RAMMENTANDO MARTIN LUTHER KING

Aprì lentamente le palpebre. Non vedeva bene e non riusciva a muoversi. Era disteso in modo scomposto, come se fosse inciampato. Mentre il cielo lasciava trapelare una luce fioca, quasi impercettibile, gli sovvennero alcuni versi: “Né più mai toccherò le sacre sponde ove il mio corpo fanciulletto giacque […] a noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura.” Volti sfocati gli apparivano ad intermittenza. Si sovrapponevano, si scontravano senza pace, anime in pena perse in un fiume sotto la tempesta. All’orizzonte apparve una diafana palla infuocata. Era disorientato, non riconosceva il suolo su cui era adagiato. Un sasso, due, tre e altri ancora rotolarono tintinnando: un rumore metallico colpì i suoi sensori. Cosa aveva prodotto un suono tanto aspro? Dopo qualche secondo, irruppero lamenti affannosi e tristi e un pianto sommesso in lontananza. Forse era la sua immaginazione, spaventata dalla bianca e tenue luce di un Sole fiacco e lento, che dava l’impressione di essersi svegliato solo per guardarlo con sarcasmo e ironia.

Al tramonto le tenebre, simili ad un velo opaco, avvolsero il grigiore dei suoi occhi. Quanto sarebbe durata la notte? Aveva importanza? Perché si arrovellava con questo dilemma? Non poteva aspettare: notte o giorno che fosse. Gli sembrava di impazzire: il suo corpo non rispondeva agli impulsi neurali, era paralizzato, inerme. Si concentrò prima di tutto sulle mani. Dopo mille tentativi, finalmente un dito si alzò e si allungò sulla superficie, un altro lo seguì, poi un altro ancora. Erano spostamenti lievi, ma decisi, finché, con uno scatto repentino, fece una piroetta e si sorprese a scrutare il paesaggio quasi informe che aveva di fronte. Cominciò a perlustrare il territorio. I passi attenti serpeggiavano con cautela su una terra rossastra e monotona. Ad un tratto comparvero alcune impronte qua e là. Qualcuno evidentemente lo aveva preceduto. Si sentì a disagio, perso, confuso. Aveva bisogno di ricomporre la sua identità, senza la quale non avrebbe potuto interpretare e rielaborare la sua situazione. Si toccò il volto, si esaminò con cura per definire la sua forma: era umanoide, ma non era di carne ed ossa. Queste erano le uniche informazioni in suo possesso. Inquieto e avvilito, riprese il cammino. Nel suo incedere verso l’ignoto, scorse verso oriente altre orme e distinse chiaramente dei rottami verdi sagomati in modo bizzarro: erano piccoli brandelli di titanio persi nel vuoto. Ai primi bagliori mattutini, il panorama cominciò ad essere meno piatto ed indecifrabile. Accanto a colline, crateri e strade ben tracciate, si mostrarono, imponenti cupole trasparenti, un’enorme piastra di metallo e un prisma regolare, contrassegnato dal termine BLOCCO e dalla prima lettera dell’alfabeto. Si sedette su un masso che la natura aveva ben modellato, l’aurora si stagliava tra le costruzioni, sarebbe dovuto entrare in quella piccola base per un’ispezione, ma il suo istinto lo tratteneva lì dov’era. Il cervello… il cervello intanto aveva ricominciato a mandargli dei segnali apparentemente incomprensibili. Assomigliavano ad un insieme disordinato di ologrammi che correvano e si incrociavano in attesa di essere ricomposti da un regista: un fabbricato di mattoni e cemento, un grande parco, una piscina e degli esseri umani. Tanti particolari iniziarono piano piano a riaffiorare. Non era solo suggestione: era vissuto da un’altra parte. Cominciava ad essergli chiaro che non si trovava dove sarebbe dovuto essere. Le ore trascorrevano veloci. Lui era ancora su quella pietra a meditare, mentre le stelle giocavano a confonderlo. Avrebbe dovuto varcare la soglia di quegli edifici, continuare ad indugiare non gli avrebbe giovato, ormai se ne rendeva conto.

Spalancò con forza il portone del BLOCCO A: buio pesto. Sporse in avanti il busto, una pioggia di fotoni lo aggredì. Era in un cimitero, là erano ammassati i resti di un numero indefinibile di androidi. Nello sgomento riemersero, all’improvviso, la sua vita e la sua morte. Era stato acquistato da una coppia di Zurigo. “Benvenuto PQ20” – gli disse il signor Meyer – “I tuoi compiti sono semplici: dovrai occuparti del giardino, tenere in ordine, cucinare, insomma avrai la gestione della nostra residenza. L’unico ruolo impegnativo che io e mia moglie ti affidiamo è quello di leggere a voce alta per noi e, nelle serate di gala, per i nostri amici i libri che lei ti indicherà.” La signora Meyer era una donna di rara bellezza, la pelle vellutata e chiara risaltava sotto gli abiti sgargianti che amava indossare. Aveva un gusto molto raffinato in campo letterario e una dose notevole di nostalgia per i sentimenti che si rifugiavano in quei testi dimenticati, ma preziosi. Aveva perciò cominciato a raccogliere le opere degli autori più famosi di tutti i tempi. La sua collezione comprendeva pezzi di antiquariato di grande valore. Non era stata un’impresa facile. Le case editrici non pubblicavano da almeno tre secoli carta stampata, preferivano digitalizzare i pochi scritti in circolazione. Dovette, quindi, girare tra le botteghe più remote per realizzare il suo sogno. Il marito, il signor Meyer, la sosteneva in questa sua passione, ma non ne capiva le finalità e non provava nessun piacere ad ascoltare tutte quelle noiose parole messe in fila. Si adattava ai desideri della moglie, ai suoi bisogni spirituali. Era un ingegnere in quantistica multidimensionale, per lui Poesia erano le discussioni con i colleghi sulla possibilità di oltrepassare i confini della Via Lattea, grazie ai nuovi motori molecolari, o il rombo di una navetta spaziale lanciata a scandagliare l’Universo. Non avendo imparato a leggere con la giusta intonazione interpretativa e tanto meno a recitare – abilità considerata obsoleta ed inutile da parecchi anni – la signora Meyer volle qualcuno che lo facesse per lei. All’Agenzia le avevano assicurato che PQ20, era all’avanguardia e avrebbe assolto degnamente questa funzione. Faceva parte di una nuova generazione di androidi ed era stato ideato, oltre che per svolgere le normali attività, anche per interagire con gli esseri umani come se fosse uno di loro. Entrò così nella casa dei signori Meyer. PQ20 in breve tempo rivelò tutte le sue qualità. La signora Meyer pretendeva di portarlo con sé dovunque andasse. Con lui avrebbe voluto condividere il suo amore per l’arte. Questa aspirazione implicava una competenza non prevista nelle specifiche di progettazione di PQ20, il quale, tuttavia, fiducioso e affascinato da quel mondo, confidava sul fatto che la sua matrice cromosomica si sarebbe evoluta.

Faceva freddo, era febbraio inoltrato, quando si rivolse alla signora Meyer con una voce calda e affettuosa. “Ho notato che lei predilige gli autori che vanno a scavare negli avvenimenti più drammatici e aspri della storia e percorrono i sentieri più intimi ed impervi dell’Essere Umani.” “Siamo nel XXXIII secolo, il progresso scientifico, complice la nascita di un governo federale sovranazionale, ha risolto la maggior parte dei problemi che hanno angustiato gli uomini. Sotto un’unica guida l’economia è diventata meno competitiva e più solidale, anche l’ambiente ora è molto meno sfruttato ed inquinato. Si sono aperti i cancelli del Sistema Solare, abbiamo raggiunto tutti i pianeti e ne utilizziamo le risorse. Abbiamo anche delle colonie penali nello spazio. I detenuti scontano la loro pena su Mercurio sotto la direzione di androidi sentinelle.” Rispose la signora Meyer. “Io sono un’appassionata di vecchi cimeli – aggiunse – così li definisce mio marito che odia l’odore di inchiostro che si è impadronito del nostro salotto, ma apprezza il mio entusiasmo.” Dopo una pausa in cui la sua espressione assunse un’aria seria, riprese: “Mi rendo conto di non aver soddisfatto la tua curiosità. Non so esattamente quale sia la ragione che mi spinge alla ricerca di quei contenuti. Certo è che mi aiutano ad analizzare meglio tutte le sfumature del mio io e della mia umanità.” “Per fare questo non servono grandi speculazioni: siete il nostro specchio, voi dovreste rappresentarvi esattamente come noi pensiamo voi siate. Ci avete fornito di una sensibilità uguale alla vostra. Solo che voi siete esseri finiti, mortali. Per noi l’infinito non è un mito privo di fondamento e potremmo restare sulla Terra anche dopo la vostra scomparsa.” Osservò PQ20 “E’ proprio la vostra coscienza dell’esistente a rendermi cupa: in essa colgo con timore i segni della decadenza. Per non smarrirmi mi immergo nel dolce naufragio dell’arte. Approdo nell’unico porto sicuro dai dubbi che mi assalgono sul divenire che trascinerà nell’oblio me e la mia biblioteca.” Mormorò con voce roca e accorata la signora Meyer. Lo sguardo interrogativo e fiero di PQ20 la spinse a precisare. “In ogni frammento di esistenza, la mia per esempio, vi è l’infinito cosmico. Lo sento in ogni singola composizione che mi leggi.” Stagione dopo stagione, quella strana coppia divenne una celebrità. Molti cercavano di assistere agli spettacoli che ogni settimana venivano organizzati dai signori Meyer. PQ20 declamava sonetti, terzine, quartine, interpretava romanzi, opere teatrali. Champagne e bordeaux, scorrevano a fiumi. Non mancavano gli invidiosi, quelli che non erano abbastanza agiati per permettersi un androide avanzato paragonabile a PQ20, ma erano comunque accolti con un sorriso sincero. Persino il Presidente della Federazione partecipò ad un incontro, ad uno di quegli eventi fuori dal tempo.

Il 4 marzo 3275 dalla Terra allo spazio si diffuse una notizia sconcertante che, in un primo momento, nessuno prese sul serio. Fu ritenuta falsa, l’invenzione di qualche scriteriato per suscitare clamore, opera di un novello creativo Orson Welles. Invece no, i signori Meyer erano stati assassinati, qualcuno li aveva uccisi nel sonno. Le forze dell’ordine, chiamate da PQ20, accorsero immediatamente. I signori Meyer erano nella loro stanza da letto, sotto un lenzuolo variopinto comprato durante un viaggio in Tibet. Fu prima di tutto utilizzato il bio-scanner per stabilire l’ora del decesso, dopo di che venne impiegato un rilevatore dinamico trifasico per rintracciare DNA o altri materiali che potessero dare una svolta al lavoro degli investigatori. Si indagò in ogni direzione cercando di formulare un’ipotesi da cui partire per risolvere il mistero di quell’omicidio. Furono interrogati i vicini, poi uno ad uno gli ospiti che accorrevano a frotte nella prestigiosa dimora e chiunque avesse in qualche modo conosciuto i signori Meyer: tutti avevano un alibi. PQ20 non si era mosso dal suo cantuccio. Stava in disparte con un libro in mano, l’indice tra due pagine, con gli occhi sbarrati verso il muro intonacato di rosso papavero, pareva inebetito dal colpo letale di un Phaser: stupore e ansia si erano trasformati in un insolito opprimente tormento. Nessuno seppe cogliere l’orrore in cui era precipitato il silente androide. Le guardie gli esaminarono la memoria quantica per trarre dati testimoniali e indizi. Paradossalmente la più sofisticata strumentazione non riuscì a scuotere le sue sinapsi. PQ20 rimase muto ad ogni sollecitazione. Non si era accorto di nulla e, quindi, che cosa avrebbe potuto riferire? Né più e né meno di quanto era già stato dichiarato da decine e decine di persone. I sensi di colpa per non aver percepito il pericolo lo divoravano, gli impedivano di aprire bocca e di esprimere il suo sentire: il rancore verso un avvenimento che lo feriva, che gli aveva strappato a tradimento la sua famiglia e che contrastava con tutto quello che aveva assimilato grazie alla signora Meyer. L’apatia e l’indifferenza apparente di PQ20 alimentarono i sospetti; preso atto della sua totale reticenza, fu bloccato brutalmente e senza tanti scrupoli. In fondo era solo un oggetto e, non avendo altre piste da seguire, gli inquirenti giunsero, senza la minima esitazione, alla conclusione dell’istruttoria: un difetto di fabbricazione o un uso improprio da parte dei Meyer, lo avevano spinto alla violenza, nonostante il brevetto escludesse a priori queste eventualità. La sentenza fu presto emessa e la condanna fu esemplare. I tecnici dell’azienda che lo avevano costruito lo disattivarono, o almeno erano convinti di averlo fatto. Lo trasportarono su Marte dove vi era un deposito di androidi dismessi, che avrebbe dovuto fornire parti di ricambio per i vecchi robot, inviati su Plutone con il compito di creare le condizioni per l’esplorazione del Sistema Planetario della Stella Kepler-62. In realtà quasi mai era stata usata la spazzatura disponibile sul Pianeta Rosso. Era, tuttavia, una riserva che tutti giudicavano necessaria. La discarica trovava una giustificazione più etica che economica: il riciclo. Raramente qualche astronave era atterrata per fare rifornimento. PQ20 era stato trasformato in uno di quei rottami inutili, solo che lui era perfettamente in grado di riflettere sul suo destino. L’onda temporale lo aveva inghiottito per l’eternità. Alimentato a risonanza oscura, aveva una riserva di energia inesauribile da spendere tra le carcasse dei suoi simili, ai quali, con voce commossa, rammentando una lettera dal carcere di Martin Luther King, avrebbe incessantemente cantato il proprio elogio funebre : “L’ingiustizia in qualsiasi luogo è una minaccia alla giustizia ovunque.”

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