Parlare L'Albero

Non c’è l’ombra di dubbio che questi siano anni molto complicati. Delle tante crisi, sociali, economiche, sanitarie, ambientali ed umane, devo purtroppo aggiungercene una strettamente personale, certo minuscola se comparata al quadro generale, ma che ha messo in crisi il mio modo di vedere e di agire.

Tutto è cominciato con un libro, il più interessante che ho letto quest’anno, “Miti d’oggi” di Roland Barthes; un saggio in cui si analizza la società di massa degli anni cinquanta. Sotto la lente dell’autore, gli oggetti della vita quotidiana e dei media diventano la chiave di lettura per capire il suo tempo e la società a lui coeva. Sintetizzando all’estremo, per Barthes, il mito non sta nelle cose in sé ma nel modo in cui esse vengono comunicate, un principio tipico della cultura di massa che tende a “trasformare il culturale in naturale”, l’opinione in fatto, il discorso in certezza. Ciò che è artificialmente costruito diventa, attraverso la comunicazione di massa, qualcosa che ci appartiene indissolubilmente.

Così un’automobile assume la potenza di una cattedrale gotica, Charlot diventa una riflessione sul senso del socialismo, la copertina di una rivista riassume l’imperialismo colonialista francese, e così via…

È proprio Barthes che, con il suo libro di semiologia e di discorso, mi ha messo in crisi, soprattutto quando parla del mito come parola politica, come discorso ed azione:

Se sono un boscaiolo e mi trovo a nominare l’albero che abbatto, qualunque sia la forma della frase, io parlo l’albero (corsivo mio), e non su di esso. Ciò significa che il mio linguaggio è operativo, legato al proprio oggetto in maniera transitiva: tra l’albero e me non c’è niente oltre al mio lavoro, cioè un atto. Esso rappresenta la natura solo nella misura in cui mi accingo a trasformarla, è un linguaggio mediante il quale agisco l’oggetto: per me l’albero non è un immagine, è semplicemente il senso del mio atto. Ma se non sono un boscaiolo non posso parlare l’albero, posso solo parlare di esso, su di esso; il mio linguaggio non è più lo strumento di un albero agito […] Con l’albero ho solo un rapporto intransitivo. (R.Barthes)

Ho sentito il dubbio scendere a valle come una valanga pronta a travolgere ogni cosa sulla sua strada. Di cosa ho scritto nei miei articoli? Di cosa posso parlare per risultare operativo? Quante volte sui social ci capita di parlare di questioni che non abbiamo operato transitivamente, sentendoci il diritto di dire la nostra. Vi faccio un esempio: come posso io, bianco, maschio, cis, etero, parlare di genere, razza e classe e risultare credibile? Sto parlando l’albero o sto parlando sull’albero?

Una parte di me si è data una risposta razionale, una scusa forse, e cioè che è più complicato di così, le questioni di genere, razza e classe riguardano e devono essere masticate non solo dai diretti interessati, anzi, forse è il caso che riguardino molto di più i soggetti egemoni, i cosiddetti fortunati che devono mangiare tutto pensando ai bambini che non possono.

Malgrado ciò vivo una difficoltà intellettuale che ha portato ad una pausa di riflessione dalla scrittura e mi ha spinto a rivalutare il modo di operare quelle tematiche che all’università mi entusiasmavano, mi parevano la chiave di lettura del mondo. Ho cominciato a sentire una sorta di frattura tra le mie letture e la mia identità, che ha fatto cadere dalla libreria mentale tutte le informazioni legate a certi argomenti e che adesso vagano senza riferimenti mosse dal vento che soffia dalla finestra aperta del dubbio.

Can the subaltern speak? Si intitola uno di quei testi che adesso vaga nella mia mente, ma a cui ci aggiungerei am I subaltern? How much? If not, can I speak as it? Should I speak for them? With them? Should I just listen?

Spero di poter trovare la mia semiologia operativa e di poterla conciliare con l’intransitività dei miei studi. In questo senso la fotografia mi sembra molto più semplice e genuina.