“I sette mariti di Evelyn Hugo” di Taylor Jenkins Reid
Sette mariti sono un bel numero, non c’è che dire. Persino per Hollywood, patria delle finzioni, regno dei tradimenti, terra di raggiri dove tutto è lecito pur di far splendere la propria stella. Sette mariti, lo stesso numero di quelli avuti dalla leggendaria Elizabet Taylor, ultima grande diva, divenuta celebre sia per il talento sia per la vita sentimentale quantomeno… turbolenta. Con lei Evelyn Hugo ha in comune anche la straordinaria bellezza, la precocità dello sviluppo fisico e delle prime nozze, la longevità sotto le luci della ribalta a partire dagli anni Cinquanta, la professione di svariati consorti: attore – il bello e dannato Don Adler e il bello e basta Rex North per Evelyn, il maturo Michael Wilding e l’affascinante Richard Burton per Elizabet –, cantante – Mick Riva per Evelyn, Eddie Fisher per Liz –, produttore – Harry Cameron per Evelyn, Mike Todd per Elizabet. A parte alcune significative similitudini, comunque, questa non è una biografia della Taylor camuffata da romanzo, ma forse più una summa dei vizi e dei segreti di Hollywood. È la stessa protagonista a svelare, in una riflessione personale quando il racconto volge verso l’inevitabile fine, ciò che serve per sopravvivere e fare successo nella mecca del cinema: … Gli avrei risposto che era perlopiù questione di fortuna. E che bisogna essere disposti a negare ciò che si è, mercificare il proprio corpo, mentire alle persone, anche le più buone, sacrificare chi si ama in nome di ciò che la gente potrebbe pensare di te, e scegliere continuamente di presentare una versione finta di se stessi, fino a dimenticare chi eri prima che tutto quanto avesse inizio, e perché hai voluto iniziare.
Ho parlato di protagonista perché Evelyn senza dubbio lo è. Anche se il libro si apre con le parole di Monique, che poi incontrerà la diva e la cui vicenda personale si intreccerà nel racconto in modo non sempre imprevedibile, lei è perlopiù la voce narrante, la spalla – certo preziosa – che affianca la star. Evelyn. Evelyn che splende appena adolescente tra i vicoli di Hell’s Kitchen, Evelyn che sa cosa la rende speciale e non esita a servirsene, Evelyn che ormai ottantenne rimane comunque splendida e iconica, Evelyn, Evelyn, Evelyn. Persino i mariti, i famosi sette mariti, sono spesso solo comparse; appaiono sulla scena per dare modo a lei di diventare ciò che vuole: attrice, donna consapevole dei propri desideri, la stella più pagata del mondo, madre… C’è Evelyn, c’è uno scopo, e da qualche parte c’è un futuro marito adatto a raggiungerlo. Messa così, potrebbe sembrare che si tratti di una donna spietata, una specie di mostro, ma non dobbiamo dimenticare dove si svolge la vicenda: signore e signori, questa è Hollywood! Tutti (o quasi) i mariti di Evelyn appartengono a questo mondo, tutti (o quasi) sono ben consapevoli di quale gioco si stia giocando e ne sono partecipi, non vittime. Apparire sui giornali per rilanciare la carriera dopo un flop al botteghino, esibire una moglie per tacitare compromettenti voci di omosessualità, portare nella realtà la coppia-da-sogno che milioni di fan hanno adorato sullo schermo e che potrebbe vincere un Oscar, ottenere una famiglia in modo tradizionale, senza che si sollevino dubbi circa le proprie preferenze sessuali… Pensateci bene: questa non è la storia di Evelyn Hugo, questa è la storia di Hollywood e di molti dei suoi più celebri, reali abitanti.
Poi c’è Monique, l’Oreo, come la definivano, ferendola, i compagni di scuola, la figlia di padre afroamericano e madre caucasica, piena delle insicurezze costruite nell’infanzia e solidificate durante la crescita. Monique con le sue scelte di comodo, pronta a sguazzare nella rassicurante mediocrità fino a quando una diva non irrompe nella sua vita sconvolgendo tutto e facendole, però, aprire gli occhi su ciò che davvero è e cosa può ottenere. Sullo sfondo, quasi appena percepibili dietro il fulgore della star, quarant’anni di società a stelle e strisce con le sue contraddizioni, i suoi problemi, le sue lotte: i profughi cubani e il sogno americano, i matrimoni misti e il razzismo, i giornali che danno popolarità e spargono veleno, la ricerca del potere e l’annullamento di sé, l’AIDS e le rivendicazioni LGBT+.
Fabula e intreccio coincidono, i fatti vengono esposti in ordine cronologico con qualche concessione a rari flash-back sia nel racconto di Monique sia in quello, consequenziale ma predominante, di Evelyn; alcuni elementi, riproposti a più riprese, catturano l’attenzione del lettore e lasciano presagire quale sarà la conclusione, che quindi non giunge certo come un fulmine a ciel sereno, e, parallelamente, la stessa funzione preparatoria svolge anche l’unica importante assenza, un’identità taciuta che verrà rivelata solo poche pagine prima della fine ma che i più attenti avranno nel frattempo di sicuro individuato. Lo stile narrativo è agile e colloquiale, la lettura scorre veloce e senza intoppi; alcuni inserti che riproducono ritagli di giornale delle varie epoche contribuiscono a rendere più immersiva e credibile la storia; la voce narrante figlia di matrimonio misto, la diva nata da profughi che incarna il sogno americano e l’onnipresente filosofia gayfriendly trasformano un buon prodotto editoriale in successo clamoroso, tanto che Liz Tigelaar sta già lavorando all’adattamento del romanzo per Netflix. Luci. Standing ovation. The end.
Titolo: I sette mariti di Evelyn Hugo (The seven husbands of Evelyn Hugo) Autrice: Taylor Jenkins Reid Traduttrice: Giovanna Scocchera Editore: Mondadori (Atria Books) Anno di pubblicazione: 2021 (2017)
Viviana B.