“Angeli caduti” di Felice Serino

a cura di Luca Rossi.

Novembre 2004.

ANGELI CADUTI

fuori dal cielo

bevvero l'acqua del Lete

ora non sanno più chi sono

presi nella ruota del tempo

mendicano avanzi di luce – curano

le ali spezzate

per risalire nell'azzurro

Da La difficile luce, 2005

Questa volta Serino ha voluto pericolosamente avventurarsi in un campo dove la tematica è riservata a chi ha fatto della vita tutta un campo d'azione nel mondo del Mistero, di quel mistero dove regnano angeli[1] e demoni, dèi e anti-Cristo, portatori di pace e dittatori della guerra, che sia poi guerra fatta di armi o di lotte interiori, dove il nemico siamo “noi-stessi contro noi-stessi” poco importa.

In questa moltitudine di figure indefinite, egli identifica la figura di un angelo che di soprannaturale, nel proprio profondo, ha ben poco, ma si definisce come un'immagine più di umanizzata, dove è il peccato a renderlo prigioniero del mondo.

Se lo diverrà (cioè essere slegato dalla terra) lo sarà solo poi, dopo che avrà superato la soglia del reale, in cui si allineano istanze nascoste, sogni criptati, dinamiche ancestrali di eventi remoti; la linea che demarca la purezza dal peccato, la tentazione … dal sacrum).

Angeli che prima erano ragazzi, esseri innocenti (perché mai la giovinezza dovrebbe essere immune dal peccato?) che ora cercano di riscattarsi dai propri errori, di lavarsi le proprie ali per potere risalire verso l'alto, verso l'Assoluto. Ma le ali intrise rendono difficile il volo verso un cielo sempre più alto. Resta comunque la speranza che il cielo tocchi la terra per rendere più breve la risalita e così disperdersi nell'Infinito.

Il paradiso perduto sta al di là del Lete[2], ci dice il poeta, fuori dal cielo, al di là del quale ognuno perde la propria identità: non è più massa, non è più omologazione, non è più l'Io specifico definito.

Definitivamente persi e pronti a bere un'acqua che faccia dimenticare chi fossero stati o, a giudizio del lettore, seguire la via dantesca.

Poveri divenuti tali a causa di una Grazia perduta che nello scorrere dell'eternità, dove stanno gli immortali e coloro che ancora sono nella prova, vanno alla ricerca della luce, della visione di Colui che è sempre pronto a tornare sui suoi passi perché nessuno sia un nuovo Lucifero, ma la manifestazione di quanto grande possa essere il perdono.

Curano le ali spezzate, dice l'autore, come a volere testimoniare che dopo l'errore c'è la presa di coscienza di ciò che di negativo si è compiuto.

E' tempo ora di riparare al danno, è momento di stasi, momento in cui non si può fare altro che starsene fermi dove ci si trova a mendicare avanzi di luce.

Che sia dato loro (non potevamo essere forse noi quegli angeli?) un nuovo tempo è cosa certa: all'interno di questi cureranno le ferite delle loro ali pensando al passato e utilizzando la ragione come medicina che risana.

Ma ragione e tempo non basteranno per guarire, se l'Amore di Dio non si riverserà su tutto e tutti.

Serino, nella sua solo apparente distanza da una poesia in cui il cristianesimo non si riflette in una civiltà moderna, dove egli ha costruito la sua poetica fin dagli anni delle grandi lotte per i diritti dei lavoratori nelle fabbriche, nasconde invece, attraverso i personaggi da lui descritti, un forte e saldo legame nei confronti dell'Assoluto. In talune opere sembra quasi essere una necessità, per risalire quell'azzurro che rimane pur sempre, nel pensiero collettivo, il colore della purezza e dell'innocenza.

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[1] Vedi E. Dickinson nella sezione poetica dedicata agli angeli. Mi permetto di riportare qui di seguito una delle più belle poesie, a mio giudizio, della Dickinson sul tema, la quale dice:“Sola non posso stare – / Perché mi vengono a far visita – / Ospiti al di là della memoria – / Ospiti che ignorano la chiave di casa. // Non usano abiti o nomi – / calendari – o climi – / ma abitano case comuni / come fanno gli gnomi – // A volte corrieri interiori / ne annunciano l'arrivo – / Ma mai la partenza – / perché non se ne vanno mai più.”

[2] Nella mitologia classica, fiume dell'Ade (il mondo dei trapassati); i morti dovevano berne l'acqua che faceva loro dimenticare la vita terrena. Dante ne fece un fiume del paradiso terrestre; le anime ne bevono le acque prima di salire in cielo per dimenticare le colpe commesse.