DOPPIO CELESTE
entrare nello specchio: esserne
l'altra faccia:
uscire dal sogno di te stesso
apparenza di carne tornata pneuma:
ri-unificarti col tuo doppio
celeste: il-già-esistente di là
dal vetro: tua sostanza e pienezza
[da Fuoco dipinto – 2002, edizione dell'Autore]
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Sono il modo del verbo, quello infinito, ed il significato dello stesso, cioè quello di “accedere a un luogo”, che vengono sottolineati fin dall'inizio della poesia, che già ci portano a considerare l'aspetto introspettivo che i versi diranno di seguito.
E si è subito sul luogo della scena, senza premesse, in medias res. Si è subito sul luogo del delitto (del proprio suicidio): in riva allo stagno, dove, tra breve,superato il primo verbo che apre la poesia, l'immagine di Narciso si specchierà chiara nell'acqua (“esserne l'altra faccia”).
Non si arriva neppure a mettere in dubbio l'impronta fortemente narcisistica dello scritto (“uscire dal sogno di te stesso”).
O forse, superato il primo verso, può essere che le parti non siano le stesse che la mitologia vorrebbe riproporre.
Può essere che l'oggetto (lo stagno, lo specchio, l'altra faccia) e la persona (Narciso e il sogno che lo rappresenta) si confondano, proprio come talvolta avviene nei sogni, dove ogni cosa può occupare posti e ruoli diversi, differenti:
Quando Narciso morì, lo stagno del suo piacere si mutò da una tazza di dolci acque in una tazza di lacrime salse e le Oreadi vennero piangendo attraverso i boschi per cantare allo stagno e confortarlo. E quando videro che lo stagno s'era mutato da una tazza di dolci acque in una tazza di lacrime salse, sciolsero le verdi trecce dei loro capelli e gridarono verso lo stagno dicendo: “Noi non ci meravigliamo che tu pianga tanto Narciso, perché era davvero bellissimo”.
“Ma era bello Narciso?”, disse lo stagno.“Chi potrebbe saperlo meglio di te?”, risposero le Oreadi.” Ci passava sempre davanti, ma cercava te e si stendeva sulle tue rive e guardava dentro di te e nello specchio delle tue acque specchiava la propria bellezza”.
Allora lo stagno rispose: “Ma io amavo Narciso perché, mentre egli se ne stava disteso sulle mie rive e mi guardava, nello specchio dei suoi occhi io vedevo sempre specchiata la mia bellezza”.
(Oscar Wilde – Il discepolo, 1893).
Lo stagno e Narciso erano la stessa persona, la stessa cosa: ognuno di essi non vedeva l'altro.
In “Doppio celeste” si esce invece dal sogno per accorgersi che esiste una realtà, che è quella che lo specchio riflette, che poi è la stessa che, vista specularmente, completa la parte spirituale mancante nell'uomo, finché questa non viene raggiunta.
Solo passando attraverso lo specchio ci si addentra nell'anima e si vedono con distacco le cose che stanno oltre il sembiante, quando anima e corpo, corpo e anima si trovano già in uno stato etereo.
Nella lettura della poesia, prima di entrare nello specchio, si percepisce quanto l'autore voglia trasmettere che questa ricerca non sia stata del tutto casuale, ma che anzitempo vi era stato un percorso alla ricerca, appunto, del complementare; che vi era stata tutta una vita di riflessione a riguardo.
Ce lo sottolinea il modo in cui la poesia inizia, con quell' “entrare” scritto con la lettera minuscola, abitudine certa di chi scrive nell'aprire i suoi lavori, ma non in questo caso, come si potrebbe interpretare; un modo d'iniziare portato quasi a testimonianza che prima c'era dell'altro.
Ne seguono poi, nella costruzione delle strofe, un utilizzo dell'interpunzione rappresentata dai due punti ben evidente e ripetuta. Si tratta di spiegare ciò che il discorso iniziato, continuato, ora vuole dire.
Scelta oculata, originale, non casuale della punteggiatura unita al senso della poesia.
Dopo essere entrati nello specchio, al di là della sua superficie, al di là della superficie dello stagno, c'è la distanza, la profondità dello stesso, che aumenta quanto più eravamo distanti da quel “doppio celeste” già presente.
Narciso conoscerà la sua essenza solo quando lo specchio d'acqua lo attirerà a sé tramite il gioco perverso della propria immagine.
Noi lo faremo quando l'immagine dello specchio rifletterà un azzurro che si aprirà al di sopra dell'unico colore, quello nero, della morte.
Ma che la morte sia il vero senso con cui si chiude questa poesia è in dubbio.
Ciò che lascia questo dubbio è l'utilizzo dei verbi usati all'infinito (entrare – essere – uscire dal sogno): all'infinito cerchiamo la nostra complementarietà all'interno della vita e moriamo così tutte le volte che portiamo a termine questa nostra ricerca, e rinasciamo subito dopo.
Sembra che in questa poesia non ci sia vita, non ci sia morte, perché la ricerca dell'anima supera i confini del tempo e della storia.
Commento di Luca Rossi
6 dicembre 1998