cose scritte

cose scritte in forma narrativa oppure no, su argomenti disparati ma perlopiù ispirati a fatti accaduti a me direttamente o nelle mie immediate vicinanze

Se il racconto di questa giornata dovesse mai meritare una copertina, vorrei che fosse un'immagine poetica, rilassante, una foto che ho scattato appena giunto a destinazione e trovato un posto. Il sole inaspettato delle tre di pomeriggio a metà novembre sta per nascondersi dietro un pilone dello stadio e allunga a dismisura le ombre dei giocatori in campo. A pensarla, questa immagine, mi sembra di sentire anche ora cori decisi ma pacati, non bellicosi, un sostegno continuo alla causa… e mi sento immerso di nuovo in quel pomeriggio di vacanza nella mia città d'origine, sul mare, anche se, fisicamente e metaforicamente, in un posto per me del tutto nuovo:in uno Stadio a 20 km dalla città in cui adesso vivo. Che è, come nelle più classiche delle storie di emigrazione italiana, classiche e moderne, Milano.

Eppure sono certo che, se mai il racconto di questa giornata dovesse necessitare di una copertina, sarebbe un'immagine molto più prosaica, che ritrae il volto di un quarantatreenne stravolto in un urlo sovrumano, con un braccio teso al cielo ad inveire contro qualcosa che, mentre accade alle spalle del fotografo, deve essere molto grave, cruciale, insomma degno di una così scomposta aggressività.

Questa:

ultra

Nella realtà il racconto di questa giornata non avrà bisogno di nessuna copertina, ma comunque, per farlo, il racconto di questa giornata, fatemi fare un passo indietro.

La cosa più bella di Milano, per generazioni di emigranti provenienti da una piccola perla del sud, è stata ed è tuttora l'ultimo treno della sera per Salerno.

È un tarlo che di tanto in tanto fa capolino anche nella mia testa di emigrante: il sogno proibito di uscire un pomeriggio d'autunno dal lavoro, mentre il sole comincia a tramontare, e, invece di prendere la strada di casa per tornare dai figli che mi aspettano per stare un po' col padre e da mia moglie che mi aspetta per lasciarli un po' col padre, andare alla stazione, prendere un'alta velocità al volo e andare a Casa, quella vera. È così che coltivo l'illusione di un pendolarismo che mi riporti, la sera, nei luoghi a cui dovrei legittimamente appartenere.

Chissà perché tutte le mie fantasie di evasione, anche da adolescente, hanno sempre avuto questa collocazione temporale nell'anno e nella giornata, un pomeriggio d'autunno, al tramonto. Ma no. Questo non c'entra con il racconto di questa giornata.

Comunque, anche volendo, questa fantasia non sarebbe verosimile perché quando il sole tramonta, d'autunno inoltrato, a queste latitudini, io sono ancora al lavoro come credo la metà della città e abbastanza lontano dal rincasare.

Ma, come dicevo, questa è un'altra storia. E non so come sia arrivato a parlare di evasioni immaginarie in pomeriggi lavorativi autunnali, quando invece il qui ed ora è una domenica mattina assolata alla stazione centrale di Milano, dove non sono per prendere, ma per aspettare un treno che arriva da Salerno.

Sono le 11.30, sono nettamente in anticipo, quando un messaggio di Guglielmo mi avvisa che il treno è, oltretutto, 20 minuti in ritardo.

Poco male, penso e scrivo. Mi occuperò dei biglietti del treno per Monza. C'è una specie di scampagnata che ci aspetta e se posso accelerare i passaggi è tutto tempo guadagnato da spendere nell'attività di questa giornata una “prima volta nella vita” , cosa che non capita di frequente in età adulta: una trasferta al seguito della squadra di calcio di cui occasionalmente e svogliatamente mi limito a professarmi tifoso solo per malcelato orgoglio provinciale. Squadra che, se non lo si fosse capito da timidi accenni fatti qua e là alla città che sta in una terra baciata da Dio tra la costiera amalfitana e quella cilentana, vi svelo, è la Salernitana.

Entro nella stazione ricordando una scena vista pochi mesi fa, quella di una folla immensa di tifosi del Milan festanti e soprattutto urlanti, in attesa del treno che li avrebbe portati a vincere lo scudetto a Reggio Emilia.

Mi aspetto qualcosa del genere ma no, Milano non si è svegliata coperta dai colori dei salernitani, e sebbene qualche maglia granata spunti qua e là tra la folla, sembra ancora una ordinaria domenica mattina alla stazione.

...un passo avanti

L’ho tirata per le lunghe e adesso serve un passo avanti, che altrimenti qui non si arriva più al sodo. Siamo fermi in una stazione quando il cuore della storia dovrebbe essere il racconto di un pomeriggio in curva nel settore ospiti. Eppure col senno di poi i trasporti sono una parte fondamentale di questa storia, anche se incidentalmente.

Andiamo avanti.

Insomma, Guglielmo, Marcello e Giovanni stanno entrando in stazione col loro frecciarossa. Gli ho scritto a quale binario li aspetto con biglietto timbrato e un piede sul predellino per scongiurare che questo treno sia il primo della storia trenord a partire in orario. Dai!

12.19 il frecciarossa inizia a frenare

12.19 e qualche secondo, intravedo i ragazzi sul binario accanto (che culo). Gli faccio cenno e mi rilasso, ci siamo.

12.20 il treno dovrebbe chiudere le porte ma non lo fa.

12.21 siamo dentro. Le porte si chiudono.

12.22 il treno parte. Monza è la prima, tra 11 minuti siamo lì.

Saluti. Non perdiamo tempo, pensiamo a dove andare a mangiare.

A Monza, ho scoperto ieri sera, la domenica a pranzo è quasi tutto chiuso. C'è un ristorante suggerito da un altro amico che ha vissuto qui qualche anno, ma titubo, non è di strada.

Che facciamo?

Chiedo.

Ma dai, prenota, siamo venuti per passare una giornata fuori e andare a mangiare.

Scendiamo dal treno. Dietro di noi Franco Esposito, un giornalista che da trent'anni racconta le cronache sportive locali, con competenza e passione. Ci sentiamo tutti a casa.

Nel tunnel della stazione il capo ultrà va nella direzione opposta. Staremo sbagliando uscita?

No. Noi dobbiamo andare a mangiare.

Qualcuno ci segue.

No uagliù noi non stiamo andando allo stadio, noi dobbiamo prima andare a mangiare.

Si sono fatte le 12.45. La partita è alle 3

La strada è una deviazione importante dalla direzione dello stadio, però così ci vediamo il centro, e poi all'uscita prendiamo un taxi (si certo, come no...) comunque andiamo, che abbiamo prenotato.

da Gigi

Tu vai a Monza. È vero che abiti a Milano, ma è una circostanza particolare ed è quasi come se avessi fatto anche tu 800 km per arrivare da Salerno – ti senti quasi addosso la stanchezza che hanno anche gli altri, svegli dalle 5 e con 6 ore di treno nella schiena.

Insomma ti aspetti di mangiare polenta e ossobuco, in una specie di osteria.

E invece da fuori vedi un locale che sembra gestito da una curatela fallimentare incaricata nel 2006.

Però ti avvicini, è aperto.

E un cartello all'esterno rivela inequivocabilmente: Da Gigi, specialità pesce.

Ci sediamo e chiediamo il menù.

Giovanni inizia a pressare e chiedere se possiamo ordinare. Sarà ansia?

Guglielmo suggerisce di non prendere l'antipasto. Sarà tensione pre-gara?

Giovanni implora di non prendere l'antipasto. Sarà terrore di non farcela in tempo?

Marcello ordina la burratina, la cotoletta, e un litro di vino. Sarà fame?

Io approvo, e ci metto pure un tagliere irpino, che non so che cosa ci faccia nel menù di un ristorante di pesce, a Monza. E non lo sanno neanche le due gestrici (?) del locale, uniche due persone a prendere comande e a servire in una sala piena, il che rallenta di molto tutta l'operazione. Per la disperazione di Giovanni.

L'origine del tagliere irpino resterà un mistero.

Giovanni continua a mettere fretta ai ristoratori, inutilmente.

Il cibo arriva dopo molto, ma non fa in tempo a toccare la tavola.

Mentre in due finiscono di mangiare, uno ha già pagato e un altro è al telefono per chiamare un taxi.

I taxi, appunto

I taxi a Monza non esistono.

Chiami il numero dedicato e dopo mille domande e molta attesa ti dicono che non ce ne sono, devi chiamare Milano. Come no...

Provi con qualche autista privato che, mentre lo immagini a pulirsi la bocca dalla polenta (o dal tagliere irpino, evidentemente tipico del posto), ti suggerisce di chiamare il radio taxi.

Facciamo così: andiamo a piedi.

Capitolo chiuso.

“Ma lo sai che Monza non è male?”

La mentalità dei tifosi impone di affrontare una trasferta con spirito di sacrificio. Il pensiero deve essere fisso alla partita perché tutti contribuiscono.

Non è una scampagnata, non è una gita turistica, è un lavoro.

Abbiamo sbagliato approccio, è evidente. Siamo venuti a mangiare, non ci siamo preoccupati di una via veloce per arrivare allo stadio, e ora rischiamo seriamente di arrivare in ritardo. Però nel frattempo percorriamo strade pedonali, che pur non essendo più pieno centro, comunque non puoi fare a meno di notare.

Ma sai che non è male?

No, chi lo ha mai detto?

Rischiamo di perdere pezzi: uno è provato da una mezza influenza, un altro dalla caraffa di vino, il terzo dall'ansia di non arrivare allo stadio. Ma la meta si intuisce in lontananza, c'è un blocco dei vigili, segno che ci siamo. E facciamo l'ultimo errore: chiediamo del settore ospiti, e ci mandano a sperdere.

Il sole tramonta tra i pilastri della tribuna ovest del Brianteo

Il Brianteo, chiamiamolo così, che siamo ragazzi cresciuti negli anni 80, e non U-Power Stadium, che è un po' ridicolo. Però entrare è emozionante. Le curve sono delle gradinate bassine, sei in mezzo a un'esplosione di maglie sciarpe e bandiere granata, che non ti aspetteresti a 20 km dalla tua città attuale. Ci siamo persi il mega striscione salerno. Peccato, lo vedremo in tv e diremo lo stesso “io c'ero”.

L'emozione dell'ingresso si perde davanti alla prima cosa che vedo guardando in campo: una rovesciata in area di uno con la maglia rossa, respinta miracolosamente dai piedi del portiere granata (ma la maglia è gialla, vabbè).

Azz, accuminciamm buono.

Poi che succede? Ma niente, passa un quarto d'ora e in 5 minuti il Monza ne fa due. E, una cosa e un'altra, finisce il primo tempo.

Che fai non te lo vai a prendere un caffè? Ma si che sempre incontri qualcuno. E una è Bianca, che vive a salerno E un altro è Angelo, che vive a milano E poi passa Marco, che mi fa

Ué bello! Aspè ja facimmece 'nu selfie e u mannàmm a tuo fratello.

Io sono contento e mi presto ma poi lui cerca la chat con un tale notaio o Notari, non lo so. Non dico niente, ma penso chissà per chi mi ha scambiato. Evidentemente incarno anche nell'errore l'essenza di “fratello di” qualcuno. Ma non fa niente.

La partita ricomincia, ne fanno un altro. Ma non fa niente. Io mi sono divertito. Solo che ora dobbiamo pensare a quei 3 km di ritorno che ci aspettano

Che vogliamo fare?

No, usciamo prima se no ci bloccano dentro.

E usciamo, però poi fuori vediamo dei pullman pronti a partire su cui ancora non ci fanno salire ma dobbiamo avere pazienza. E allora aspettiamo.

Andy Warhol considerava anche Li.ra. TV

C'è un giornalista di una tv locale di Salerno che alla fine di tutte le partite si piazza all'uscita della curva, fa il suo commento alla partita in diretta tv e intervista i tifosi all'uscita. Si chiama Antonio Esposito – sì, sembra che a salerno i giornalisti abbiano tutti lo stesso cognome.

È anche a Monza, e ce lo abbiamo davanti. Che fai, non ti piazzi alle sue spalle per essere ripreso e visto dagli amici che hanno seguito in diretta whatsapp questa trasferta un po' anomala?

Ma certo che lo fai.

Dal momento in cui lo vedo penso al possibile materializzarsi del quarto d’ora di celebrità riservato a ciascuno di noi nella società moderna. Insomma, non sarà una ribalta mondiale, ma io, in questi mesi in cui il mio svogliato professarmi tifoso per orgoglio provinciale si è trasformato in un reale interesse, questo personaggio lo seguo in diretta social alla fine delle partite. A volte fa commenti interessanti anche se un po’ teatrali e mi stupisco del fatto che anche i tifosi riescano a concedere analisi delle partite non sempre banali. Non sarà una tv nazionale ma mi si para davanti la possibilità di rientrare nelle case dei salernitani, materializzando questo strano viaggio a Salerno attraverso una dimensione diversa dalla fisica presenza. Sono a Monza ma mi sento a Salerno, e all’improvviso potrei essere teletrasportato davvero a Salerno, per esempio nel soggiorno di mio fratello, che sicuramente starà vedendo la trasmissione in diretta.

Mio fratello. Ecco la chiave! Ora mi invento qualcosa per parlare di quel suo articolo su un quotidiano di qualche settimana fa in cui dava il suo punto di vista di intellettuale sul possibile cambio di allenatore. E si è trovato rinfacciate le sue parole dopo un mese quando questo qua ha tirato fuori il coniglio dal cilindro con delle inspiegabili vittorie.

Si, dai, lo cito, mi invento passaggi del suo articolo, dirò qualcosa di intelligente per spiegare la mia opinione contraria.

Intanto tra i vari passanti Marcello è l’unico a cui viene dato il microfono e non menziona gli orari dei treni da Milano, che in questo momento sembrano essere un punto caldo di protesta contro questa organizzazione che ci impedisce di arrivare comodi alla stazione.

Lui cita il Macte Animo del motto della squadra, altri si appellano al senso di appartenenza alla casacca, un settantenne finge di parlare di calcio ma poi di fatto inveisce menzionando il suo treno delle 19 che sembra ormai perso.

E all’improvviso mi giro e vedo il microfono venire verso di me. E no, cazzo, non mi sono preparato niente da dire e testualmente blatero:

eeeh sì, la….ci vuole una scossa, da Sassuolo la situazione è questa, siamo in un limbo, è necessario…andare….andare avanti…dare... qualcosa….vabbuò?

Nelle ore a seguire nella chat che ha seguito la trasferta si tenterà l’esegesi di queste incomprensibili parole. E nella migliore delle ipotesi, ne verrà fuori l’esatto contrario di quello che avevo pensato e che avevo anche sostenuto nei giorni passati parlando di “tattica” proprio con mio fratello, penso per la prima volta in quarant’anni.

Diciamoci la verità, ho fatto una figura di merda in diretta locale. Ma che me ne fotte!

Mentre dico cose a caso aprono i cancelli e riusciamo a salire sul pullman. Che ci riporta alla stazione. Scortati dalla polizia. Sì, anche me, insieme a un centinaio di ultras. A quarantatre anni, dopo circa ventidue di sana indifferenza per il calcio.

Però, onesto, è stato veramente divertente.

Come è andata a finire

E’ andata a finire…

...che siamo saliti di stramacchio su un treno svizzero su cui una decina di tifosi intonava cori tra gli sguardi allibiti e divertiti degli svizzeri presenti, che tutto si aspettavano quella domenica sera verso Milano che finire in mezzo a tifosi campani in festa dopo una sconfitta.

...che Marco in realtà la foto l'ha mandata veramente a mio fratello, la cosa del notaio era il titolo di una chat. Boh valli a capire.

…che Guglielmo l'antipasto non lo voleva semplicemente per il mal di pancia. Era Covid, ma lo scoprirà solo un paio di giorni dopo.

E la foto? Quella di uno che inveisce con la faccia stravolta e con la mano al cielo? Ah si, quello ero io. Mi ero messo in posa nell'intervallo, davanti a Guglielmo che voleva immortalare quello stranissimo evento che mi aveva visto ultrà per un giorno.

Io però insisto: non so perché, ma associerò sempre questa giornata a quell'immagine del sole che tramonta tra i pilastri del Brianteo.

Precisamente, questa:

stadio


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folla

Io invece voglio ricordare Ettorescola con una storia.

E' il 14 settembre 2002 e mi trovo a Roma, a piazza San Giovanni in Laterano, insieme ai miei amici Gennaro, Federico, Checco e Serena (che saluto). In giro per la piazza ci sono anche mia madre e mio padre (che saluto), ma li incontrerò per caso nel corso della giornata. E' il giorno di “Una festa di protesta”, la manifestazione – credo – finale della serie dei Girotondi per la Democrazia, quelli che passeranno poi rapidamente ai posteri come i Girotondi di Nannimoretti.

Oggi non ricordo bene perché fossi lì, forse perché ci credevo, ma non è di questo che voglio parlare.

Ho con me una macchina fotografica digitale, la mia prima macchina fotografica digitale, acquistata a Lecco a dicembre del 2001 per novecentocinquantamila lire, grazie allo sconto ottenuto per intercessione dell'amico Stefano (che saluto). Ma non è di questo che voglio parlare.

A un certo punto vedo un uomo (che oggi non definirei) anziano, il quale, ripreso da una telecamera, cammina parlando ad un bambino. Dico a chi mi è vicino che secondo me quell'uomo è Ettorescola, pescandone l'immagine dalla memoria non ancora annebbiata di quando ero un ragazzino che andava al cineforum del San Demetrio (ma non a Nocera Inferiore) e che di pomeriggio guardava film in videocassetta presi al videonoleggio e leggeva riviste di cinema. Non trovando il giusto conforto in chi mi è vicino, io stesso un po' sorpreso di riconoscere Ettorescola e non convinto che possa trattarsi di Ettorescola, pure a caccia di cose e persone da fotografare, non fotografo quello che credo essere Ettorescola.

Qualche tempo dopo (forse mesi, forse anni, grazie a strane triangolazioni tra le pagine di Wikipedia) scopro che quell'uomo era veramente Ettorescola, in quella piazza a girare un documentario (che non ho mai visto, ma non è di questo che voglio parlare) e mi rallegro del fatto che la memoria di quando ero un ragazzino che andava al cineforum non mi abbia ingannato in quel lontano 14 settembre 2002.

Ed oggi non mi rammarico troppo di non aver fotografato Ettorescola, perché tra gli scatti di quella giornata posso vantarmi comunque di avere questo, in cui, dieci anni dopo il 1992 del quale in futuro avrebbe avuto “un'idea”, Stefanoaccorsi (che saluto) veniva in foto con una discreta faccia da scemo.

Voglio ricordare Ettorescola così, con una storia e una foto.

Di Stefanoaccorsi.

accorsi

(20 gennaio 2016)


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Cronaca di un tranquillo mistero domenicale

È domenica mattina in un imprecisato inverno degli anni novanta, a Cava de Tirreni.

Roberto D., come tutte le domeniche cammina per il corso della città, col suo borsello a tracolla.  Dentro, più o meno disordinatamente, ci sono soldi, carte di credito, assegni, biglietti da visita, un pacchetto di sigarette e un accendino.

In quella che sarà la prossima casa D., proprio su quello stesso corso centrale, si svolgono importanti lavori di ristrutturazione, e Roberto, prima di passare a comprare le paste e tornare a casa, si ferma a dare un'occhiata insieme al cognato che segue i lavori.

Entra in casa, tiene il cappotto, appoggia il borsello su un tavolo di cantiere e (particolare che ricorderà in seguito, reale o distorto che sia) chiude la porta, per poi partire per un breve giro perlustrativo della casa, divisa su due livelli. In tutto quindici minuti al massimo.

All'uscita, parlando col cognato, posa distrattamente il braccio sul tavolo e non afferra quello che si aspetta. Si gira: il borsello non c'è.

Ripercorre il giro esplorativo, niente. E come lui anche suo cognato ricorda che il borsello era stato messo lì. La porta è ancora chiusa.

Siamo in un inverno imprecisato degli anni novanta e i cellulari non sono ancora molto diffusi. Del resto Roberto, che è un dirigente della più grande banca del sud, ma è anche un vecchio comunista, e vede il progresso un po' come un intralcio alle sue passioni e al suo riposo, cederà al bisogno di un telefonino solo anni più tardi. Ma questa è un'altra storia.

Perciò ritorna a casa per controllare che il borsello non sia neanche lì, sai mai, o che nessuno abbia chiamato. E poi per bloccare carte, annullare assegni e recuperare le sigarette e l'accendino che ormai, tra una cosa e un'altra, gli mancano da almeno un'ora.

Ma è domenica, Roberto è un uomo da domenica a casa, e in più gli amici Giovanni, Teresa e i loro bambini sono ospiti a pranzo. Sigarette a parte, tutto il resto può aspettare perché il pranzo, e poi forse una pennichella di controra vengono prima di tutto. E poi le partite.

A tavola tiene banco il racconto confuso e il tentativo di ricostruzione di quello che ormai è chiaro essere stato un furto con effrazione.

Tra i grandi un senso di insicurezza, paura e violazione che paralizza come un brivido di freddo quell'imprecisato inverno anni novanta, ma serpeggia, tra i quattro bambini, una curiosa eccitazione per quel mistero domenicale, un brivido che attraversa un pomeriggio altrimenti triste per essere il preludio del ritorno a scuola. Poi lo squillo del telefono interrompe il pranzo, le congetture e gli interrogativi.

Roberto corre a rispondere

Sì!

Con l' esclamativo, proprio. E il suo modo particolare di mettere fretta ai potenziali scocciatori.

Siete voi Roberto D.?

Dice la voce

Chi parla?

Roberto concede la parola, ma allo stesso tempo chiarisce che è lui a fare le domande.

E qui la frase che negli anni a seguire verrà ricordata come la nota comica di una storia un po' inquietante. Buttata lì da un povero cristo in una specie di sceneggiatura poliziesca improvvisata. Ma andiamo con ordine...

Il mio nome non ha importanza. Diciamo che mi chiamo Pasquale.

“Pasquale” racconta di aver trovato un borsello privo di denaro ma pieno di carte, documenti e biglietti da visita alla stazione di Ponticelli, e di trovarsi ora a Nocera, disposto a restituire l'oggetto. Può aspettare poco. Poi andrà via. È un senza dimora, dice, e non vuole avere a che fare con la polizia.  Prendono accordi per vedersi di lì a poco, e Roberto, prima di abbassare la cornetta, sente l'uomo dire:

Dottò, portatemi una cosa da mangiare, tengo fame.

Roberto è pronto a partire. 

L'amico Giovanni ha già preso il cappotto, le chiavi della Prisma e l'autoradio perché nonostante Roberto insista per non farlo alzare da tavola, Giovanni sa che non ama guidare, e non lo lascerebbe andare da solo all'incontro con qualcuno che potrebbe minacciarlo, rapinarlo o chissà cosa. Tra l'altro un direttore di banca è una figura di rilievo, specie in quelle zone, e già qualche collega è stato seguito, minacciato, e altro ancora. Ma questa è un'altra storia.

Partono, non prima di aver preso, senza troppa convinzione, un panino per l'uomo, caricato caritatevolmente di prosciutto e formaggio da Tonia, moglie di Roberto, che coglie, cristianamente, la difficoltà dell'uomo indigente costretto a rubare per fame. Teresa cerca di dissuaderli, ma senza una reale preoccupazione, più scettica che altro, cercando di tradurre in modo educato il pensiero “ma dove vi avviate...non fate gli eroi”. Ma loro vanno.

Per strada elaborano un piano: Roberto farà un pezzo in auto da solo per farsi vedere arrivare non accompagnato. Giovanni lo seguirà a distanza, per non spaventare Pasquale e rischiare che salti tutto, pronto ad avvisare la polizia nel caso qualcosa andasse storto.

Alla stazione di Nocera, Pasquale, interrogato dalla vittima mentre Giovanni in incognito segue la scena e non perde di vista un attimo l'amico, fornirà una versione confusa, poco credibile, e subito dimenticata, ma non sembrerà mai a nessuno dei coinvolti poter essere un criminale, un truffatore, un ladro d'appartamenti. In costruzione, poi...

Semmai un uomo che per una notte ha dormito in un cantiere, dal quale è scappato per non farsi vedere.

Ma poi, si sa, il borsello sul tavolo fa l'uomo ladro.

Nessuna denuncia, nessuna verità.  Solo il ricordo di un uomo che all'arrivo di Roberto aveva chiesto subito di mangiare, e si era avventato sul panino portato da casa.

Pasquale va via.  Giovanni e Roberto si ricongiungono.

Dal borsello mancano solo contanti.  Le sigarette e l'accendino sono li e  Roberto se ne accende una. Giovanni ha già avviato la Prisma e acceso il riscaldamento e la radio. E ha aperto i finestrini. Da quando ha smesso non sopporta che qualcuno fumi in auto, ma a Roberto non si sente di dire nulla, soprattutto in queste condizioni, invaso nelle sue cose, ma soprattutto nel suo riposo domenicale, fatto di pranzo, divano, letto, partite e domenica sportiva.    Fa freddo, domani inizia un'altra settimana.

In auto neanche una parola: solo la sigla di tutto il calcio...

Parapà, Parapà, parappapaaaaa parapapà.


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