L’archeologo netturbino e il cemento siciliano

Alcune foto scattate e condivise da Alberto e Fabio hanno suscitato un – secondo me — interessante scambio di opinioni in merito all’arte: si trattava di immagini di Cretto di Burri, l’installazione artistica realizzata in parte da Alberto Burri tra il 1985 e il 1989 dove sorgeva l’agglomerato urbano di Gibellina, completamente distrutto dal terremoto del Belice. Burri ha ingabbiato e cementificato le macerie di negozi, abitazioni, chiese, scuole rase al suolo dal sisma, ricreando una “città fantasma” costituita da blocchi di cemento alti circa un metro e sessanta e attraversata da strade larghe un paio di metri: una colata di cemento che si estende per ottanta mila metri quadri a poca distanza dalla riserva naturale di Grotta di Santa Ninfa. Un ecomostro, lo si direbbe oggi. Ma, per l’appunto, quest’opera d’arte non è stata realizzata oggi. È stata realizzata negli anni in cui la cementificazione regnava sovrana, gli anni dell’edilizia popolare e dei casermoni alveare, gli anni in cui, ad esempio, al capo opposto dell’Italia, si costruiva il Cementone destinato a rimanere persino meno utilizzato dell’installazione artistica siciliana. La discussione verteva sul fatto che, invece di questa colossale colata di cemento, si sarebbero potuti piantare alberi, se non ricostruire la città andata perduta, o almeno lasciare che la natura facesse il proprio corso e tornasse ad appropriarsi di spazi che le erano stati tolti dagli uomini e che il terremoto le aveva drammaticamente restituito.

Se a questo punto vi state domandando cosa centri tutto questo con l’archeologia e la spazzatura, abbiate pazienza, ci sto arrivando: chi sceglie di studiare archeologia lo fa, spesso, sapendone in realtà pochino e attratto dalla prospettiva di avventure alla Indiana Jones o Lara Croft, magari non così memorabili e favolose, ma comunque perché spera in un lavoro dinamico e sorprendente, che lo porti a scavare in angoli affascinanti del pianeta e gli dia la possibilità di visitare mete esotiche e conoscere persone stimolanti. Bene, adesso vi svelo ciò che ci disse il mio docente di archeologia dandoci il benvenuto al suo corso: l’archeologo è uno spazzino del tempo, raccatta rifiuti, perché finché una cosa viene usata non viene buttata via né dimenticata. Che si tratti di galeoni affondati tra i flutti oceanici, mura di castelli in rovina nelle Highlands, cocci di vasi di terracotta dipinti con scene della mitologia greca o punte di selce del Neolitico, tutte queste cose hanno una caratteristica in comune: sono ormai inservibili. Abbandonati perché rotti o sorpassati, superati da nuove tecnologie, nuovi ritrovati ed invenzioni che li rendono vecchi. Rifiuti.

E questo ci riporta dritti dritti alla questione della discussione su Mastodon circa l’opera di Burri, perché se questa enorme struttura non verrà visitata, in qualche modo fruita dalle persone e mantenuta in vita tornerà ad essere parte della natura circostante. Prima qualche timido filo d’erba e qualche bocca di leone farà capolino tra le fessure delle strade, poi qualche seme portato dal vento inizierà a germogliare e le lucertole cominceranno a predare gli insetti attratti dai primi fiori, negli anni le radici degli arbusti si faranno largo sgretolando il cemento e infine verranno gli alberi ad alto fusto, con le chiome ombrose, i nidi degli uccelli e i ghiotti frutti irresistibili per scoiattoli e ghiri, e con le prede arriveranno anche i predatori. Ciò che l’uomo costruisce è destinato al declino, alla fine, al ritorno alla natura. Non importa quanto imponente e all’apparenza indistruttibile possa sembrare un’opera umana: nel suo futuro c’è comunque il disuso, la dimenticanza, il rifiuto. Almeno fino a quando qualche archeologo non la scova nuovamente.

Viviana B.