Anna e Marco (1)

Colonna sonora primo episodio: Dire Straits, Where do you think you’re going?

Vivo sola, con due gatte e molte foto. Per inciso, ho avuto le mie occasioni, ma sono andate, tutte, e io sono stata abbastanza saggia da rassegnarmi, credo. Resta il fatto che sono qui, a quasi sessant’anni, una stimata professionista di mezza età (anzi, alle soglie della vecchiaia, diciamo le cose come stanno), che negli anni ha prudentemente ridimensionato le antiche smanie di trasgressione, limitandole di fatto all’abitudine di indossare jeans logori, magliette informi, bracciali etnici, e di spruzzarsi abbondante patchouli ai polsi e dietro le orecchie: un po’ come quei vecchi soldati in congedo che non rinunciano ad indossare la divisa d’ordinanza, fosse solo per andare a comprare il giornale all’edicola d’angolo. Naturalmente ascolto molta musica rock e ancora frequento i parterre dei concerti. Continuerò a farlo, fin quando le ginocchia mi reggeranno. Tutto qui, e mi viene facilmente perdonato, perché mi pensano seria e affidabile, nonostante qualche tratto eccentrico. Ho molti amici e il sabato sera qualcosa da fare lo trovo sempre. Sono una donna simpatica e di compagnia.

Ma io no, non mi sto simpatica affatto.

Durante la settimana, torno dal lavoro, nutro le gatte, mi preparo una rapida cena di pura sopravvivenza. Poi mi aspettano l’inerzia serale, le ore intorpidite sul divano davanti a Netflix, lo smartphone a portata di mano per seguire i deliri social o, se mi gira, per recuperare qualche video youtube di vecchie canzoni folk rock, così mi posso abbrutire meglio nel limo della nostalgia.

Una cosa patetica, mi rendo conto. Sono praticamente una guardona. Spio le vite, vere o false che siano, degli altri, mentre me ne sto qui, da anni, ad aspettare di partire, per vivere la mia, di vita, quella che volevo, o almeno provarci. Ma non sono mai partita e, francamente, dubito di farlo ora, anche perché quella fantomatica esistenza, libera da obblighi e vincoli, che mi immaginavo ai tempi della mia inquieta giovinezza anni Settanta, è abortita per me prima di iniziare. Direi proprio che, giunti ormai quasi allo scadere del primo quarto del XXI secolo, non è più tempo di vagabondi del Dharma, zaino in spalla e sguardo sognante, on the road again, alla ricerca della risposta definitiva al mistero dell’universo (comunque la risposta, ormai, la sappiamo tutti: 42). E poi, a parte qualche canna, fumata pure con molti patemi, non mi sono mai drogata.

Ogni mattina, allo specchio, spio il mio corpo, ne conto le pieghe, osservo l’impercettibile, inesorabile disfarsi della mia faccia, le guance cadenti, gli occhi più piccoli e gonfi, i capelli radi e sottili sulla fronte, la piega triste delle labbra che stiro in un sorriso sforzato. Fingo di non essere poi così cambiata, mi ripeto che basterà mangiare meglio, dormire di più, smettere di fumare per rimettersi in piedi e scacciare quel riflesso estraneo che dall’altra parte mi fissa malinconicamente.

Rileggo quel che ho scritto e mi sto sui coglioni da sola. Grondo autocommiserazione da ogni singolo poro della mia pelle avvizzita. Capisco che qualcosa di tutto questo disagio si deve pure essere intuito. O, per essere onesta, con le mie smanie di libertà e anarchia fuori tempo massimo, devo sembrare, a conti fatti, abbastanza prevedibile. Che malinconia, scoprirsi banali, quando ancora si sogna di essere eroici, che tristezza.

Ne ho avuto la prova.

(continua) (https://youtu.be/d59wsd9JsuA)