La Notte della Fame Eterna

Sono Bigoulìn, e il mio mestiere è ricordare. Ogni anno, quando l’aria si fa tagliente come il bordo di un cristallo di ghiaccio, so che l’inverno si avvicina. Ma soprattutto so che si avvicina la notte di Samain: il momento più pericoloso e affascinante dell’anno, quando il confine tra il mio mondo – quello della fantasia e dei racconti – e il vostro, che chiamate “reale”, diventa sottile come carta velina. Il mio terrore più grande è l’oblio, perché io esisto solo se qualcuno mi immagina o narra le mie avventure. E in queste valli, le Valli di Lanzo, ho sentito un freddo che non veniva dal clima, ma da un silenzio innaturale. Un vuoto che minaccia l’immaginazione.
Il viaggio
Ero in Val d’Ala. I miei robusti scarponi mi portavano lungo i sentieri, mentre stringevo il bastone da viaggio. La sera del primo novembre era calata, e le nuvole basse avvolgevano le creste come sudari. Era il giorno in cui, secondo la tradizione, le anime dei defunti tornano alle loro case per trovare calore e ristoro. Ma quell’anno qualcosa non andava. Normalmente, l’odore acre del fumo si mescolava al profumo dolce delle caldarroste (testagne brusataje), preparate e lasciate sul tavolo per i trapassati. Invece, sentivo solo l’odore dell’abbandono. Troppe case moderne tenevano gli usci serrati, senza lasciare socchiusa la porta per far entrare gli antenati, come si usava a Traves. L’oblio, il mio nemico, non è solo dimenticare una persona: è dimenticare il rito, il mistero. Se i vivi smettono di onorare il passaggio dei morti, il mondo del sidh (l’Aldilà), che per i Celti è un luogo di pace, rischia di rimanere intrappolato in una malinconia senza fine. Il mio zaino con la lanterna era pesante, ma il cuore lo era di più. Dovevo trovare il punto in cui la paura dell’ignoto aveva interrotto il rituale, prima che la processione delle anime si trasformasse in qualcosa di molto peggio. Nelle Valli si parla di li coòrs dij mort, un corteo di fantasmi che cammina lungo i crinali. Mi incamminai verso la strada vecchia, la strà ‘d pera, sotto Mondrone, dove un tempo gli abitanti vedevano snodarsi la processione delle anime con i lumi accesi. Dovevo agire da Custode della Meraviglia.
L’incontro
Il paesaggio era silenzioso. Troppo silenzioso. Neppure il cloch del mio acciarino, con cui accendevo la lanterna, sembrava abbastanza forte da rompere quel velo di terrore. All’improvviso, un rumore. Non un passo, non un lamento: un pesante raschiare sul granito. Mi nascosi dietro una roccia, lo sguardo fisso nell’oscurità. Ero solo un ragazzo, armato soltanto di curiosità e coraggio. Poi una voce roca e fredda: «Ooooh, che fret!». Rabbrividii. Era l’eco della leggenda dell’Alpe Grosso: il pastore che, invitando lo sconosciuto a scaldarsi, aveva visto cadere dal tetto prima una gamba, poi un pezzo di corpo, fino a che la Morte in persona si era ricomposta. La voce si ripeté, più vicina. Stava cercando un corpo caldo, un vivente. Non risposi. Sapevo che, se mi fossi mosso o avessi parlato, la Morte mi avrebbe riconosciuto. E il suo sguardo mi avrebbe condannato all’oblio eterno. Invece di fuggire, feci l’unica cosa che un Custode della Fantasia può fare: cercai l’enigma. Doveva esserci un tesoro, un segreto da rivelare, non solo orrore.
Il rito interrotto
La Morte, o l’essere che la imitava, avanzava lungo la strada di pietra. Sentii un mugolio: la processione dei defunti si era bloccata proprio lì. Non erano anime a spaventare, ma qualcosa che le aveva fermate. Dalla nebbia giunse un odore. Non di cripta o di muffa, ma di cibo: minestra, bruciato, acido. Avanzai silenziosamente, ricordando gli antichi rituali. I morti avevano bisogno di rifocillarsi. A Pugnetto lasciavano pane, polenta e una minestra di castagne già sbucciate, per non far perdere tempo ai trapassati. Cercai nella nebbia e trovai una pentola di rame rovesciata sulla strà ‘d pera. La minestra di cavoli, preparata per le anime, era andata perduta. Ma il vero orrore non era la Morte: era ciò che ripeteva, non più il lamento del freddo, ma la caccia del pastore: «Fium, fium, sinto l’audeu ‘d cristianum!». Sento l’odore di cristiano! Stava cercando di rubare l’anima di un vivente, come accadde al ragazzo di Mondrone. Io ero lì, un ragazzo di forse dodici anni, e sentivo la sua fame: una fame che non era di cibo, ma di vita.
La soluzione
Il mio compito non era combattere, ma risolvere l’enigma. Se avessi ripristinato il rituale, l’entità si sarebbe placata. Aprii lo zaino. Tirai fuori una manciata di castagne bollite – le avevo prese a Viù, sapendo che erano il cibo dei morti – e le sparsi sulla strada di pietra. Poi accesi la mia lanterna e la posai accanto al pasto simbolico. Il fuoco, anche quello piccolo della lanterna, è sacro: è calore per i morti che tornano a riscaldarsi. Quando la luce illuminò le castagne, l’aria vibrò. La voce gutturale si interruppe. Udii il suono di innumerevoli passi leggeri, come foglie secche su un sentiero. La processione, che si era fermata per la fame e la paura, ricominciò a muoversi. La Morte, che cercava il profumo della vita, si distrasse. Guardò il cibo lasciato in offerta, quel piccolo gesto di memoria. E in quel momento capii: la Morte era lì solo perché il rito era stato interrotto. La paura umana verso il mistero aveva spezzato l’antico patto.
Epilogo
Appena la processione riprese il suo mesto cammino verso la montagna, il frastuono cessò. Il silenzio tornò, ma questa volta era un silenzio di pace. La mia missione era compiuta: avevo ricordato a quei luoghi l’importanza della fantasia e della memoria. E finché le mie avventure saranno raccontate – la mia fuga dalla Morte e la risoluzione dell’enigma notturno con solo castagne e una lanterna – io non smetterò mai di esistere. Cercate sempre il mistero con coraggio e curiosità, anche quando l’aria si fa gelida. Io sarò lì.