non giunge certo come un fulmine a ciel sereno, e, parallelamente, la stessa funzione preparatoria svolge anche l’unica importante assenza, un’identità taciuta che verrà rivelata solo poche pagine prima della fine ma che i più attenti avranno nel frattempo di sicuro individuato. Lo stile narrativo è agile e colloquiale, la lettura scorre veloce e senza intoppi; alcuni inserti che riproducono ritagli di giornale delle varie epoche contribuiscono a rendere più immersiva e credibile la storia; la voce narrante figlia di matrimonio misto, la diva nata da profughi che incarna il sogno americano e l’onnipresente filosofia gayfriendly trasformano un buon prodotto editoriale in successo clamoroso, tanto che Liz Tigelaar sta già lavorando all’adattamento del romanzo per Netflix. Luci. Standing ovation. The end.

Titolo: I sette mariti di Evelyn Hugo (The seven husbands of Evelyn Hugo) Autrice: Taylor Jenkins Reid Traduttrice: Giovanna Scocchera Editore: Mondadori (Atria Books) Anno di pubblicazione: 2021 (2017)

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Viviana B.

Bene e male esistono e sono in eterna lotta. Non è superstizione, non è fede: ciascuno di noi, credente o ateo che sia, riconosce e distingue ciò che è bene da ciò che è male. Il problema è che la visione è soggettiva.

Anno 1964. I fratellini Alex e Jessica Price vengono rapiti dalla loro casa nel cuore della notte e, nonostante le incessanti ricerche da parte dei genitori e della polizia, di loro si perdono le tracce. California, oggi. Daniel Clark, profiler dell’FBI, non ha dubbi circa Eva: si tratta di un serial killer, uomo, bianco, estremamente lucido e organizzato, la cui mente è devastata da manie mistico-religiose e che ha scelto di farsi chiamare così. Ogni mese, al sorgere della luna nuova, Eva uccide una donna al culmine di un allucinato rituale; le vittime, tutte rinvenute in rifugi sotterranei o caverne, non presentano segni di violenza né fisica né sessuale, sembrano tutte essere state uccise da una malattia dai sintomi simili alla meningite e, nonostante siano già oltre quindici le donne rapite e uccise, né Daniel né la sua nuova collega, l’anatomopatologa Lori Ames, sono riusciti a capire come siano state infettate dal misterioso e letale morbo. In questi mesi Clark ha sacrificato tutto alla ricerca di Eva, incluso il suo matrimonio con la giovane avvocato Heather, ma questa notte tutto potrebbe cambiare. Lui, Lori e una squadra dell’FBI sono sulle tracce di Eva, sanno dove si trova, qual è il rifugio che ha scelto, in una grotta tra i monti della California, e sono certi di poterlo finalmente arrestare: Clark e Ames hanno trovato la sua ultima vittima ancora viva, l’hanno caricata sul sedile posteriore dell’auto e sono pronti a partire quando dall’oscurità, del tutto inatteso, ecco apparire Eva che esplode diversi colpi di pistola contro Daniel. Tutto si fa buio. Dunque, è così che si muore. Silenzio. Il tempo non esiste. Nessuna luce abbagliante. Tic. Tac. Tic. Tac. Buio. Tic. Tac. Il tempo esiste. Venti minuti. Luce. Un miracolo. Rianimare qualcuno dopo venti minuti è al limite delle possibilità umane, è sul labile confine tra scienza e mistero, eppure Lori non si è arresa, Daniel ha lottato. Ed è tornato. Non ricorda, però, il viso di Eva, che nonostante tutto è riuscito nuovamente a beffare gli inseguitori, e non c’è stato modo di salvare la sua ultima vittima. Le indagini tornano, ancora una volta, a un punto morto. O forse no. Da qualche parte, nella sua mente, c’è il ricordo di Eva. Lui l’ha visto, un attimo prima che esplodesse i colpi. Tutto ciò che occorre è farlo riemergere. Ad ogni costo. E mentre le ricerche dell’FBI si intrecciano ai tentativi più folli messi in campo da Daniel e Lori ed Eva continua instancabile il suo lavoro, il lettore ha modo di leggere del rapimento dei piccoli Alex e Jessica Price, del loro isolamento e delle violenze inflitte dai fanatici religiosi Alice e Cyril, sedicenti membri dell’autoproclamata Sacra Congrega di Eva: gli articoli di giornale, che raccontano la storia di un serial killer divisa in nove puntate, si inframezzano alla narrazione delle indagini e delle esperienze vissute da Daniel, Lori e Heather, originando un corpus unico.

La lotta tra bene e male è antica quanto il mondo e non è facile scriverne in modo originale e coinvolgente, ma Dekker ci riesce, creando un thriller in cui ateismo e fede si incontrano, una storia a tratti davvero inquietante in cui le profondità della mente umana scivolano nell’ignoto dell’essenza trascendentale e culminano in un finale da togliere il fiato. Purtroppo, però, la trama presenta delle falle impossibili da ignorare, delle imperdonabili illogicità, prima fra tutte quella che ha per protagonista Heather.

Attenzione – possibile spoiler!

Nonostante l’amore che li lega, il suo matrimonio con Daniel è fallito perché lui era ossessionato dal lavoro, dalla caccia a Eva, tanto da non trovare più tempo per loro due, per la loro vita di coppia, e lei cosa fa? Organizza nel seminterrato una stanza segreta in cui, in modo maniacale, segue i crimini di Eva, cerca di prevederne le mosse, lavora parallelamente all’FBI. Ma allora, visto che tanto siete ossessionati tutti e due, non vi conveniva restare sposati e fare squadra? L’FBI è il meglio-del-meglio (o almeno così viene venduto dalla stampa e dalla cinematografia), eppure una squadra super specializzata, incluso un profiler di prima grandezza che ha tenuto conferenze e pubblicato libri in tutti gli Stati Uniti, non solo riescono a lasciarsi scappare da sotto il naso un serial killer braccato in una grotta, ma fanno anche in modo che si riprenda l’unica vittima sopravvissuta e spari diversi colpi al profiler stesso, il quale, nonostante il rigoroso addestramento, non riesce neppure a estrarre la pistola? Una curiosità che mi tormenta, poi, in quanto italiana, è: ma davvero è così facile, negli Stati Uniti, cambiare nome? Cioè, poniamo che io sia Kate Adams, nata in Minnesota, domani prendo un aereo, volo in California, decido di farmi chiamare Patricia Sloane e nessuno fa domande? Mi rilasciano documenti, patente, mi aprono un conto corrente, mi assumono come Patricia Sloane senza che nessuno si prenda la briga di verificare chi caspita sia, quando e dove sia nata, chi fossero i miei genitori eccetera eccetera?

Fine possibile spoiler.

Scrittura fluida, ritmo incalzante, storia coinvolgente, “Adamo” parte dal passato per introdurre la storia dei fratelli Price e prosegue miscelando le vicende di Alex con quelle di Eva, portando il lettore a capirne le motivazioni e persino a empatizzare con lui. Allo stesso modo, la malattia mentale si mescola e amalgama con il male spirituale, il Male che cerca di farsi largo nell’esistenza degli esseri umani e nel mondo. Eva e Adamo ci portano a una nuova lettura del peccato originale, alla perdita dell’innocenza, a una riscoperta sotto un’altra luce del bene e del male.

Titolo: Adamo (Adam) Autore: Ted Dekker Traduttrice: Annamaria Raffo Editore: Mondadori Anno di pubblicazione: 2010

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Viviana B.

Ciò che era abituale sul vecchio “Nonsolobotte” ha il gusto di novità, qui, ma è anche accompagnato da un certo nervosismo perché, lo confesso, mi sento ancora un’esordiente nel Fediverso. Però qualcosa è rimasto uguale a prima, come il fatto che io non scriva recensioni. Recensire libri è un lavoro serio: si parte da un’attenta analisi del testo, si valuta lo stile narrativo, si argomenta lo sviluppo di intreccio o trama, si esaminano i personaggi e le ambientazioni, si soppesano persino le parole utilizzate, arrivando fino a disquisire se un termine sia più o meno funzionale di un suo sinonimo… un lavorone! Io, qui come sul precedente “Nonsolobotte”, sono e resto una semplice lettrice, non una addetta ai lavori; le mie non sono recensioni ma semplici impressioni e riflessioni scaturite dai libri che mi hanno tenuto compagnia, spesso nelle mie peripezie da pendolare Trenord (a proposito, su Mastodon trovate #libripendolari , oltre alle mie imprecazioni per ritardi e disservizi). Ma adesso bando alle proverbiali ciance e veniamo a lei, alla signora Raisin e alla sua (?) quiche letale.

Agatha ha poco più di cinquant’anni quando decide di averne avuto abbastanza del lavoro e della City, vende la sua agenzia di pubbliche relazioni – che aveva creato dal nulla e fatto prosperare – e acquista il cottage dei suoi sogni nel paesino dei suoi sogni tra i compaesani dei suoi sogni. Solo che non c’è niente di peggio dei sogni che si concretizzano. Il cottage, arredato da un esperto di design d’interno assoldato appositamente, sembra più un set cinematografico che un’abitazione; il paesino pare essere di una noia mortale per una donna in carriera dal piglio deciso e sempre super attiva, abituata a strigliare i dipendenti e a manovrare giornalisti; i compaesani appaiono superficiali quando non apertamente ostili, come quell’antipatica della vicina di casa del cottage Nuova Dehli o quei boriosi snob dei coniugi Cummings-Browne. Agatha, ben decisa a raggiungere un ruolo di spicco nella piccola comunità di Carsely, scopre che a breve si terrà una gara di quiche e pensa bene di partecipare e, ovviamente, vincere: quale modo migliore per inserirsi nel tessuto del villaggio, reclamando la parte di protagonista che da sempre le appartiene da quando ha iniziato a sgomitare nel mondo delle pubbliche relazioni londinesi? Certo, c’è il piccolo dettaglio, forse non proprio irrilevante, che lei non sa cucinare ed è la regina del cibo precotto, la sovrana del microonde, l’imperatrice dell’apri-e-gusta. Come caspita si fa a vincere una gara di quiche, se non si sa cuocere nemmeno un uovo? Facile: si va alla Quicherie di Londra, proprio quel simpatico locale che tante volte le ha salvato le pause pranzo, si compra una quiche agli spinaci, la si porta a casa, si fa sparire la confezione, sostituendola con un incarto volutamente raffazzonato, e la si porta alla gara spacciandola per una propria creazione.

Agatha Raisin e la torta salata spero NON letale Agatha Raisin e la torta salata spero NON letale

Non voglio anticiparvi troppo, per non guastarvi il piacere di scoprire pagina dopo pagina cosa succederà; vi basti sapere, per ora, che Agatha non vince la gara, che il giudice – proprio quel viscido snob di Cummings-Browne – viene trovato morto stecchito nella propria casa il giorno dopo aver cenato con la quiche portata da Agatha e che lei pensa bene di improvvisarsi detective, non tanto per discolparsi dall’accusa – che peraltro quasi nessuno le rivolge – di avvelenamento, quanto per diventare persona di spicco nel villaggio, ruolo che le è sfuggito nella gara di cucina palesemente truccata.

La lettura corre via veloce, personalmente non mi sono innamorata dei personaggi – Agatha l’ho trovata anche un po’ antipatica, a dirla tutta, ma forse era a questo che puntava l’autrice – ma la trama è intrigante e la scrittura davvero piacevole, con punte di ironia British che non guastano certo.

Il libro, la cui lettura era stata suggerita su Mastodon.uno da troppacaffeina, era uno di quelli che giacevano dimenticati in un angolo, uno dei tanti (troppi?) acquistati d’impulso e poi accantonati in attesa di avere tempo… Be’, questa esperienza mi ha ricordato – come già affermava un bel po’ di secoli fa Seneca nel De brevitate vitae – che il tempo non è poco, dipende dall’uso che se ne fa. Io, ad esempio, ho approfittato dei miei viaggi in treno e dell’ interminabile pomeriggio ai seggi elettorali con miserrima affluenza di votanti per leggere.

Viviana B.