L' Alchimista Digitale

Della cultura digitale e di altro

Il Fediverso: un’altra idea di social Negli ultimi anni il termine Fediverso ha iniziato a circolare con sempre maggiore insistenza. Ma cos’è, esattamente? Dietro questo nome insolito si nasconde una rivoluzione silenziosa, un nuovo modo di intendere la comunicazione digitale, lontano dalle logiche centralizzate dei colossi del web. Il Fediverso è un insieme di piattaforme social e di comunicazione interconnesse tra loro. La sua forza risiede nella federazione: non un unico grande contenitore, ma una rete di server indipendenti, chiamati istanze, che dialogano attraverso protocolli comuni come ActivityPub. Questo significa che un utente registrato su una piattaforma può interagire con chiunque, anche se utilizza un servizio diverso. Un po’ come avviene con le e-mail: tu hai Gmail, io ho Yahoo, ma possiamo scriverci senza problemi. A differenza dei social tradizionali, dove il modello di business è basato sulla pubblicità e sulla raccolta dei dati, il Fediverso punta su libertà, diversità e controllo personale. Qui non sei il prodotto da monetizzare, ma una voce che può scegliere il contesto più adatto per esprimersi. Prendiamo Mastodon, la piattaforma più nota del Fediverso: un social che assomiglia a Twitter (oggi X), ma senza algoritmi invadenti. I post vengono mostrati in ordine cronologico, le community sono moderate dalle stesse persone che le creano e ogni istanza può avere regole specifiche. Risultato? Un ecosistema molto vario, dove la qualità delle conversazioni non dipende da un algoritmo che spinge ciò che “vende”, ma dal rapporto diretto tra chi scrive e chi legge. Accanto a Mastodon ci sono altri progetti: Pixelfed, simile a Instagram ma senza pubblicità; PeerTube, alternativa a YouTube; Friendica, per chi vuole un social a metà tra Facebook e i forum; e tanti altri. Tutti collegati, tutti comunicanti. Un contenuto pubblicato su una piattaforma può essere visto anche dagli utenti di un’altra, senza barriere. Questa struttura federata porta con sé una caratteristica preziosa: la resilienza. Se una singola istanza chiude, il resto della rete continua a vivere. Se una comunità non ti piace, puoi cambiare server senza perdere i contatti. È un modello che riflette i valori originari di Internet: decentralizzazione, libertà, collaborazione. Naturalmente, il Fediverso non è perfetto. Mancano i numeri giganteschi delle piattaforme commerciali, e per i nuovi arrivati può sembrare un po’ complicato capire dove registrarsi o quale istanza scegliere. Ma è proprio questa apparente complessità che lo rende ricco: offre spazi personalizzati, comunità tematiche, regole fatte dalle persone e non da algoritmi. Molti vedono nel Fediverso una sorta di “ritorno alle origini” del web, quando la rete era un luogo di scambio e non solo un grande supermercato di contenuti. Un ritorno che non è nostalgia, ma scelta consapevole: rifiutare il modello unico imposto dai giganti e provare a immaginare un futuro diverso. E in effetti, il Fediverso sta crescendo. Ogni volta che un social centralizzato compie una scelta discutibile – dal caos delle policy di X alla gestione invadente dei dati da parte di Meta – nuove persone varcano la soglia di questo ecosistema. E spesso scoprono che sì, un altro modo di stare online è possibile. In conclusione, il Fediverso non promette miracoli né follower a pioggia. Promette invece autenticità. Promette comunità costruite su misura delle persone, non delle pubblicità. Promette la libertà di scegliere dove stare, con chi stare e come comunicare. In un mondo digitale che sembra sempre più stretto, il Fediverso apre finestre. Forse è questo il suo più grande merito: ricordarci che Internet non deve per forza essere governato da pochi, ma può tornare ad essere di tutti.

Massimiliano Pesenti ©

Benvenuti al teatro senza biglietto C’è chi entra a teatro con il biglietto in mano, in fila davanti al botteghino, pronto a farsi avvolgere dal buio della sala e dal fascio di luce sul palco. E poi ci siamo noi, che a teatro ci entriamo senza volerlo. Ogni giorno. Senza sipario, senza posto numerato, senza applausi finali. Il teatro della vita non ha registi dichiarati, solo improvvisatori maldestri. L’assurdo, in questo spettacolo, non è un ospite inatteso: è il protagonista fisso. Lo troviamo al supermercato, davanti allo scaffale della pasta, quando due signore litigano se sia meglio la penna rigata o la liscia, con lo stesso fervore con cui i filosofi greci discutevano di metafisica. Oppure sull’autobus, quando un signore racconta a voce alta le proprie vicende mediche a passeggeri sconosciuti, trasformando il viaggio in una tragedia clinica. E noi, spettatori e attori al tempo stesso, restiamo intrappolati in questa rappresentazione permanente. Il filosofo Erving Goffman, con il suo “La vita quotidiana come rappresentazione”, ci aveva già avvertiti: “ogni gesto, ogni parola, è parte di un copione sociale. Il problema è che spesso quel copione fa acqua da tutte le parti.” Pensiamoci: quante volte ci siamo trovati a sorridere in riunioni noiose, recitando un entusiasmo inesistente, come comparse in una commedia scadente? Quante volte abbiamo applaudito frasi banali solo perché pronunciate dal capo di turno, come se fossero battute di Shakespeare? La vita è un palcoscenico dove si applaude più per convenzione che per convinzione. Eppure, nonostante l’assurdità, in questo spettacolo ci troviamo a nostro agio. Perché nell’improvvisazione, a volte, c’è verità. L’uomo che inciampa sul marciapiede e si rialza con finta disinvoltura, la signora che parla con il cane come fosse un Nobel per la letteratura, il ragazzo che scrive poesie sui tovaglioli del bar… tutto questo ci ricorda che non c’è differenza netta tra palco e platea. Pirandello ci aveva visto lungo: “Così è, se vi pare”. Ogni individuo indossa una maschera diversa, a seconda della scena che deve affrontare. Il problema non è la maschera, ma dimenticare che dietro ce n’è sempre un’altra. E che, forse, sotto tutte le maschere non resta un volto, ma un altro sipario. Il bello dell’assurdo è che non ha bisogno di effetti speciali. Un vicino di casa che canta alle tre di notte convinto di essere Pavarotti, un impiegato che discute animatamente con la macchinetta del caffè, un politico che promette serietà con la stessa convinzione con cui un illusionista giura di non avere trucchi nelle maniche. E noi ridiamo, scuotiamo la testa, ma in fondo sappiamo che facciamo parte dello stesso gioco. Il teatro della vita è gratuito, ma non per questo meno impegnativo. Richiede presenza, adattamento, un minimo di spirito critico e, soprattutto, la capacità di non prendersi troppo sul serio. Perché se non riusciamo a ridere dell’assurdo, rischiamo di esserne schiacciati. Allora, forse, la vera filosofia non è quella che cerca verità assolute nei libri polverosi, ma quella che si esercita nel quotidiano: nell’arte di osservare, di sorridere, di capire che anche un litigio sul parcheggio può avere la dignità di una tragedia greca. È un modo di “divulgare” filosofia senza renderla spicciola: riportarla alla vita, dove è nata, tra mercati, piazze e osterie. E se proprio dobbiamo accettare di essere parte di questa commedia infinita, tanto vale imparare a godercela. Non c’è prova generale, non c’è serata d’esordio. Si va in scena tutti i giorni, spesso impreparati, e il pubblico — che poi siamo noi stessi — non sempre è clemente. Ma forse è proprio questo il segreto: accettare l’imperfezione come parte del copione. Ridere quando sbagliamo battuta, improvvisare quando dimentichiamo le parole, sorridere quando la scena sembra tragica. Perché, alla fine, in questo teatro senza biglietto, l’assurdo non è il nemico da combattere, ma l’alleato che ci ricorda che siamo vivi. Che non siamo macchine, ma esseri capaci di cadere e rialzarci, di ridere e piangere, di cambiare ruolo da un atto all’altro. Allora, benvenuti a teatro. Lo spettacolo è già iniziato, e non ci sarà replica. Tanto vale, almeno, divertirsi un po’.