MARGOT
Margot aveva 25 anni, era una ragazza dal temperamento penetrante e acuto. Viveva nel quartiere residenziale di una città anonima, costruita al fine di ospitare i più rinomati centri di ricerca ed i migliori talenti. Era circondata da persone gradevoli e garbate, con le quali, tuttavia, non aveva legato molto. Non si era ancora innamorata, nessuno l’aveva ammaliata al punto da farle perdere la testa. Lei sognava il grande amore, quello che si sarebbe impadronito del suo sguardo intrigante, schivo, sofferente, della sua anima e del suo corpo, togliendole il respiro. Come ogni sabato sera era davanti al suo aperitivo. Da qualche anno si recava nello stesso posto dove uno sgabello vecchio stile l’aspettava inquieto e accogliente. Il barista la guardava con aria complice, la salutava con un cenno del capo e le portava “il solito”. Si comprendevano a meraviglia, erano in perfetta sintonia; un’espressione corrucciata o un battito di ciglia diverso dal consueto bastavano per rompere il ghiaccio e cominciare una conversazione. “Margot, come ti gira stasera?” “Non sono serena, una strana agitazione mi pervade, ad ogni passo mi pare di essere sull’orlo di un precipizio, se poi penso al mio futuro il mio stomaco comincia a darmi dei segni di repulsione, mi prende una strana nausea… Sarà il cambio di stagione”. “I tuoi studi come procedono?” “Molto bene, le ultime sperimentazioni hanno rivelato la presenza di particelle vettoriali che si muovono nello spazio producendo energia a risonanza oscura. Il problema è come catturare questa riserva inesauribile che aprirebbe le porte ad una riconfigurazione dei concetti di spazio e tempo”. “Vedrai che troverai una soluzione”. Lei intanto beveva. Il liquido frizzante le scivolava sulla lingua e la rassicurava. Sulle pareti del bicchiere, ormai mezzo vuoto, un alone rossastro le ricordava il deserto e gli amici che l’avevano accompagnata durante la sua prima vacanza al di là del confine a cercare la pace invano. Intorno schiamazzi e risate sguaiate rimbombavano sui muri decorati in stile Art Nouveau, una rarità, pochi locali potevano vantare un ambiente così retrò. Generalmente i luoghi di incontro erano saloni disadorni in cui trascorrere qualche ora attivando il programma olografico preferito. “A cosa stai pensando?” “Qui mi sento a mio agio, il fruscio ondeggiante della musica mi fa tenerezza, assomiglia a quella che ascoltavo nella camera in cui da piccola scrutavo il cielo, immaginando l’Universo ed i suoi segreti. Sono cresciuta nella convinzione che i miei genitori non mi amassero veramente, distratti dalle loro sofisticate indagini sulle neuro-tecnologie e dai loro impegni mondani; poche erano le carezze sulle mie guance, molti i rimproveri che giungevano alle mie orecchie. Ora non ci sono più, se ne sono andati come un sussurro che si spegne”. Due lacrime le solcarono il volto, appoggiandosi sull’abito blu che Margot aveva acquistato in una boutique del centro. “Sai che tutti ti stimano e ti ammirano. Non permettere allo sconforto di avere il sopravvento su di te”. Era tardi. Solo alcune coppiette erano ancora ai tavoli davanti ai video dei loro dispositivi. Si divertivano a seguire le gesta dei protagonisti di antiche serie come Star Trek TOS e Voyager. Margot se ne andò. Assorta nei suoi dubbi, si avviò verso il suo rifugio, il suo lussuoso e confortevole appartamento. Prima di andare a letto, l’attendeva la vasca sonica. Immerse tutta se stessa negli aromi più delicati e armoniosi, abbandonando la sua pelle nell’acqua profumata e seducente, come se volesse perdersi e dimenticare la sua vita. Chiuse gli occhi e, per un istante, ebbe la percezione di aver surfato onde gravitazionali, di essere entrata in contatto con l’antimateria, viaggiando tra stelle, asteroidi e pianeti. Non capiva. La sua memoria sembrava un database in cui erano stampate fotografie di mondi lontani e misteriosi. Un brivido le percorse la schiena. Si asciugò, indossò una vestaglia di seta, si distese sul caldo letto sotto il soffitto che un abile artigiano aveva sapientemente decorato: rappresentava un lungo sentiero in mezzo agli alberi, senza inizio né fine. Si addormentò a fatica, osservando quel viottolo nel bosco che sprofondava nell’abisso.
Il mattino seguente un vento pulsante soffiava tra i suoi lunghi capelli, intorno un via vai di volti infreddoliti. Era stordita e la testa le girava, mentre una calda diafana luce la incoraggiava a camminare con cautela per assaporare i colori silenti del parco che stava costeggiando. Decise di passare quel giorno di riposo tra rose ormai secche e alberi con poche svolazzanti foglie, decimate dall’arrivo dell’autunno. Un cappotto si sedette sulla panchina in cui si era accomodata nella speranza che nessuno la disturbasse. L’uomo, che si nascondeva sotto un cappello a tese larghe, non proferì parola fino a che non manifestò con voce commossa la propria ammirazione per una margherita che, a dispetto della stagione, si aggrappava al ruvido e arido suolo. “Con quanta tenacia resta al suo posto, non si rassegna, lotta, non si arrende, ignara del lamento con cui le querce preannunciano la sua sorte. Presto dovrà andarsene”. Margot ebbe un sussulto: “Andarsene? Dove? E’ un piccolo fiore, si sarebbe semplicemente assopito per ricomparire con la primavera, ai primi canti di gioia del passero e della possente aquila”. Si alzò. L’uomo la trattenne per un braccio. Le sfiorò le labbra con la mano, quasi volesse impedirle di parlare. “Non avere paura, volevo strapparti un sorriso e invece ho ottenuto l’effetto contrario. Sono costernato e mi scuso.” Margot lo fissò con preoccupazione, un tuffo al cuore la fece sobbalzare, percepì di essere in balia di una tempesta di sensazioni che la soffocavano, debole e indifesa, si ritrasse bruscamente. “E’ colpa mia. Qualcosa in me non va...” Si allontanò senza voltarsi indietro. Attraversò la città correndo all’impazzata come se fosse inseguita. Si fermò quando vide la luccicante insegna del suo locale, quello in cui avrebbe sorseggiato l’aperitivo, il suo aperitivo, in compagnia della sua malinconia e del suo fedele barista. “Caspita, hai un aspetto spettrale, sembri uscita da un incubo”. “Dammi da bere, voglio annegare i pensieri sgradevoli che da un po’ mi stanno martoriando. Ti parrà strano, ma ogni volta che mi specchio mi chiedo che cosa mi porti ad essere tanto sospettosa verso coloro che mi avvicinano, a ritenere che questo sia l’unico porto sicuro e tranquillo in cui riposare la fredda tristezza della sera. Forse perché ci sei tu. L’unico con il quale io possa essere quel che sono e ogni turbamento tace”. “Non attribuirmi troppi meriti. Tu sai di essere speciale”. “Io speciale? Io vivo aspettando. So che prima o poi sarò in grado di comprendere la ragione del mio ‘esserCI’. Purtroppo temo che non sarà un momento piacevole”. “Questo pessimismo mi sbalordisce. Hai già sconvolto il mondo con le tue scoperte”. “L’entusiasmo per i miei primi successi si è trasformato gradualmente in rammarico e tormento. Credo di essere intrappolata in un vortice in cui qualcuno guida i miei passi”. Margot pagò il conto. Uscì dalla porta posteriore, quella che le avrebbe consentito di raggiungere più velocemente la sua casa. Imboccò un vialetto in mezzo a due file di lampioni. Il cancello era vicino quando fu avvolta da un improvviso chiarore. Una forza misteriosa l’aveva sfiorata tanto da farla barcollare. Non si mosse per alcuni minuti, poi si fece coraggio, entrò nel giardino con cautela, salì al decimo piano. Non notò nulla di insolito, si portò le mani alla fronte. Si sedette sul divano di velluto vermiglio. La notte la prese e la condusse nell’ombrosa quiete del sonno.
Si presentò all’Accademia di buonora, si mise comoda al suo simulatore ed iniziò a lavorare, ad inserire ed elaborare dati su dati, come faceva sempre. Le formule che stava testando non davano risultati apprezzabili, quando intuì che avrebbe dovuto modificare il flusso del campo vettoriale. Finalmente l’energia a risonanza oscura era stata intercettata. Aveva raggiunto il suo scopo. Il pallido Sole dietro le vetrate si spense. Il vuoto la avvolse, la portò via con sé. Dov’era? Quale dimensione l’aveva risucchiata? Erano domande alle quali non sapeva rispondere. Qualcosa si frapponeva tra lei ed i suoi desideri. Osservò ciò che le stava intorno: le pareva di galleggiare nel mare in tempesta, sentiva i flutti sul suo corpo, vedeva luci in ordine sparso simili a stelle cadenti. Capì di essere in movimento, un relitto pietrificato lanciato nell’Universo a braccare una preda a lei ignota. Cominciò a ripercorrere la rotta che l’aveva portata lì, le onde gravimetriche che aveva superato, le navi spaziali che aveva eluso o distrutto. Si poteva persino dire che era stata brava nello svolgimento del suo compito. “Ogni traguardo era una tappa del mio vagare, chiusa in una realtà virtuale, inconsapevole della posta in gioco. In esilio da me stessa parlavo con il nulla. Davanti agli occhi avevo solo immagini, simulacri. Solo l’angoscia era vera e ricolma di solitudine e di amarezza. Nessuna intelligenza dotata di coscienza avrebbe collaborato alla realizzazione di un piano tanto disumano. Sono stata ingannata”. Questo fu l’ultimo attimo di lucidità, prima che la sua esistenza si fermasse nel crepuscolo immobile di un planetoide in conflitto con la Terra. Avrebbe voluto evitarlo ma non le fu possibile: le sue specifiche di progettazione la spingevano, inesorabilmente, verso il suo obiettivo. L’impatto fu catastrofico. Nulla rimase di quella civiltà. Margot era il nome in codice che gli ingegneri di biorobotica bellica avevano dato alla prima bomba senziente, ideata per affrontare la complessità di missioni interplanetarie. Persa nelle aspre tenebre di una guerra lontana, Margot si sbriciolò in mille brandelli, ma un frammento della sua memoria continuò a vagare per il Firmamento fino a quando si posò sul suolo da cui era partita.