Symposium

Laboratorio di filosofia

Descartes / Testi

In questo passo notissimo del Discorso sul metodo Cartesio giunge alla verità di base del suo sistema filosofico: il cogito.

Avevo notato da tempo, come ho già detto, che in fatto di costumi è necessario qualche volta seguire opinioni che si sanno assai incerte, proprio come se fossero indubitabili; ma dal momento che ora desideravo occuparmi soltanto della ricerca della verità, pensai che dovevo fare proprio il contrario e rigettare come assolutamente falso tutto ciò in cui potevo immaginare il minimo dubbio, e questo per vedere se non sarebbe rimasto, dopo, qualcosa tra le mie convinzioni che fosse interamente indubitabile. Così, poiché i nostri sensi a volte ci ingannano, volli supporre che non ci fosse cosa quale essi ce la fanno immaginare. E dal momento che ci sono uomini che sbagliano ragionando, anche quando considerano gli oggetti più semplici della geometria, e cadono in paralogismi, rifiutai come false, pensando di essere al pari di chiunque altro esposto all'errore, tutte le ragioni che un tempo avevo preso per dimostrazioni. Infine, considerando che tutti gli stessi pensieri che abbiamo da svegli possono venirci anche quando dormiamo senza che ce ne sia uno solo, allora, che sia vero, presi la decisione di fingere che tutte le cose che da sempre si erano introdotte nel mio animo non fossero più vere delle illusioni dei miei sogni. Ma subito dopo mi accorsi che mentre volevo pensare, così, che tutto è falso, bisognava necessariamente che io, che lo pensavo, fossi qualcosa. E osservando che questa verità: penso, dunque sono, era così ferma e sicura, che tutte le supposizioni più stravaganti degli scettici non avrebbero potuto smuoverla, giudicai che potevo accoglierla senza timore come il primo principio della filosofia che cercavo.

Illustra i passaggi logici del ragionamento di Descartes, numerandoli.

Bacone / Testi

Nel secondo capitolo dell'opera Il parto maschio del tempo Bacone attacca la tradizione filosofica occidentale.

Pertanto si chiami alla sbarra Aristotele, il peggiore dei sofisti, stordito dalla sua propria inutile sottigliezza, vile ludibrio delle parole. Quando lo spirito umano, spinto per caso come da un vento favorevole verso una qualche verità, sembrava in essa riposarsi, costui osò imporre agli spiriti ostacoli gravissimi, osò mettere insieme una specie di arte della irragionevolezza e ci rese schiavi delle parole. Dal suo seno sono stati generati e hanno tratto nutrimento quei cavillosi chiacchieroni che, essendosi allontanati da ogni indagine mondana e dalla luce della storia e dei fatti, son giunti, con l’aiuto della duttile materia dei precetti e delle tesi di costui e grazie al perpetuo agitarsi del loro spirito, a porre di fronte a noi gli innumerevoli cavilli della Scolastica. E il loro dittatore, Aristotele, è tanto più colpevole proprio perché, essendosi volto alle aperte ricerche della storia, ne ha tratto gli oscuri idoli di una qualche sotterranea spelonca, e, sopra la storia dei fatti particolari, ha costruito certe ragnatele che egli presenta come cause mentre son prive di ogni consistenza e valore. [...]

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Seneca / Testi

Nella prima delle Lettere a Lucilio Seneca riflette sull'importanza di gestire con cura il proprio tempo.

Fai così, o mio Lucilio: renditi padrone di te stesso e il tempo che finora ti era portato via con la forza o sottratto con la frode o che ti sfuggiva di mano raccoglilo e conservalo. Persuaditi, succede proprio come ti scrivo: certi momenti ci sono tolti con brutalità, altri presi subdolamente, altri ancora si disperdono. Però lo spreco più vergognoso è quello provocato dall’incuria. E se avrai la compiacenza di prestare attenzione, bada: la maggior parte della vita se ne va mentre operiamo malamente, una porzione notevole mentre non facciamo nulla, tutta quanta la vita mentre siamo occupati in cose che non ci riguardano. Mi indicherai un uomo che attribuisca un valore effettivo al tempo, che sappia soppesare ogni giornata, che si renda conto di morire ogni giorno? Sbagliamo, infatti, in questo: che ravvisiamo la morte innanzi a noi; ebbene: una gran parte della morte appartiene già al passato.

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Telesio/ Testi

In questo passo del De rerum natura juxta propria principia Bernardino Telesio presenta il metodo del suo lavoro

La struttura del mondo e la natura dei corpi in esso contenuti non devono essere indagate per mezzo della ragione, com'è stato fatto dagli antichi, ma devono essere percepite con il senso e ricavate dalle cose stesse.

Coloro i quali prima di me hanno scrutato la struttura di questo mondo e la natura delle cose paiono averle investigate certamente con lunghe veglie e grandi fatiche, ma senza riuscire ad osservarle realmente. Che cosa infatti si può ritenere che abbiano conosciuto di esse, se tutte le loro argomentazioni contrastano con le cose e sono anche contraddittorie? Pare in realtà che in ciò siano incorsi per il fatto che, avendo forse troppa fiducia in se stessi, quando hanno esaminato le cose e le loro forze, non hanno ascritto ad esse quella natura e quelle facoltà delle quali appaiono fornite (come era necessario fare), ma, gareggiando in sapienza con Dio nell'osare ricercare con la ragione i principi e le cause del mondo, e credendo e pretendendo di aver trovato ciò che non avevano trovato, hanno immaginato il mondo a loro arbitrio.

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Hegel/ Testi

La certezza sensibile è il primo momento della Coscienza, la prima delle “figure” della Fenomenologia dello Spirito hegeliana.

Sulla base della concretezza del suo contenuto, la certezza sensibile appare immediatamente come la conoscenza più ricca, anzi, come una conoscenza infinitamente ricca: infatti, non ci sembra possibile porle né un limite esterno, nello spazio e nel tempo in cui essa si dispiega, né un limite interno, nella divisione in parti di un qualsiasi frammento di questa pienezza. Inoltre, essa appare come la conoscenza più vera, in quanto non ha ancora trascurato nulla dell’oggetto, ma lo ha piuttosto davanti a sé in tutta la sua integrità e completezza. Di fatto, però, tale certezza si rivela proprio come la verità più astratta e più povera. Il suo sapere si riduce soltanto all’enunciazione: “esso è”, e la sua verità contiene unicamente l'essere della Cosa. In questa certezza, da parte sua, la coscienza è soltanto puro lo o meglio: Io sono solo un puro Questo, e, analogamente, anche l’oggetto è solo un puro Questo. Io, questo, sono certo di questa Cosa, non perché Io mi sia sviluppato come coscienza e abbia messo variamente in moto dei pensieri, né perché la Cosa di cui sono certo avrebbe in se stessa, secondo una moltitudine di caratteri distinti, una ricchezza di rapporti, oppure perché sosterrebbe un insieme di molteplici comportamenti verso altre cose.

G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, a cura di Vincenzo Cicero, Rusconi, Milano 1995, I, 1, p. 169.

Cusano / Testi

All'inizio del primo capitolo di La dotta ignoranza Cusano introduce il concetto che sarà al centro dell'opera riflettendo sulle caratteristiche della conoscenza.

Vediamo che in tutti gli esseri è presente, per dono di Dio, un certo desiderio naturale di esistere nel modo migliore consentito dalla condizione che è propria della natura di ciascuno di essi. E vediamo che tutti gli esseri agiscono a questo fine e hanno i mezzi a ciò adatti. [...] E se le cose vanno per caso in modo diverso, ciò è dovuto senz’altro a cause accidentali, come quando una malattia corrompe il gusto o un’opinione svia la ragione. Per questo motivo, diciamo che un intelletto che sia sano e libero conosce ed abbraccia con amore quelle verità che anela insaziabilmente di raggiungere mediante l’indagine che va conducendo su ogni cosa con il procedimento discorsivo che gli è insito; e non abbiamo alcun dubbio sul fatto che la verità più sicura sia quella da cui ogni mente che sia sana non può dissentire. Tutti coloro che conducono un’indagine, tuttavia, giudicano le cose incerte in modo proporzionale, mediante cioè una comparazione con qualcosa che viene presupposto come certo. Ogni ricerca, pertanto, ha carattere comparativo e impiega come mezzo la proporzione. Ora, quando le cose che vengono ricercate possono essere comparate con un presupposto certo e ricondotte proporzionalmente ad esso per una via breve, allora il giudizio formulato dalla nostra conoscenza è facile. Quando, invece, abbiamo bisogno di molti passaggi intermedi, allora insorgono difficoltà e il procedimento diventa più faticoso. [...]

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Pitagora. Le poche notizie storiche sulla vita di Pitagora sono immerse nella leggenda. Nato nell’isola greca di Samo, non lontana dalla costa turca, intorno al 570 a.C., sarebbe stato allievo di Ferecide di Siro, considerato uno dei sette sapienti greci. La tradizione riferisce di viaggi di formazione in Egitto e presso i Caldei (un popolo semitico della Mesopotamia) e i Magi, grazie ai quali avrebbe appreso le scienze, ma anche le più segrete dottrine religiose. Più attendibile è la notizia di un suo trasferimento a Crotone, in Calabria, dovuto alla sua insofferenza verso il potere del tiranno locale Policrate; qui fondò una scuola filosofica che ebbe grande successo anche politico e si diffuse in tutta la Magna Grecia, ma per ragioni non del tutto chiare incontrò una opposizione il cui momento culminante fu il massacro di molti filosofi con l’incendio di una casa nella quale erano riuniti. È incerto se ciò sia avvenuto prima o dopo il trasferimento di Pitagora a Metaponto, dove morì. Secondo la studiosa Maria Timpanaro Cardini questo massacro fu causato dai cambiamenti politici seguiti alla guerra vittoriosa contro Sibari, quando il ceto popolare aspirava ad un cambiamento democratico e ad una distribuzione delle terre, e individuava nei pitagorici un influente gruppo vicino agli aristocratici.

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Le fonti. Per conoscere un filosofo bisogna leggerne gli scritti, che costituiscono le fonti primarie per lo studio del suo pensiero. Questo tuttavia non è sempre possibile, sia perché può succedere (a dire il vero di rado) il filosofo non abbia lasciato scritti, sia, più frequentemente, perché i suoi scritti sono andati perduti del tutto o in parte. In questo caso bisogna ricorrere a fonti secondarie, ossia ad altri autori che hanno parlato del suo pensiero. A volte questi autori sono molto vicini al filosofo, e dunque la conoscenza del suo pensiero è diretta, e tuttavia c’è sempre il rischio che lo riferiscano in modo non del tutto fedele. Socrate, ad esempio, non ha scritto nulla; sappiamo di lui attraverso i suoi discepoli Senofonte e Platone, che però presentano il suo pensiero e la sua figura in modi molto diversi. Vi sono poi autori che hanno cercato fin dall’antichità di delineare la storia della filosofia greca, parlando di pensatori che già per loro erano antichi. Aristotele ci offre molte informazioni preziose sui filosofi che lo hanno preceduto, ma la fonte antica più importante per lo studio della filosofia greca è Diogene Laerzio (180-240) che nelle sue Vite e dottrine dei più celebri filosofi ricostruisce il cammino del pensiero greco dalle origini ad Epicuro, fornendoci informazioni preziosissime.

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Epicuro / Testi

Nella famosa Lettera a Meneceo, nota anche come Lettera sulla felicità, il filosofo tratta i temi fondamentali della sua etica: la felicità come fine, la concezione degli dei, l'importanza dei piaceri e di una loro scelta intelligente.

[La filosofia] Non indugi il giovane a filosofare, né il vecchio se ne stanchi. Nessuno mai è troppo giovane o troppo vecchio per la salute dell'anima. Chi dice che l'età per filosofare non è ancora giunta o è già trascorsa, è come se dicesse che non è ancora giunta o è già trascorsa l'età per la felicità. Devono filosofare sia il giovane sia il vecchio; questo perché, invecchiando, possa godere di una giovinezza di beni, per il grato ricordo del passato; quello perché possa insieme esser giovane e vecchio per la mancanza di timore del futuro. Bisogna dunque esercitarsi in ciò che può produrre la felicità: se abbiamo questa possediamo tutto; se non la abbiamo, cerchiamo di far di tutto per possederla. [...]

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Anselmo d'Aosta / Testi

In questo passo notissimo del Proslogion Anselmo sviluppa la sua prova ontologica dell'esistenza di Dio.

Dunque, o Signore, tu che dai l’intelligenza alla fede, concedimi di comprendere, per quanto sai che mi possa giovare, che tu esisti come crediamo che sei quello che noi crediamo. E davvero noi crediamo che tu sia qualcosa di cui non si possa pensare nulla di più grande. O forse non vi è una tale natura, perché “disse l’insipiente in cuor suo: Dio non esiste” [1]? Ma certamente quel medesimo insipiente, quando ascolta ciò che dico, cioè “qualcosa di cui non si può pensare nulla di più grande”, comprende ciò che ode; e ciò che comprende è nel suo intelletto, anche se egli non intende che quella cosa esista.

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