Critica al libro “In una goccia di luce”

di Felice Serino.

A cura di Luca Rossi.

Febbraio 2009.

Incentrato sulla psicologia dell' Io, tra interiorità-esteriorità, tra morfologia del corpo (il

pre-essere che si fa uomo, il quale si relaziona successivamente col mondo), il biennio 2007-2008 vede il poeta dare alla luce queste nuove liriche, riaffermando

il suo indagare su ciò che è temporalità e realtà.

Già la prefazione di W. Blake anticipa quello che sarà il corpus poetico che vede la “bellezza dell'essere” risiedere nel mistero ancestrale del creato. Quell'essere che non porta al suo interno il mistero stesso, è un individuo che acquista scarso valore. E' questo che pare voglia affermare Serino ribadendo le parole di A. Crostelli nella lirica che apre la silloge. Un mistero dentro il quale si racchiude il bello e il brutto di ciò che è umano e non trascendente, per chi volesse pensare ai versi del poeta solamente alla luce dei lumi del cristianesimo. Un mistero che è regione spazio-tempo indeterminata, in cui anche i sogni hanno un loro ruolo (vedi: “In sogno ritornano”): “amari i momenti del vissuto/ che non vorresti mai fossero stati…//si affaccia nel tuo sogno bagnato/ quel senso di perdizione…”.

Riflettori da cui diparte una luce “insostanziale”, che ci permette di vedere il “non-vissuto” o ciò che non si vorrebbe scrutare perché figlio della paura “…luce verde della memoria/ scuote la morte”, come afferma in “Insostanziale la luce”.

Una luce che diviene il punto di partenza incentrando il discorso antropologico intrinseco nel vissuto di ognuno: “…sostanza di luce e silenzio/ sapore dell'origine…”, da “Lacera trasparenza”.

Entrare nel mistero vuole dire entrare nella luce: “…camminare nel mistero a volte/ con passi non tuoi…”, da “Entrare nella luce”. Mistero come sinonimo di fragilità dell'essere e brevità del tempo, o fortezza di entrambi.

Il concetto viene mirabilmente espresso in quelli che potrebbero ritenersi i versi centrali di tutta l'opera, riportati in “Se ci pensi”: “capisci quanto provvisoria/ è questa casa di pietra e di sangue/ dove tra i marosi il tempo/ trama il tuo destino di piccolo uomo?…//…mentre ti ripugna/ il disfacelo lo scandalo/ della morte il salto nel vuoto”.

Come non riandare ai versi della Dickinson scritti per la morte del nipotino Gilbert?

Incostante, poco convincente la chiusura della poesia “Mondo”, dove colui che scrive sembra smentire tutta una filosofia etico-morale appartenente al suo modo di concepire l'immagine dell'essere che detesta il mondo. Eppure è proprio in “quel” mondo che nasce l'uomo descritto da Serino, anche se proveniente da bagliori indefiniti. E' proprio lì che il mistero di un amore-odio ha valore solo se entrambi coesistono. Non ci potrebbe essere amore se non esistesse odio. Non ci potrebbe essere odio se non esistesse amore. Binomio indissolubile senza il quale tutto sarebbe utopia, anarchia del pensiero collettivo, sempre che non si varcassero le porte del trascendente. Che il suo dichiararsi contro la guerra sia la ragione che sublima il pensiero umano è cosa scontata, ma non reale nella sua pienezza, perché è in quello stesso uomo che il bene e il male convivono.

Così come in “Sic transit…”. Ma questa è la realtà dell'uomo contemporaneo. Aggrapparsi all'effimero o costruire il suo dominio sulla roccia. Probabilmente l'abile penna del poeta vuole portarci a fare un salto di qualità nell'apprendere il suo professare.

Un salto di qualità che è didattica. Perché questo è il fine ultimo della poesia, anche se talvolta difficile da concepire.

Una poesia fine a se stessa, con un costrutto essenzialmente “vuoto”, è infruttuosa. Deve sussistere una poesia invece in grado di farci volgere lo sguardo alle “coordinate dei sogni -e/ l'insaziato stupirsi della vita/ da respirare su mari aperti// – che tenga lontano la morte”, da “Nel segreto del cuore”.

La morte, la morte…Altra descrizione di un paesaggio tanto forte quanto quello della vita. Il passaggio dalle tenebre alla luce può essere violento, ma è in questo che si risveglia la coscienza di chi vive tra il bene e il male operando attraverso strumenti di discernimento, quelli dettati dalla poesia, appunto: “e tu di nuovo ostaggio della notte/ l'invito/ l'abbraccio del vuoto// parola neo-nata/ la chiami nel buio/ l'innervi in parole// la plasmi a scalpelli di luce”, da “L'invito”.

La morfologia della poesia di Serino differisce da ogni altra per il suo concatenare i puri elementi dell'anatomia umana (sangue, nervi, fonemi, ecc.) con quelli del logos, perché la parola diventi carne ed entrambi, così terreni, così tangibili, generati da una forza a cui fare ritorno e in cui rispecchiarsi.

Non serve riportare nelle note biografiche la breve descrizione di chi sia il poeta, di quando sia nato o di ciò che abbia scritto. Le poesie da lui scritte sono un biglietto di presentazione, il biglietto da visita dell'uomo-poeta.

Egli è l'Hermes, colui che nella mitologia greca è il dio dei confini e dei viaggiatori, di tutti noi insomma, di quella geografia che ci appartiene, corporea e del pensiero.

Dio degli oratori e dei poeti, dei pesi e delle misure. E' apportatore di sogni, osservatore notturno, interprete.

Mercurio, nella mitologia romana.

Serino ci trasporta così dal buio alla luce, dal non-essere alla forma dell'essere.

Scruta le ombre per capire dove sia la fonte di luce che le genera, perché senza luce, non esisterebbe ombra. Ladro e bugiardo solo apparentemente in certe strofe da lui scritte al fine di riscattarci a valori assoluti a cui il nostro “uomo di domani” deve rivalutarsi dal passato.

Proveniente dalla luce, attraversando le tenebre, si (ci) indirizza verso il mistero, oltre lo stesso.

Mi permetto solo di rubare alcune parole all'amico prof. D. Pezzini, direttore della cattedra di lingua inglese e letteratura medioevale inglese presso l'università di Verona, che nel descrivere la figura del poeta gallese Ronald Stuart Thomas, scrisse in un suo libro per gli studenti universitari: “Thomas ha infatti della poesia una visione che diremmo severa e impegnata, nella quale egli traduce un percorso di scoperta personale che passa attraverso la lettura del mondo in cui vive (…) e di indagine ostinata del proprio io alla ricerca del senso ultimo delle cose.”

Questo, a mio modesto avviso, vale anche per F. Serino.