Il popolo
Fichte / Testi
Nell'ottavo dei suoi Discorsi alla nazione tedesca Fichte presenta la sua idea del popolo come entità spirituale.
L’impulso dell’uomo, cui si può rinunciare solo in caso di vera necessità, è di trovare il cielo già su questa terra, e di immettere ciò che dura in eterno nella sua opera terrena quotidiana; è di piantare e di coltivare nel tempo ciò che non passa – di non essere collegato all’eterno in modo incomprensibile e solo attraverso un baratro inaccessibile a occhio mortale, bensì in un modo visibile all’occhio mortale stesso. Vorrei fare un esempio banale. Quale uomo di animo nobile non vuole e non desidera ripetere di nuovo, in modo migliore, la sua vita personale nei suoi figli e poi ancora nei figli di questi? E sopravvivere ancora a lungo su questa terra dopo la morte, in modo più nobile e perfetto, nella vita di costoro? [...] Ora, che cosa potrebbe fornire garanzia a questa esortazione e a questa fede dell’uomo nobile nell’eternità e immortalità della sua opera? Evidentemente, solo un ordine delle cose che egli potesse riconoscere per se stesso eterno, e capace di accogliere in sé l’eterno. Ma un siffatto ordine è la particolare natura spirituale dell’ambiente umano, che certo non si può afferrare in un concetto, ma pure è veramente presente, dalla quale è sorto egli stesso con tutto il suo pensare e il suo fare, e con la sua fede nella loro eternità; è il popolo da cui egli proviene e tra cui è stato formato, sino a divenire ciò che egli è adesso. [...] La fede dell’uomo nobile nell’eterna durata della sua efficacia anche su questa terra si basa dunque sulla speranza nell’eterna durata del popolo da cui egli stesso si è sviluppato, e della sua peculiarità in accordo con quella legge nascosta; senza mescolanza e corruzione da parte di qualunque cosa sia estranea e non pertinente al tutto di questa legislazione. Questa peculiarità è l’eterno al quale egli affida l’eternità di se stesso e del suo progressivo operare, l’eterno ordine delle cose, in cui egli ripone il suo eterno; egli deve volere la sua durata, poiché soltanto essa è per lui il mezzo di liberazione, mediante cui il breve lasso di tempo della sua vita quaggiù può prolungarsi in una vita duratura quaggiù. La sua fede e il suo sforzo di piantare qualcosa che non passi; il suo concetto, in cui egli coglie la sua vita personale come vita eterna, sono il vincolo che congiunge a lui nel modo più intimo dapprima la sua nazione, e per mezzo di essa l’intero genere umano, e che introducono nel suo cuore allargato i bisogni di tutti gli uomini, sino alla fine dei giorni. [...] La vita, come nuda vita, come continuazione dell’esserci mutevole, per lui comunque non ha mai avuto valore, egli l’ha voluta soltanto come sorgente di ciò che dura; ma questa durata gli viene promessa solo dal fatto che la sua nazione continui a esistere in modo indipendente; per salvare questa, egli deve essere disposto anche a morire, perché essa viva, ed egli viva, in essa, l’unica vita che abbia mai desiderato. Così è. L’amore, che sia veramente amore, e non semplicemente un’attrazione passeggera, non si appunta mai su qualcosa di transeunte, ma si risveglia e si accende e riposa soltanto nell’eterno. L’uomo non può amare nemmeno se stesso, a meno che non si colga come un che di eterno; altrimenti non può nemmeno rispettarsi, né approvarsi. Ancora meno egli può amare qualcosa al di fuori di sé, a meno di non accoglierlo nell’eternità della sua fede e del suo animo, e di collegarlo a questi. Chi innanzitutto non scorge sé come eterno, questi in generale non ha amore, e dunque non può neppure amare una patria, che per lui non esiste. Chi magari scorge come eterna la sua vita invisibile, ma non altrettanto la sua vita visibile, costui può ben avere un paradiso e in esso la sua patria, ma quaggiù egli non ha alcuna patria, poiché anche questa viene scorta solo sotto l’immagine dell’eternità, e precisamente dell’eternità visibile e resa sensibile, e perciò neppure lui può amare la sua patria. Egli deve essere compianto, se non gliene è stata tramandata alcuna; ma a chi essa è stata tramandata, nell’animo del quale si compenetrano cielo e terra, visibile e invisibile, creando soltanto così un cielo vero e compatto, costui lotta fino all’ultima goccia di sangue, per trasmettere ancora una volta il caro possesso, intatto, alla posterità.
J. G. Fichte, Discorsi alla nazione tedesca, a cura di Gaetano Rametta, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 112-115.
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- Colloca politicamente questa concezione di Fichte. Alla luce delle concezioni politiche attuali, ti sembra di destra, di centro o di sinistra?