Il video del cantante morto

Quando ero una ragazzina, non c’erano ancora i video musicali, però avevamo i 33 giri. Compravo un album (spesso di nascosto, perché i miei genitori trovavano discutibile il mio vizio di sputtanare i pochi soldi che avevo in tasca in qualcosa che stentavano a capire), mi rintanavo nella mia stanza ed era una festa strappare con ansia il cellophane, carezzare la cover, dispiegare, se c’era, il poster, osservare curiosa le foto. Mettevo il disco sul piatto, appoggiavo la puntina sulla lucida superficie nera e, ascoltando, leggevo avidamente i testi. C’era sempre qualcosa che non capivo del tutto, qualche frase che mi sfuggiva. Arrivava per prima la canzone ascoltata in radio, quella canzone che mi aveva spinto nel negozio di dischi, a frugare negli scaffali (non chiedevo quasi mai, cercavo sempre per conto mio), e la mettevo ancora e ancora e ancora. Poi, lasciavo che il braccio dello stereo proseguisse il suo viaggio, mentre la puntina scricchiolava piano, e alla fine trovavo la traccia che non conoscevo, ma che sin dalla prime note mi faceva segretamente tremare.

Ve lo ricordate quel tremito? Voleva dire che avevamo incontrato qualcosa, qualcuno che, finalmente, ci identificava. Era una voce estranea, versi scritti da altri, nati da occasioni che non ci appartenevano, registrati in luoghi che avremmo conosciuto solo per sentito dire. Ma in quella voce, in quei versi che traducevamo incerti, ci riconoscevamo, e Dio sa che non era solo uno sfizio da adolescenti esaltati, come credevano i nostri ignari e scettici genitori. Erano mondi che si spalancavano, possibilità che potevamo cogliere, e tutto quello che non riuscivamo a comprendere nei nostri animi ancora informi diventava improvvisamente chiaro, e per i pochi minuti di un pezzo, per i secondi di un riff, i nostri cuori battevano all’unisono con la batteria, e ci sembrava davvero di sapere chi fossimo, per una volta e per sempre.

Il tempo è passato. Siamo cresciuti, abbiamo finito la scuola, abbiamo trovato lavoro, ci siamo sposati, ed ecco, siamo genitori a nostra volta. Non è che la passione per la musica si sia spenta, ma certo non ne abbiamo più bisogno per sapere chi siamo, a parte qualche scontato momento di nostalgia per quel che avremmo potuto essere ma che abbiamo scelto di non diventare. Siamo adulti, adesso. L’adolescenza è una merda, ma siccome qualche volta ci è parso che puzzasse meno per merito di qualche ritornello indovinato, possiamo permetterci di rimpiangerla: in fondo, grazie a un vinile consumato da troppi ascolti, finito chissà dove, ci siamo illusi di poter essere liberi. Non lo siamo mai stati, ma ci piace raccontarcela diversamente. E del resto anche i nostri eroi sono invecchiati. O morti.

Sono arrivati i video a raccontarci a modo loro le storie delle canzoni, e i cd, piccoli e fragili, nei loro gusci di plastica che si sfasciavano con niente. E le playlist su Spotify.

C’è però questa faccenda di youtube. Io, lo confesso, ho una vera dipendenza, per quanto selettiva. Non amo i video ufficiali, odio le cover dei dilettanti, e salto i collage amatoriali di melense fotografie rubacchiate qua e là in rete: certe canzoni non meritano di essere affogate nel kitsch. Cerco altro.

Cerco la vita imprigionata in pochi frame sfocati.

Non so bene, tuttavia, la vita di chi. La mia, forse. Lo faccio di notte, in genere, quando il silenzio e l’assenza travestono d’altro il tempo che trascino. Il tempo che mi resta. Lo scarto fra passato e presente si annulla. Le cuffie mi riparano dal richiamo della realtà. Avvio un video dopo l’altro, fumo una sigaretta dopo l’altra. Le ore passano, il mio cervello si riempie di accordi e immagini, e quando finalmente spengo tutto e vado a letto (spesso quando la notte già comincia a sbiadire), l’eco di quel che ho visto e ascoltato rimane al fondo del mio sonno inquieto.

Vi capita mai? Vorrei raccontarlo a qualcuno, ma esito: in definitiva è un’abitudine innocente, un piccolo sfogo, una porta che socchiudo per sbarrarla subito dopo, ma è fin troppo facile apparire patetici. Oggi però ho deciso di tentare.

È capitato l’altra notte. Mi sono imbattuta nel video di un cantante morto da pochi anni. Suicida, e poco tempo dopo quella registrazione. Su quella performance stinge inevitabilmente il modo triste in cui è lui è finito, attaccato a una corda in una stanza d’albergo durante un tour. Così ognuno ci legge quel che vuole, e nemmeno la sua morte, parrebbe, gli appartiene davvero. D’altra parte, il suicidio non è raro in quel contesto e il mito dell’artista maledetto è lì da un paio di secoli ad ammonirci.

Quindi può essere che abbia scelto l’esempio sbagliato, quello più scontato.

Ma, sentite qua, che gioco ignobile quello di non poter raccontare a nessuno la propria verità, perché alla fine capiamo che verrebbe fraintesa. È un gioco che potrebbe pure spingerti nel bagno di una camera d’hotel a finirla lì, un nodo scorsoio al collo, e tanti saluti. E ancora ci sarebbe chi deplora, giudica, critica, interpreta, condanna, assolve. Sei il loro agnello sacrificale, hai preso sulle spalle i peccati di tutti, ti hanno schiantato, spolpato, divorato, e nessuno si è fatto carico dei tuoi. Però non si può evitare. Se si deve fare, si fa. Si aspetta l’accordo giusto, e quando arriva, si mettono fila le parole, poi si guarda come va a finire. Magari ci sarà salvezza, magari no.

Avvio il video. Lo avvio ancora e ancora e ancora. Sento una grande pena. E, al di là della pena, nuovamente lo stesso tremito di tanti anni fa, quello che, quando ero solo una ragazza, mi scagliava nel centro esatto della mia verità. Anche se i miei eroi sono invecchiati con me. O sono morti.