PANDEMIA
Amava camminare per le strade tortuose ed impolverate del paese in cui era nata. Ogni tanto vi si rifugiava per ricaricare le forze ormai allo stremo dopo una vita dedicata ai viaggi spaziali di esplorazione. Trent’anni di duro lavoro le pesavano sulle spalle come un macigno. Avrebbe voluto lasciare le onde gravitazionali che l’avevano accompagnata e cullata dalla giovinezza all’età matura. Ma non poteva, aveva firmato un contratto che la legava al cielo per altri due lustri terrestri. Il suo comandante, un androide dai modi aggraziati, dal fascino seducente e di grande cultura, nei momenti di pausa dalle incombenze della navigazione nel cosmo, rallegrava il suo spirito leggendole le opere degli antichi. Leggeva quei testi come se li avesse scritti lui. Maila ascoltava quelle parole immaginando che prima o poi si sarebbe innamorato di lei.
Era trascorso un mese e la licenza premio era finita. Bisognava imbarcarsi. Le missioni, che erano regolate dalla Confederazione terrestre, non avevano altro scopo che la pura conoscenza dello spazio, nella speranza di trovare altra vita, altri pianeti simili alla Terra, “là dove nessun uomo era mai giunto prima”. Maila si sedette al suo posto accanto al Comandante in attesa del conto alla rovescia. “Come stai?” Le chiese. “Come al solito ... Sono un po’ provata, stanca di avventurarmi verso nuovi mondi sempre più remoti, vagando da un capo all’altro della Galassia. Vorrei fermarmi”. “Vedrai che questo sarà per noi il viaggio più interessante ed intrigante che avremo mai fatto insieme”. Che cosa volesse dire solo un indovino avrebbe potuto svelarlo. Le sfiorò la mano per incoraggiarla. Maila arrossì ed ebbe un attimo di esitazione. Rispose a quel gesto con un sorriso. La meta era un piccolo satellite di un pianeta lontano 200 parsec. Avrebbero passato insieme molti mesi. Questo pensiero le fu di consolazione.
Il leggero fruscio dei motori a propulsione molecolare che inondava gli ambienti dell’astronave era quasi impercettibile. Nessuno prestava attenzione a quel rumore simile al vento tenue in una giornata di primavera. Avevano appena oltrepassato il sistema solare, quando si accorsero che qualcosa era cambiato, il suono era diverso, discontinuo. Improvvisamente un tonfo rimbombò nei corridoi e nelle cabine, scuotendo la consueta tranquillità. Mentre l’allarme echeggiava come i flutti del mare sulla battigia, la strumentazione di bordo sembrava impazzita. Erano stati colpiti da un oggetto che si era disintegrato. Quando i dispositivi ricominciarono a funzionare, un silenzio oscuro si posò su di loro. Il comandante chiese a tutti di mantenere la calma. “Ognuno alle proprie postazioni, riprendiamo la rotta. Quello che è accaduto è molto strano, ma sembra che tutto sia in ordine. Faremo comunque una minuziosa ispezione dei motori e dello scudi ipergolici”. Maila era tra gli ingegneri la più anziana. La sua esperienza la spingeva a non sottovalutare quell’anomalia. Volle sovrintendere personalmente a tutte le attività di verifica. Non fu rilevato nulla di irregolare. Nessuno aveva fatto caso ad un esserino che girava indisturbato sulla consolle di controllo e che si era accovacciato tra i pulsanti. Da lì poteva osservare l’andirivieni di persone la cui animazione e preoccupazione lo stupiva. “Non si sono accorti di me, né della mia truppa che si annida dovunque. Devo comunicare con questa specie mai vista prima d’ora”. Una voce si insinuò nella testa del comandante, l’unico con un cervello positronico-quantistico in grado di decodificare alfabeti sconosciuti. “C’è qualcuno”. Disse con una certa agitazione. “Sento dei segnali che non riesco a decifrare, ma sono sicuro: c’è qualcuno”. Improvvisamente si sovrappose un’altra sensazione sgradevole, come se ci fosse un pericolo imminente da cui difendersi. Si girò dalla parte di Maila: la vide piegarsi sulle ginocchia. Fu portata in infermeria. Aveva le pupille molto dilatate, respirava a fatica e non riusciva a muovere correttamente lingua e labbra, era come paralizzata; anche gli altri membri della squadra, che si erano recati con lei a testare i motori, rivelarono gli stessi sintomi. Il medico di bordo non sapendo dare una spiegazione, interrogò il data base sanitario per rintracciare casi simili. Il risultato fu deludente, solo un piccolo accenno ad un virus che aveva colpito la Terra nel XXI secolo.
Nel frattempo l’esserino dalla consolle notava il disorientamento generale. “Devo trasmettere con maggiore chiarezza le nostre intenzioni. Vogliamo solo un passaggio”. Niente, il Comandante percepiva la presenza di una entità aliena ma, per quanto si sforzasse, quel rantolio confuso era una porta chiusa. Per la prima volta nella sua lunga esistenza la razionalità lo stava abbandonando. Era avvilito e turbato. Ma non poteva perdere la concentrazione. Radunò tutti gli ufficiali e i sottufficiali. Furono organizzati turni molto serrati di sorveglianza e di perlustrazione. Come le foglie in autunno cadono una dopo l’altra inesorabilmente, così accadde che in poche ore tutti furono colti da malori e portati nella cabina medica. Gli umani erano allo sbando, sgomenti, impauriti da ciò che li stava travolgendo. Maila era morente e gli altri l’avrebbero presto seguita.
Gli esseri che si erano nascosti in ogni angolo della nave intergalattica avevano portato con sé l’infezione da cui erano fuggiti. Profughi inermi non potevano bloccare quello che avevano inconsapevolmente causato nel tentativo di approdare in un pianeta dove edificare una nuova Patria. Solo il comandante poté sopravvivere, ma le sue reti neurali erano state fortemente compromesse. Seduto sulla sua poltrona girevole, ricordava a sprazzi gli avvenimenti che avevano causato la morte dei suoi uomini. L’istinto lo spinse a non atterrare in nessun pianeta per non diffondere l’ignota malattia che aveva decimato il suo equipaggio.
Errò senza una meta per un tempo indefinito, finché un buco nero lo risucchiò portando con sé gli incauti ospiti.