Margini

Da una periferia qualunque

(Colonna sonora del settimo episodio: Franco Battiato, La stagione dell'amore)

E adesso, dopo un’ora e quaranta di telefonata durante la quale ho ascoltato, rassicurato, consigliato (e l’ho pure un po’ insultato: «Ma tu guarda che stronzo, ma non lo avrei mai detto, ma che poveraccio…»), mi ritrovo da sola con le gatte che mi fissano beffarde, la televisione accesa su qualche improbabile serie Netflix, l’audio per il momento disattivato, e un pacchetto di sigarette a metà.

Penso alla mia città, a questo borgo di provincia cresciuto male, dove, più o meno rassegnata, mi sono adattata a vivere negli ultimi trent’anni. Ho una specie di allucinazione. Mi pare che mi trascini con sé, spingendomi a forza sul piano inclinato della sua inesorabile caduta: un paese di vecchi, e io, vecchia fra gli altri, che tuttavia mi ribello, scalcio, cerco di risalire la china in qualche modo, di agguantare, mentre una corrente melmosa mi spinge nella palude, un qualche appiglio, un ramo spezzato, una corda sfilacciata che mi metta in salvo.

E mi sembra pure di riuscirci, talvolta, ma, porca miseria, ci pensano gli altri a riportarmi alla realtà. Di tutti, mi ricordo com’erano stati: nella mia testa restano così, i ragazzi e le ragazze che decenni fa avevo incrociato, pallidi, inquieti e vagamente maledetti, davanti al portone sbrecciato della scuola, agli angoli delle nostre strade ventose, nei parcheggi lividi di discoteche ormai chiuse da decenni. Li vedo ancora, a ubriacarsi e fumare e toccarsi e scopare e straparlare come straparlano i giovani, mentre dalle auto nascoste fra i cespugli le nostre musiche oggi fuori moda si spandevano in sordina nelle afose notti estive di un’adolescenza dimenticata. Ma no, figurarsi. Qualcuno è morto. Gli altri posso incontrarli, ingrigiti, imbolsiti, inebetiti nell’insopportabile apatia della loro maturità soddisfatta.

Lo so che non vale la pena sprecare troppe parole sulla storia di Marco, di Amelia, di Anna. O magari, no. MI accendo una sigaretta, l’ennesima. Penso che domani andrò al mare, mi accoccolerò sulla battigia, a un passo dal pigro rifluire della risacca, e ancora mi metterò a pensare: dopotutto, pensare molto è una garanzia. Mi vedo mentre lancio un sassolino dopo l’altro nelle acque appena increspate.

E di botto scoppio in una grande risata. Non è una risata cattiva, non è nemmeno una risata amara. Non rido ad alta voce, casomai disturbassi i vicini. È piuttosto una risata che rotola rumorosamente nella mia testa, spazza via ogni pentimento, rimpianto, risentimento. Risentimento per cosa, poi? Alla fine, serve a poco compiangersi, o compiangere gli altri. Vogliamo scrivere la nostra vita come fosse un romanzo, e ci escono fuori narrazioni sbilenche, sceneggiature zoppicanti. Siamo tutti pessimi autori, e personaggi ancora peggiori. Del resto, ognuno abita le illusioni che vuole. Chi si immagina fascinoso e irresistibile dongiovanni, chi si traveste da cattiva ragazza tormentata. E chi, semplicemente, sta alla finestra.

Sospiro, schiaccio la sigaretta nel portacenere troppo pieno, alzo il volume della tv.

Franco Battiato – La Stagione dell'Amore (Live @ Pirelli Hangar Bicocca, 2016)

Anna e Marco (5)

(colonna sonora del quinto episodio: La Rappresentante di Lista, Religiosamente)

Un giorno, due, tre… Che si deve fare in questi casi? Lo interpreto come un ultimatum. «Lo sai cosa voglio, sono settimane che te lo ripeto, o ci stai o no. Basta pregare» Ecco cosa vuol dire, quel silenzio. La prossima mossa deve essere la mia. O sì, o no.

E che cosa si fa in questi casi? Nelle mie notti nuovamente solitarie, senza nemmeno il diversivo di quell’insistenza un po’ scollacciata, fisso perplessa lo sguardo enigmatico delle mie gatte e so già che cosa farò io: niente, assolutamente niente. La faccenda è evaporata prima di cominciare, si è esaurita nei miei «ni», si è spenta, è andata, finita, morta. E spero bene che Marco abbia cancellato la nostra chat, Dio non voglia che certi scambi maliziosi capitino sotto gli occhi della sua compagna. Sono troppo pigra, distratta e sì, vigliacca, per ficcarmi nei gossip locali non più come pubblico curioso ma direttamente sul palco, come riottosa protagonista. Mi dico che va bene così, avverto giusto una lievissima fitta di rimpianto per la botta di vita al limite della terza età che mi sono negata, ma poi mi ripeto che, insomma, la dignità non ha prezzo e va bene così. Potevamo essere buoni amici, Marco ha preteso di più (ma perché?), io quel di più non lo potevo concedere per un mucchio di buone ragioni (sì, ma quali?) e allora ciao, ognuno nella sua bolla e va bene così. Almeno credo.

In realtà mi do persino la colpa. Forse lui era innamorato, almeno un po’, e io, con tutte le mie esitazioni da verginella attempata, l’ho allontanato…Quella stessa nostalgia per qualcosa che poteva essere e non è stato, forse, forse, la prova anche lui. Forse, forse, sono stata stronza. Avrei potuto concedere un’occasione a questa smania che sento, e magari il tempo si sarebbe fermato, per il tempo di un amplesso sudato, dove per poco il mio corpo così difettoso, così imperfetto, in definitiva così umano, avrebbe lasciato il posto ad una giovinezza ritrovata, al godimento di un attimo, all’orgasmo di una vita che, per quanto invecchiata, ancora fa sentire la sua ansia, le sue pulsioni, le ragioni invincibili della passione, della voglia di essere riconosciuta, desiderata, amata.

Che male ci sarebbe stato, in fondo? Me lo ripeto ancora, e ancora, e ancora.

E mi ripeto anche: «Cretina cretina cretina, te lo sei lasciato scappare». O magari no, sarei sempre in tempo. Ma non ce la faccio a prendere il cellulare in mano, a riallacciare il filo, a dire «Eccomi, ci sono, ci sto, dammi quello che puoi, di quello che non puoi farò a meno, tutto il resto non conta, sono stufa di sentirmi come un moccolo di candela che si spenge, va bene il rock, ve bene la droga, va bene soprattutto il sesso, scopami fino a farmi piangere, poi cancella il mio contatto, bloccami, dimenticami, comunque non ti scoccerò, ma saremo stati vivi insieme per una notte, questa fiamma avrà brillato e sarà sufficiente per scaldare gli inverni che arriveranno…».

E mentre sono in piena tempesta elegiaca, arriva la telefonata.

La Rappresentante di Lista, Religiosamente.

Anna e Marco (6)

(Colonna sonora del sesto episodio: Python Lee Jackson ft. Rod Stewart, In a Broken Dream)

Non quella che aspettavo, quella che mi avrebbe dovuto riscattare per un breve momento dalla minaccia truce del tempo che passa, non la redenzione provvisoria dalla tetra vecchiaia, la chiamata alla quale, alla fine, avrei risposto di sì: ma un lungo, lamentoso, sconclusionato sfogo di una comune amica. Si chiama Amelia, anche lei è una ragazza non più ragazza, uno sguardo ansioso di animaletto in cerca di casa. Ha un compagno, mi pare, ma si sa che in queste storielle di provincia dettagli del genere contano poco. Ha bisogno di parlare con qualcuno, posso ascoltarla? Ma certo, ci mancherebbe. Mi racconta allora, e piuttosto confusamente, un’intricata vicenda di messaggi, telefonate, e poi incontri più o meno bollenti, iniziata non capisco bene come. Di «buongiorno» con il bacio e «buonanotte» con il cuore, di conversazioni notturne sempre più frequenti e intime, di richieste insistenti, di esitazioni via via sempre meno ferme, e poi… «E poi, che ti devo dire, gliel’ho data…in poche parole è andata così».

Allibisco, ma non faccio una piega. Mi limito a chiedere conferma. «Scusa, ma di chi stiamo parlando? Di Marco?» Ecco sì, appunto. Faccio un conto veloce, la relazione fra Amelia e Marco più o meno è stata contemporanea all’appassionato corteggiamento verso la sottoscritta. E lo schema è stato lo stesso. Solo che io ci ho filosofeggiato sopra, Amelia non ha atteso. C’è stata, come si dice, e dopo due o tre amplessi furiosi, lui si è eclissato. La mia amica, insomma, ha avuto il coraggio, o l’incoscienza, di buttarsi. Atterrando, pare, in uno spinosissimo ginepraio di chiacchiere paesane e miserabili vanterie («Non mi lascia stare, mi rompe i coglioni, si è messa in testa di essere innamorata e invece è stata una scopata e via…»), costretta ad allontanarsi, a giustificarsi preventivamente con il compagno, beatamente ignaro, casomai qualcosa gli fosse giunto all’orecchio, e poi a rompere i rapporti anche sui social e poi e poi e poi… E ora mi chiede consiglio, in qualche modo si è rifatto vivo (più o meno quando ha interrotto gli scambi con me, ma su questo, ovviamente, sorvolo) con qualche insulso pretesto, capisco che è stata nuovamente tentata, però lui è ambiguo, c’è appena stato uno scambio strano, lei gli ha mandato il buongiorno come accade già da un po’, lui gli ha risposto con la faccina che ride, lei si è arrabbiata, ha letto tutto un sottotesto strano, indifferenza, fastidio etc etc in quella emoji del cazzo, che deve fare, lo chiede a me, che sono così saggia, così buona, visto che conosco tutti e due…

Mi scappa da ridere, lo confesso, ma la mia voce non ha tremiti. Le consiglio di lasciarlo perdere, ma so già che non mi darà retta. È troppo occupata dall’esegesi delle faccine, quando, Dio santo, non c’è proprio nulla da capire… ma lei capirà comunque quel che vuole capire. Con lei taccio ovviamente su quel che mi riguarda, ma, mentre fornisco la mia rassicurante, consolatoria consulenza, le rotelline del mio cervello girano veloci. Io, Amelia… e quante altre? Si butta la rete, qualche pesce abboccherà. Ecco come funziona, e santo cielo, dovrei pure saperlo, non ho mica dodici anni. Essere stata considerata un pesce pronto ad essere preso all’amo non è che mi lusinghi, ma che devo pensare? benedetta la mia irresolutezza, qualche santo mi ha tenuto lontana dal disastro. Perché sarebbe stato un disastro, come quello nel quale Amelia è ancora pateticamente invischiata, lo so bene.

Cazzo, è tardi per queste stronzate. Avrei dovuto saperlo.

Rod Stewart with David Gilmour, In a Broken Dream

(colonna sonora del quarto episodio: POE – Hey Pretty Drive-By 2001 Mix with Mark Z. Danielewski)

Poi, prevedibile, l’accelerazione. Buongiorno. Cuoricino. Buonanotte. Bacio. Video. Bacio, ancora. «E se ci vedessimo, una di queste sere? Per un incontro bollente droga sesso e rock’n roll?» «Ih ih ih, ma dai, va bene la droga e il rock, ma lo sai che sono una ragazza pudica… (faccia che ride, faccia che pensa)» «Eh, ma anch’io sono un ragazzo timido…» «No no no, sei una cattiva persona che tenta le brave ragazze… (risata, faccina timida)» «Ma che dici? Sai che sono serissimo, non approfitterei mai». «Sì sì, dicono tutti così…» «Potrei venirti a prendere, si va al fondo dove proviamo, procuro la birra…» «Ehi ehi, piano piano… vedremo…»

Mi barcameno, svio, cambio discorso, mi rimetto a parlare di musica libri film. Ma gli assalti si ripetono, e diventano sempre più espliciti. «Mi sei sempre piaciuta, anche quando eravamo ragazzini, t’avrei trombato volentieri allora, ti tromberei volentieri anche subito…» Un momento! Alla faccia della delicatezza. Alla faccia del corteggiamento. Quando si dice parlare chiaro. Eppure, per quanto la parola stessa trombare – non, romanticamente, fare l’amore, nemmeno, laicamente, fare sesso, ma una parola con tutta la sfacciata, cruda corporeità del vernacolo – associata alla mia persona, ormai casta da anni, mi faccia addirittura arrossire (e arrossisco poi del fatto di arrossire: non sono una figlia degli anni Settanta? Possibile sia ancora così repressa?), sono tentata. «Portami in questo dannato posto dove provate. Sia quel che sia, se mi zompi addosso senza preliminari, tanto meglio. Si possono pure saltare le chiacchiere sul rock ‘n roll, o rimandarle a dopo. Facciamo quel che dobbiamo fare, e amen».

Mi ferma, se Dio vuole, il senso del ridicolo. La testa mi si apre come fosse il sipario di un teatro, e vedo chiara la scena. Gli ansimi, i grugniti, le mani che toccano, frugano, palpano, prima contro un muro, là dove si può, e dopo, magari per terra o su una branda, le cosce che si spalancano, i piedi che si intrecciano, le pance che si strofinano, lo sguardo che si rovescia, si appanna, si perde, il sudore che ci inzuppa, e succhiare, e mordere, e leccare, e poi godere… godere godere godere, fra un gemito, uno strillo e un sospiro. Trombare. Fottere. Scopare. In un tripudio di carne tremolante, di seni penduli, di testicoli avvizziti, di natiche afflosciate, di pelle moscia, di gelatinosi, umidicci rotoli di ciccia.

E poi? Come guardarsi in faccia, poi? Come sopportare la nudità dell’altro, la mia nudità? Raccattare mutande, reggiseno, maglione, jeans, scarpe, rivestirsi in fretta, «Una sigaretta?», dopo, magari, e però subito vergognarsi, perché lo so che mi vergognerei di aver rivelato così tanto di me, quel corpo che rinnego e non voglio vedere, non voglio ricordare, con il suo carico di anni, di passioni dimenticate, di dolori, malanni e rifiuti?

Insomma, mi agito fra dubbi, paura, vergogna, ma ogni giorno, nonostante tutto, mi ritrovo ad aspettare con segreta impazienza il cuoricino via messenger, il buongiorno, la buonanotte e la consueta domanda: «Allora, quando ci vediamo per questa bollente serata di sesso? Ne ho bisogno, davvero, ne ho bisogno con te».

Poi, di botto, il silenzio.

Poe – Hey Pretty, live on Late Night with Conan O'Brien (2000)

Colonna sonora del terzo episodio: Lucio Dalla, Anna e Marco

Non ho ancora detto il mio nome: Anna. Così ci rendiamo meglio conto dell’ironia. Anna e Marco, come nella canzone, non fosse che abbiamo quarant’anni di troppo e non siamo più ragazzini di periferia che sognano la loro improbabile commedia americana. Non lo siamo mai stati, ma alla fine ognuno il passato se lo racconta come gli pare, e va bene così.

Piano piano la manovra si fa più avvolgente. Marco parte all’attacco. Se prima le conversazioni private su Messenger si avviavano in modo casuale, da un certo momento in poi arrivano con regolarità cronometrica il buongiorno con cuore e la buonanotte con dedica musicale.

Io, lo confesso, sono perplessa. Che fa, sta flirtando? Con me? Ma è sicuro? Come cazzo faccio? Rispondo, non rispondo? Mando il cuore? O una faccina che ride? Il codice delle emoji ha le sue regole, ma io non sono mica sicura di conoscerle. Opto, a volte, per il bacio, a volte per il sorriso, a volte per la faccina timida, ma ci penso troppo: il tempo che passa fra visualizzazione e risposta denuncia tutto il mio imbarazzo.

Parliamoci chiaro. Rispondergli picche mi dispiace, mi sono affezionata. Se i messaggi ritardano, mi preoccupo. Mi dico: sta scherzando, non ci sta davvero provando, sono solo strizzatine d’occhio fra vecchi compagni di gioco. Magari sto fraintendendo e se faccio la sostenuta non mi dimostro spiritosa come lui crede che io sia. Magari. Ma poi, da un altro punto di vista, sono pure lusingata. Sarà vero che non sono poi da buttare via? MI fisso allo specchio con uno sguardo più indulgente. Di fronte, di profilo. Eh, via, sono sempre passabile, ammettiamolo, la pancetta post menopausa non si nota poi così tanto, le tette ancora non sono crollate, non del tutto almeno. Uhm. MI sforzo di guardarmi con i suoi occhi. Dai, c’è di peggio. E poi ho personalità, no? Eccerto. Mica sono una sciacquina qualsiasi. Non può essere che ci stia provando giusto per aggiungere un’altra tacca alla pistola. Noi parliamo di musica, di libri, di film, di politica e amministriamo insieme un nutrito gruppo facebook. Dai, non sono una da una botta e via. Non sono… sì, ma cosa sono in realtà?

Questa è una bella domanda. Ho le idee confuse. Non si parla più di zitelle attempate, ora ci chiamano, più elegantemente, single. Ma sotto sotto, quello siamo, agli occhi altrui, lo sappiamo bene: e dunque invisibili. I nostri coetanei guardano a quelle giovani. I giovani, ovviamente, guardano alle coetanee. Culi sodi, polpacci torniti, cosce toniche, ventri levigati, tette ritte, bocche tumide. I nostri culi non sono più così saldi, le gambe hanno qualche capillare di troppo, qualche filo di cellulite, i seni cedono, le labbra si assottigliano. Creme, palestra, dieta fanno il possibile, ma il tempo è il tempo, e ci passa addosso, più lieve forse, se prendiamo qualche contromisura, con la violenza di un mezzo pesante se non ci ripariamo a dovere. Dalla mia ho un certo vantaggio genetico, mi dicono che non dimostro gli anni che ho. Forse è vero che sembro più giovane, ma di quanto? E poi sarà vero, o certe cose si dicono solo per educazione?

Ma tutto questo lo sto pensando ora. Nel momento in cui il nostro affaire si avvia, non sono così impietosa. C’è un fatto: un amico, presumibilmente sincero e senza cattive intenzioni, che mi… corteggia. Gesù, qualcuno mi sta corteggiando. Non sono così sicura che la parola vada ancora di moda, ma non mi viene in mente altro. E, guarda guarda, potrei pure convincermi che culi, cosce e tette non contino poi così tanto: se qualcuno mi sta corteggiando, magari è interessato alla mia sottile intelligenza, al mio spirito acuto, al mio fascino maturo, al mio moderato anticonformismo. Uh uh uh!

Poi, prevedibile, l’accelerazione. (continua) Anna e Marco

colonna sonora del secondo episodio: Deep Purple, Perfect Strangers

Insomma, la storia è questa. C’è questo tizio, Marco, grossomodo mio coetaneo, di vista ci conosciamo dai tempi della scuola, ma l’amicizia è saltata fuori molto dopo, forse perché all’epoca bazzicavamo giri diversi. Lui pure ha mantenuto una certa aria di maledettismo d’antan, il che ci rende in qualche modo affini. Anzi: suona la chitarra, e io, accidenti, non ho mai imparato, quindi lo invidio tantissimo. Ha pure una sua band, più o meno dai tempi del liceo, non voglio dire longeva come gli Stones, ma ci provano. D’estate fanno qualche data nei locali della zona, e hanno pure il loro fedele seguito di fan altrettanto stagionati. Anche lui indossa braccialetti di cuoio e perline ai polsi, in più alle dita sfoggia una notevole collezione di grossi, improbabili anelli metallici stile rocker: e non dimentichiamo l’orecchino d’ordinanza, il capello un po’ incolto, e qualche tatuaggio strategico. Secondo copione, fa il personaggio su facebook, e ha il suo nutrito seguito locale. È un affabulatore di razza, lo ammetto. Se, dopotutto, io sono una donna simpatica, lui lo è altrettanto, anzi di più. Avere una band aiuta, ovvio. Ma di mestiere fa il commercialista, figurarsi, ha famiglia, due figlioli, tre gatti (uno più di me!), un cane e una graziosa villetta a schiera a due piani più tavernetta e giardino. Come ci si poteva aspettare, ci si mette di mezzo appunto il dannato facebook, oramai il social degli anziani, e scopriamo di avere un mucchio di roba in comune: a parte la divisa da incrollabili ragazzi anni Settanta, (giovani dentro, ma boomer loro malgrado), musica, film, romanzi, persino le preferenze politiche per quel che valgono oggi, e paccottiglia varia.

Taglio corto: Marco annusa l’occasione e monta la trappola. Mica è uno rozzo. Procede a piccoli passi, lenti e misurati. Ci scambiamo pubblicamente like, cuoricini, sticker, meme. E quando siamo in vena persino qualche commento intelligente. Poi passiamo ai messaggi in privato, ma per il momento sono ispirati ad un sano cameratismo senza sottintesi, niente di compromettente: più che altro prendiamo per il culo i nostri comuni conoscenti. Facciamo un po’ i bulli, i politicamente scorretti, beninteso in segreto. Si parla male di questo o di quello, si fa un po’ di gossip, a volte attuale, a volte storico, per così dire, qualche frecciata salace, qualche aneddoto di quelli maliziosi, quelli che animano di solito la pigra routine sessualmente repressa della provincia. Mi mette al corrente, chi va a letto con chi, chi lascia, chi tiene e chi perdona, chi piange e chi ride, e io ne sono ben contenta: fra gatte e lavoro, avevo un po’ smarrito il polso della situazione, ma la mia antica vocazione al pettegolezzo riemerge in tutto il suo splendore. Ci facciamo insieme sane risate notturne alle spalle degli altri, per quanto online, fino alle ore piccole.

Si va avanti così per qualche settimana. Per me è solo un amico, intendiamoci, un caro amico recuperato da un passato remoto nel quale ci eravamo incrociati abbastanza distrattamente. Vado pure a vedere qualche concerto della sua band, mi bevo uno spritz in compagnia, incontro un po’ di gente, compresa la sua compagna che, a dirla tutta, è molto molto più appetibile della sottoscritta. Per cui non temo, non mi viene nemmeno in mente. Io non sono granché, mi vesto male, mi curo poco: sono una donna simpatica, l’ho detto, ma la seduzione non so nemmeno dove sta. Mai saputo. Non sono stupida, lo so che lui è un piacione, uno sciupafemmine, ma proprio non mi accorgo di essere nel mirino.

«Faccio un gruppo facebook dedicato alla musica, ci stai ad amministrarlo con me?» Dio santo, sì, grazie per la stima, sarò all’altezza? E avanti così. (continua)

https://www.youtube.com/watch?v=gZ_kez7WVUU

Colonna sonora primo episodio: Dire Straits, Where do you think you’re going?

Vivo sola, con due gatte e molte foto. Per inciso, ho avuto le mie occasioni, ma sono andate, tutte, e io sono stata abbastanza saggia da rassegnarmi, credo. Resta il fatto che sono qui, a quasi sessant’anni, una stimata professionista di mezza età (anzi, alle soglie della vecchiaia, diciamo le cose come stanno), che negli anni ha prudentemente ridimensionato le antiche smanie di trasgressione, limitandole di fatto all’abitudine di indossare jeans logori, magliette informi, bracciali etnici, e di spruzzarsi abbondante patchouli ai polsi e dietro le orecchie: un po’ come quei vecchi soldati in congedo che non rinunciano ad indossare la divisa d’ordinanza, fosse solo per andare a comprare il giornale all’edicola d’angolo. Naturalmente ascolto molta musica rock e ancora frequento i parterre dei concerti. Continuerò a farlo, fin quando le ginocchia mi reggeranno. Tutto qui, e mi viene facilmente perdonato, perché mi pensano seria e affidabile, nonostante qualche tratto eccentrico. Ho molti amici e il sabato sera qualcosa da fare lo trovo sempre. Sono una donna simpatica e di compagnia.

Ma io no, non mi sto simpatica affatto.

Durante la settimana, torno dal lavoro, nutro le gatte, mi preparo una rapida cena di pura sopravvivenza. Poi mi aspettano l’inerzia serale, le ore intorpidite sul divano davanti a Netflix, lo smartphone a portata di mano per seguire i deliri social o, se mi gira, per recuperare qualche video youtube di vecchie canzoni folk rock, così mi posso abbrutire meglio nel limo della nostalgia.

Una cosa patetica, mi rendo conto. Sono praticamente una guardona. Spio le vite, vere o false che siano, degli altri, mentre me ne sto qui, da anni, ad aspettare di partire, per vivere la mia, di vita, quella che volevo, o almeno provarci. Ma non sono mai partita e, francamente, dubito di farlo ora, anche perché quella fantomatica esistenza, libera da obblighi e vincoli, che mi immaginavo ai tempi della mia inquieta giovinezza anni Settanta, è abortita per me prima di iniziare. Direi proprio che, giunti ormai quasi allo scadere del primo quarto del XXI secolo, non è più tempo di vagabondi del Dharma, zaino in spalla e sguardo sognante, on the road again, alla ricerca della risposta definitiva al mistero dell’universo (comunque la risposta, ormai, la sappiamo tutti: 42). E poi, a parte qualche canna, fumata pure con molti patemi, non mi sono mai drogata.

Ogni mattina, allo specchio, spio il mio corpo, ne conto le pieghe, osservo l’impercettibile, inesorabile disfarsi della mia faccia, le guance cadenti, gli occhi più piccoli e gonfi, i capelli radi e sottili sulla fronte, la piega triste delle labbra che stiro in un sorriso sforzato. Fingo di non essere poi così cambiata, mi ripeto che basterà mangiare meglio, dormire di più, smettere di fumare per rimettersi in piedi e scacciare quel riflesso estraneo che dall’altra parte mi fissa malinconicamente.

Rileggo quel che ho scritto e mi sto sui coglioni da sola. Grondo autocommiserazione da ogni singolo poro della mia pelle avvizzita. Capisco che qualcosa di tutto questo disagio si deve pure essere intuito. O, per essere onesta, con le mie smanie di libertà e anarchia fuori tempo massimo, devo sembrare, a conti fatti, abbastanza prevedibile. Che malinconia, scoprirsi banali, quando ancora si sogna di essere eroici, che tristezza.

Ne ho avuto la prova.

(continua) (https://youtu.be/d59wsd9JsuA)

Quando ero una ragazzina, non c’erano ancora i video musicali, però avevamo i 33 giri. Compravo un album (spesso di nascosto, perché i miei genitori trovavano discutibile il mio vizio di sputtanare i pochi soldi che avevo in tasca in qualcosa che stentavano a capire), mi rintanavo nella mia stanza ed era una festa strappare con ansia il cellophane, carezzare la cover, dispiegare, se c’era, il poster, osservare curiosa le foto. Mettevo il disco sul piatto, appoggiavo la puntina sulla lucida superficie nera e, ascoltando, leggevo avidamente i testi. C’era sempre qualcosa che non capivo del tutto, qualche frase che mi sfuggiva. Arrivava per prima la canzone ascoltata in radio, quella canzone che mi aveva spinto nel negozio di dischi, a frugare negli scaffali (non chiedevo quasi mai, cercavo sempre per conto mio), e la mettevo ancora e ancora e ancora. Poi, lasciavo che il braccio dello stereo proseguisse il suo viaggio, mentre la puntina scricchiolava piano, e alla fine trovavo la traccia che non conoscevo, ma che sin dalla prime note mi faceva segretamente tremare.

Ve lo ricordate quel tremito? Voleva dire che avevamo incontrato qualcosa, qualcuno che, finalmente, ci identificava. Era una voce estranea, versi scritti da altri, nati da occasioni che non ci appartenevano, registrati in luoghi che avremmo conosciuto solo per sentito dire. Ma in quella voce, in quei versi che traducevamo incerti, ci riconoscevamo, e Dio sa che non era solo uno sfizio da adolescenti esaltati, come credevano i nostri ignari e scettici genitori. Erano mondi che si spalancavano, possibilità che potevamo cogliere, e tutto quello che non riuscivamo a comprendere nei nostri animi ancora informi diventava improvvisamente chiaro, e per i pochi minuti di un pezzo, per i secondi di un riff, i nostri cuori battevano all’unisono con la batteria, e ci sembrava davvero di sapere chi fossimo, per una volta e per sempre.

Il tempo è passato. Siamo cresciuti, abbiamo finito la scuola, abbiamo trovato lavoro, ci siamo sposati, ed ecco, siamo genitori a nostra volta. Non è che la passione per la musica si sia spenta, ma certo non ne abbiamo più bisogno per sapere chi siamo, a parte qualche scontato momento di nostalgia per quel che avremmo potuto essere ma che abbiamo scelto di non diventare. Siamo adulti, adesso. L’adolescenza è una merda, ma siccome qualche volta ci è parso che puzzasse meno per merito di qualche ritornello indovinato, possiamo permetterci di rimpiangerla: in fondo, grazie a un vinile consumato da troppi ascolti, finito chissà dove, ci siamo illusi di poter essere liberi. Non lo siamo mai stati, ma ci piace raccontarcela diversamente. E del resto anche i nostri eroi sono invecchiati. O morti.

Sono arrivati i video a raccontarci a modo loro le storie delle canzoni, e i cd, piccoli e fragili, nei loro gusci di plastica che si sfasciavano con niente. E le playlist su Spotify.

C’è però questa faccenda di youtube. Io, lo confesso, ho una vera dipendenza, per quanto selettiva. Non amo i video ufficiali, odio le cover dei dilettanti, e salto i collage amatoriali di melense fotografie rubacchiate qua e là in rete: certe canzoni non meritano di essere affogate nel kitsch. Cerco altro.

Cerco la vita imprigionata in pochi frame sfocati.

Non so bene, tuttavia, la vita di chi. La mia, forse. Lo faccio di notte, in genere, quando il silenzio e l’assenza travestono d’altro il tempo che trascino. Il tempo che mi resta. Lo scarto fra passato e presente si annulla. Le cuffie mi riparano dal richiamo della realtà. Avvio un video dopo l’altro, fumo una sigaretta dopo l’altra. Le ore passano, il mio cervello si riempie di accordi e immagini, e quando finalmente spengo tutto e vado a letto (spesso quando la notte già comincia a sbiadire), l’eco di quel che ho visto e ascoltato rimane al fondo del mio sonno inquieto.

Vi capita mai? Vorrei raccontarlo a qualcuno, ma esito: in definitiva è un’abitudine innocente, un piccolo sfogo, una porta che socchiudo per sbarrarla subito dopo, ma è fin troppo facile apparire patetici. Oggi però ho deciso di tentare.

È capitato l’altra notte. Mi sono imbattuta nel video di un cantante morto da pochi anni. Suicida, e poco tempo dopo quella registrazione. Su quella performance stinge inevitabilmente il modo triste in cui è lui è finito, attaccato a una corda in una stanza d’albergo durante un tour. Così ognuno ci legge quel che vuole, e nemmeno la sua morte, parrebbe, gli appartiene davvero. D’altra parte, il suicidio non è raro in quel contesto e il mito dell’artista maledetto è lì da un paio di secoli ad ammonirci.

Quindi può essere che abbia scelto l’esempio sbagliato, quello più scontato.

Ma, sentite qua, che gioco ignobile quello di non poter raccontare a nessuno la propria verità, perché alla fine capiamo che verrebbe fraintesa. È un gioco che potrebbe pure spingerti nel bagno di una camera d’hotel a finirla lì, un nodo scorsoio al collo, e tanti saluti. E ancora ci sarebbe chi deplora, giudica, critica, interpreta, condanna, assolve. Sei il loro agnello sacrificale, hai preso sulle spalle i peccati di tutti, ti hanno schiantato, spolpato, divorato, e nessuno si è fatto carico dei tuoi. Però non si può evitare. Se si deve fare, si fa. Si aspetta l’accordo giusto, e quando arriva, si mettono fila le parole, poi si guarda come va a finire. Magari ci sarà salvezza, magari no.

Avvio il video. Lo avvio ancora e ancora e ancora. Sento una grande pena. E, al di là della pena, nuovamente lo stesso tremito di tanti anni fa, quello che, quando ero solo una ragazza, mi scagliava nel centro esatto della mia verità. Anche se i miei eroi sono invecchiati con me. O sono morti.

Margini slabbrati, imprecisi, interrotti. Spazi offuscati, solo intravisti e subito dimenticati. Palcoscenici spogli dove si recitano storie appena abbozzate. Esistenze anonime, che si consumano rapide nella loro desolante insignificanza. Ombre indistinte che sgomitano per raggiungere il centro della scena, inciampano, retrocedono, cadono, scompaiono. Esistono solo per poco, poi si dissolvono, lasciando solo tracce confuse, un'eco flebile che subito si spenge. La memoria che ne abbiamo si appanna, i loro nomi si perdono: ci sono stati, ma non era indispensabile che ci fossero, sono solo accidentali increspature nel fluire costante del tempo, un tempo che si distende pigro e indifferente come una coltre plumbea sul brulicare indistinto di desideri e delusioni. Eppure la vita è lì, nel dettaglio di un sorriso o di uno sguardo, nel mutuo riconoscimento che gli invisibili si donano, nel gesto casuale di saluto, nel bacio o nello schiaffo, nel grido o nel sussurro che si avverte a fatica. E se la vita è lì, ai margini, e non sul podio illusorio che ci dispensa fragili miti presto sconfessati, non varrebbe la pena riconoscerla, ascoltarla, prenderla sul serio? Ricucire quei margini slabbrati, riparare il torto inflitto dalla distrazione, scoprire che forse vale la pena esistere e resistere. Anche se la nebbia è fitta e nessuno ha voglia di fermarsi ad ascoltare.