ADDIO EVELYN

ddd Las Vegas, arabescata da case da gioco scintillanti e attraenti, accoglie tra le proprie braccia incontri fugaci, seduzioni di una notte e tormenti di una vita. Le macchine davanti ai Casinò ostentano la loro graziosa e costosa personalità come le donne che avanzano sicure con uomini imbellettati, baciati dalla fortuna o sostenuti dall’intraprendenza, donne ammantate di mistero, indossano velette nere eleganti e sfarzose, cucite magistralmente dalle firme più importanti della moda. Las Vegas, sempre identica a se stessa e sempre diversa, immobile ed in continuo movimento, è difficile conservarne un ricordo preciso, essa muta costantemente a seconda del punto di vista. Il viaggiatore percorre i viali con lo sguardo attonito, rischiando ad ogni passo di perdere l’equilibrio, quasi avvolto da un’ebbra frenesia. Anche il turista più distratto finisce per lasciarsi andare nel turbinio di voluttà che si spande per l’aria e travolge chiunque. Las Vegas, dai mille volti sorridenti, dalle mille insegne luccicanti, dai mille grattacieli che tentano in ogni modo di raggiungere le nuvole, è la città dei sogni e dei sogni perduti, dei desideri e dei desideri infranti.

All’estrema periferia di questo enorme agglomerato si estende una terra apparentemente vuota e solitaria, rinchiusa in un storia che nessuno è riuscito a reinventare. Questa è la Las Vegas dei poveri, degli esclusi, dei condomini che si reggono a fatica e non crollano solo perché hanno pietà dei vivi, delle case fatiscenti senza grondaie, delle roulotte parcheggiate una vicino all’altra formando un quartiere di desolazione ai bordi del deserto. Gli abitanti sopravvivono tra cani randagi e gatti incuranti di quella povertà. Le regole ferree del bisogno impongono una ragnatela di relazioni, trasgredire significa morire. Così ogni tanto qualche sparo lacera il silenzio, disturbando il sonno leggero degli animali e degli spinosi arbusti.

Nacque, nella roulotte più isolata e immersa nel nulla, Evelyn. Il vagito tremolante giunse tra le braccia di Gwenda che lo ascoltò con distaccato tormento. Mise la piccola all’interno di uno scatolone con due copertine e la allattò finché poté, poi dovette porsi il problema del pasto per due.

Gwenda, una donna dai lineamenti gradevoli ed attraenti ma dai modi sgraziati, aveva cominciato a vendersi all’età di 16 anni, quando era fuggita di casa sperando di trovare, sotto le luci di qualche locale notturno, l’uomo che l’avrebbe amata e sposata. Invece finì in un bordello come tante altre. Mentre offriva il suo corpo osservava la stanza in cui era stata ingabbiata: l’orologio a muro che scandiva i minuti con lentezza estenuante, le pareti scrostate e unte su cui erano appesi quadretti raffiguranti vecchie città, la tenda rossa che separava il bagno dalla camera. Durante il giorno passeggiava avanti e indietro nei quartieri più malfamati dove i bambini giocavano tra pietre e reti arrugginite. Sembrava volesse rubare la loro ingenuità.

Ben presto Gwenda divenne quello che era stata costretta a fare, il suo viaggio l’aveva plasmata, era oramai uno dei tanti frammenti di umanità, senza nessuna prospettiva. Se ne andò dal bordello con quattro vestiti, gli stracci indispensabili per battere il marciapiede. Poi rimase incinta. Aveva 19 anni.

Evelyn crebbe senza carezze o baci, circondata da una profonda solitudine, prigioniera di un presente invisibile in cui nulla aveva senso, la brutalità con cui venne allevata si poteva intuire dai suoi abiti sporchi, dal suo corpo segnato dalle percosse. “Perché non ti ho lasciato morire in un cassonetto della spazzatura?” Gridava Gwenda quando Evelyn piangeva. “Ne ho abbastanza di te, mi hai rovinato la vita”. Una sera Gwenda rientrò con James, occhi grandi, barba lunga ed incolta, puzzava di birra e di fumo. Era un senza tetto perciò la sistemazione che aveva trovato era per lui una manna. La roulotte era abbastanza grande per tre e non era infestata dai ratti che scorrazzavano nei vicoli più lontani dal centro, tra i cartoni adibiti a letti occupati da anime perse. Quell’uomo entrò nella loro vita portando con sé la violenza e la sporcizia delle vie e dei pub immersi nel buio del degrado.

Gwenda non era felice ma almeno aveva trovato protezione. Nessuno l’avrebbe più maltrattata. Il suo James non l’avrebbe permesso, ma i guadagni non bastavano mai. “Credi di poter continuare così?” Le diceva spesso James in preda ai fumi dell’alcool. Lei lo guardava con rabbia. “Pensi che vada a divertirmi?” “Brutta sgualdrina!” “Bastardo!” Poi si avviava sotto i lampioni dei viali più malfamati alla ricerca dei consumatori di sesso a basso costo.

Evelyn se ne stava in disparte, parlava poco e non sapeva che cosa fosse la scuola. Finché un giorno non fu recapitata una lettera in cui l’Amministrazione Comunale faceva notare che era giunto il tempo di sedersi in un’aula. Fu così che Evelyn conobbe la durezza del suo essere diversa. I compagni la dileggiavano, i maestri non si curavano di lei, avevano troppo da fare nelle classi di un Istituto di Istruzione Pubblica che ospitava gli avanzi di una società dimentica degli ultimi. “Non voglio andare a scuola”. “Perché?” Chiese Gwenda. “Tutti mi prendono in giro”. “E allora? Non sai difenderti?” Evelyn non rispose. “Tu frequenterai le lezioni, altrimenti l’assistente sociale ci farà visita e ti porterà via. E’ questo che vuoi?” “No mamma, no…” Frequentò le lezioni per qualche anno in modo discontinuo. Nessuno si preoccupò per le sue assenze.

Aveva otto anni, quando in un tardo pomeriggio assolato Evelyn si accorse che James la squadrava dalla testa ai piedi. “Cara Evelyn sei proprio una bella ragazzina… qualcuno a scuola ti ha toccato?” Lei non sapeva cosa dire. Tacque. Le accarezzò il sedere. “Vieni qui, ti do un bacino… che bel corpicino.” Alfine la strinse a sé con durezza. La spogliò… le urla della piccola non lo scoraggiarono. Stesa a terra sanguinante, sotto il peso del sudore appiccicoso di quella pelle coperta di peli, rimase inerte fino al mattino seguente. “Cosa è successo? Cosa ci fai lì?” “Mamma ho tanto male”. Evelyn le mostrò la parte intima dilaniata. “Non darti pena, domani starai meglio. Ci farai l’abitudine. Forza, ora vai a lavarti”. James decise di costruire una baracca più isolata in modo da scongiurare un’eventuale incursione da parte di vicini sospettosi. Evelyn si recava in quella baracca guardando per terra, immaginando un mondo abitato da fantasmi vestiti di bianco che cercavano di salvare le vite bruciate, scordate, bloccate nella melma di un dolore troppo grande per sciogliersi con lacrime ormai inutili.

Dopo due anni di angherie, insulti e abusi Evelyn era diventata docile, tanto docile da essere gettata tra le braccia lorde di un idraulico e di un elettricista, che in cambio fornivano servizi a domicilio. Fu Gwenda, che di fronte ai conti da pagare, ebbe l’idea di uno scambio: sua figlia per l’azzeramento dei debiti. I brandelli di quegli uomini chini sul suo volto si univano nella mente di Evelyn assumendo la forma di fotografie sovrapposte, saldate così bene da staccare il suo corpo da ogni pensiero. Quando poteva si nascondeva, mimetizzandosi come un camaleonte, oppure si allontanava da quel grigiore, ma, non sapendo cosa fare, ritornava sui suoi passi e tutto ricominciava come prima.

I giorni scivolavano lentamente, mentre Evelyn imbruttiva nel fisico e nella mente. Avrebbe potuto chiedere aiuto. A chi? Persino le Istituzioni l’avevano abbandonata al suo destino. Non ebbe neppure diritto a cure adeguate quando fu portata al Pronto Soccorso in seguito ad una caduta che le aveva causato una forte commozione cerebrale. Era stato James, voleva ricordarle che era lui il padrone. “Smettila di frignare”. “Sto male, ho la testa che scoppia e mi viene da vomitare”. “Allora vai fuori, ti siedi e aspetti senza lamentarti”. Evelyn si sdraiò per terra e attese il rientro della madre. La luna piena ebbe pietà di lei, la vegliò e la consolò.

Cominciò a bere tutto quello che riusciva a trovare. “Piantala di bere. Conciata così come pensi di trovare qualcuno che paghi per te?” La rimproverava aspramente la madre. “A James vado bene anche così. Non è vero mamma?” Gwenda si girò per prendere un oggetto qualsiasi. Voleva picchiarla. Ma Evelyn non era più lì. Se ne era andata con il cuore che batteva all’impazzata.

“Mio Dio sto camminando da ore senza tregua. Ho fame ho sete ho sonno sono tanto stanca. Indietro… no. Meglio morire qui sotto l’insegna colorata di un albergo per ricchi... Mi devo fermare… le mie mani tremano. Mi manca la mia bottiglia. “Scusami, Scusami, Scusami”, non sono una lebbrosa. E invece sì sono una randagia senza nessuno. “Signore, Scusami, ti va di stare con me?” “Quanto?” “Dieci dollari”. “Sei a buon mercato”. Lui è steso su di me come tanti altri. Non mi fa più male. “Cosa sono questi segni?” “Non sono affari tuoi, paga e vattene”. Ora ho dieci dollari … ecco il negozio che vende alcoolici. Nessuno mi chiede se sono maggiorenne. Meglio così. E’ quasi il tramonto. Le piazze e i casinò sono oramai affollati...ed io non so dove dormire, riposare, aspettare che succeda qualcosa. Qualcuno mi fissa “Quanto?”, tentenno… troppo tardi, è scomparso. Seguo un vagabondo come me nella speranza che mi indichi un posto appartato… Sì, bene, adesso posso distendermi...”

DOPO TRE MESI

Il mercato del sesso di Las Vegas non aveva più segreti per lei, aveva un giro di clienti che le permettevano di sopravvivere. Talvolta all’imbrunire, prima di iniziare a vendere se stessa per un pezzo di pane, si recava alla stazione ferroviaria. Si metteva sul ciglio del binario per assaporare l’ebrezza della partenza. Appena si aprivano le porte di un treno qualsiasi, chiudeva le palpebre, figurandosi di salire su un vagone per andare a Dallas, dove viveva il figlio di James. Lo aveva conosciuto qualche anno prima, quando, senza più denaro, si era rivolto al padre per un aiuto. James lo invitò ad andarsene sputandogli addosso una serie di insulti mescolati a volgarità tipiche del suo modo di esprimersi

Tommy aveva 19 anni ed una nutrita collezione di arresti per spaccio, ubriachezza violenta e furto. Non era indubbiamente un santo, ma ad Evelyn importava poco, anche lei era una sbandata, senza avvenire.

“Devo racimolare soldi soldi soldi. Voglio andare da Tommy… insieme a lui posso smettere di bere e poi... poi quella volta è stato gentile, mi ha regalato delle caramelle e mi ha salutato con un gesto affettuoso. L’ho seguito con lo sguardo mentre si allontanava fischiettando una vecchia canzone che a me piace tanto...”

Quando il treno spariva dietro l’orizzonte, Evelyn rimaneva a scrutare quella linea che le aveva offerto, per un attimo, la possibilità di sognare di essere sollevata e guidata da un lieve soffio di vento verso lidi lontani ed incantati. Finalmente bussò alla porta di Tommy. L’indirizzo le era stato fornito da un amico del patrigno al quale era stata più volte venduta e che era sbucato fuori dal nulla, come quando improvvisamente il prestigiatore materializza una colomba sotto un panno. “ Che cosa vuoi?” “L’indirizzo di Tommy”. “Lo sai che è un poco di buono”. “Per favore, mi dai l’indirizzo di Tommy?” “Va bene, va bene, ma tu poi mi devi ringraziare”. Lo ringraziò, accontentando le sue voglie. Con quel misero pezzo di carta giunse a Dallas. Quando Tommy la vide, fu colto dallo stupore. “Cosa ci fai qui?” “Posso restare con te?” “Stai scherzando, vero?” “No, sono scappata e ho pensato di venire qui”. “Mi sa che ti manca qualche rotella, comunque per stanotte non c’è problema”. Le notti si moltiplicarono e alla fine rimase lì, nonostante lui bevesse tanto quanto lei e fosse aggressivo tanto quanto il padre. La storia riprese a correre, Tommy non era molto diverso da James anche se in qualche momento appariva sofferente, cupo. Lui la seguiva quando si prostituiva, per evitare che qualche cliente alzasse le mani o non pagasse. Certo, non sempre le gambe lo sorreggevano adeguatamente, perciò poteva capitare che entrambi fossero bastonati senza pietà.

“Mi fa comodo avere una sgualdrina da sfruttare. E’ che, in certi momenti, mi fa pena... posso maltrattarla quanto mi pare non si ribella. Ieri mi ha parlato di bambini. Figli… Stamattina ha trascorso qualche ora vicino al cortile di una scuola. Una donna ha chiamato l’ufficiale di pattuglia accusandola di aver fissato con troppa insistenza gli scolari… Boh… la sua testolina non funziona bene… forse, forse, non lo so. E’ strana...”

Vivevano nel seminterrato di un condominio decrepito, grigio, contornato da altri edifici simili, sommersi dal degrado e dal sudiciume. Non vi erano mobili, solo coperte luride, qualche abito altrettanto lurido ed un fornello a gas per riscaldare quel poco che avanzava nella borsa della spesa dopo l’acquisto di birre o whisky. All’esterno, le strade offuscate dalla nebbia dell’oblio si lasciavano attraversare da ogni sorta di esistenze disperate: animali randagi, uomini e donne altrettanto randagi, vite bruciate, interrotte, inutili agli occhi dei più, tutti impegnati a procurarsi il cibo per sfamare stomaci ormai devastati dagli stenti.

DOPO DUE ANNI

Evelyn si sentiva grande, pronta ad avere un figlio. Questo desiderio si trasformò presto in un’ossessione. Quando poteva, andava al parco cittadino, si siedeva davanti all’area giochi dove i bambini correvano in lungo e in largo, urlando senza tregua la loro felicità. Fu così che conobbe Emily. L’argomento delle loro conversazioni era prevalentemente legato alla maternità della nuova ed unica amica. “Quando nascerà tuo figlio?” “E’ una bambina … fra due mesi”. “Hai già comprato la carrozzina?” “Sì, all’emporio dell’usato, io e mio marito non siamo benestanti”. “Come si chiama tuo marito?” “Paul, purtroppo lo vedo molto poco perché fa il cameriere turnista in un locale H 24. Quando finisce il turno è così stanco che a fatica raggiunge il letto per dormire”. Dopo una breve pausa aggiunse. “Ma verranno sicuramente tempi migliori”. “Se vuoi, qualche volta posso stare con te… a casa tua per farti un po’ di compagnia”. “Davvero lo faresti?” “Certo, perché no?” Evelyn divenne stranamente euforica, si preparava al parto, come se fosse la sua maternità. Quando faceva visita ad Emily, toccandole il pancione, provava un brivido lungo tutta la schiena.

“Mio Dio sta per nascere devo organizzarmi. La mia bambina deve vivere in una bella casetta con un giardino pieno di fiori, alberi ed un’altalena come quella del parco. Sarà felice...”

Tra le fantasie di Evelyn e la realtà nulla si frapponeva. Era convinta che presto sarebbe stata madre. Sospesa sopra un precipizio, si muoveva nel vuoto che aveva creato tutto intorno. I suoni ed i profumi non esistevano più, solo i suoi piedi, che procedevano lentamente, le davano qualche sensazione, si staccavano da terra cercando un appoggio sicuro per non rischiare di piombare con la memoria nello scantinato della sua vita.

Un giorno qualunque Evelyn si eclissò. Si procurò un coltello affilato, uno zaino abbastanza grande ed imbottito con il pile. Seguì Emily fino a che si infilò in un vicolo da cui non avrebbe avuto via di fuga. Evelyn era completamente assorta in una specie di delirio in cui inquietanti figure si spostavano, una dopo l’altra, scandendo il ritmo del suo incedere, intrecciandosi secondo regole assurde, senza un senso preciso, erano sovrapposizioni di cose e persone che a loro volta richiamavano altre cose ed altre persone. Davanti a lei solo un’enorme pancia, la sua pancia dove la sua bambina l’aspettava. Il coltello fece scorrere il sangue e la sua bambina nacque.

“Ho deciso si chiamerà Rosemary. Finalmente posso andare al parco con il passeggino e parlare con le altre mamme...”

Corse verso il luogo in cui aveva vissuto fino a quel momento, dove vi era un giaciglio appositamente predisposto. Ma fu bloccata da due agenti di polizia. Dopo poco arrivò l’ambulanza, non ci fu nulla da fare. Rosemary era già morta.

Evelyn fu condotta in carcere in attesa di comparire davanti al giudice che decise di pronunciarsi a sfavore della libertà su cauzione. Ad udienza terminata fu riportata nella sua cella.

“La mia bambina… mi hanno detto che è morta… sono io la colpevole? Mi gira la testa, sono stanca. Le sbarre sono vecchie arrugginite... il colore non mi piace ma non importa me ne andrò presto...”

Non se ne andò presto. Ci volle un anno per la celebrazione del processo che vide un’imputata confusa e tremante. Nel periodo di detenzione aveva incontrato psicologi, psichiatri, insegnanti, preti che riferirono in Tribunale la sua storia di soprusi e violenza cieca che l’avevano mortificata fin dall’infanzia. Le percosse le avevano causato importanti danni cerebrali. Il suo delitto era frutto dell’abbandono e della miseria, sotto lo sguardo indifferente di coloro che avrebbero potuto aiutarla e non l’hanno fatto. Nulla valse a farle avere una condanna adeguata alla sua condizione mentale. Lo stato stava per condannarla un’altra volta, per lei il futuro sarebbe stato solo un albero secco, pronto per essere estirpato sotto un cielo fradicio di dolore.

La giuria, infatti, non ebbe dubbi. Riconosciuta colpevole di due efferati omicidi, le fu comminata la pena di morte. A nulla servirono gli appelli e la richiesta di grazia. Evelyn sarebbe dovuta morire.

Fu trasferita nel braccio della morte. Attese 11 anni l’esecuzione della sentenza. Il 3 aprile le fu consegnata la notifica.

“Cara Evelyn – recita la missiva – l'intento di questa lettera è informarla che è stata fissata la data per l'esecuzione della sua condanna a morte (...). Questa lettera costituirà notifica ufficiale (...). Il 7 aprile del corrente anno è la data per la sua esecuzione tramite iniezione letale (…). Cordiali saluti”.

Il 7 aprile 2020 il teatrino della vendetta fu allestito per la recita dell’ultimo respiro di Evelyn. L’iniezione letale era pronta.

L’ago attraversò la sua carne in quel giorno di primavera. Il viso, illuminato da una rossastra luce, non lasciò trasparire emozioni, il tempo per lei si era fermato in un vicolo grondante di sangue.

Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene

“Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio”.

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