CONTESTI

PhouPhati Nome in codice: Lima Site 85 sul Phou (monte) Phathi. Ex avamposto della CIA nel distretto di Huaphan, nord del Laos

Il mio ultimo sforzo letterario si intitola “Da Balvano alla Piana delle Giare”. E' una riflessione sul Laos e sulla storia del colonialismo nel sudest asiatico che parte dalla Basilicata, da Balvano, ma che attraverserà anche altri luoghi, che verranno svelati poco alla volta. L'obiettivo generale è riallacciare un discorso iniziato con il mio testo inedito sulla Colombia, che potete scaricare qui e di cui potete leggere un veloce riassunto qui.

Nelle pagine conclusive di quel lavoro, mi chiedevo se l'Assenza potesse essere pensata come una relazione di potere.

L'assenza dello Stato è infatti una categoria politica a sé stante intorno alla quale sono state costruite cartografie “coloniali” praticamente da sempre. In Colombia esistono le “zone rosse”, “i territori vuoti” e “le zone di guerra”, aree che appartengono ad un fuori dello Stato, riconoscibili per la loro dis-indentificazione e perchè sono oggetto di operazioni speciali di qualche tipo. Intorno alle “Zone” vengono predisposti diversi dispositivi giuridico-legali e militari-burocratici che materializzano governamentalità, cioè pianificano e realizzano ove possibile, interventi ad hoc per inglobare, annettere, assorbire, far divenire le zone parti della totalità che le definisce.

Un caro amico antropologo, tristemente ucciso a Mariupol nel 2022, si spinse così lontano da voler scrivere e filmare zone “di operazioni speciali anti-terrorismo”, le più speciali di tutte, perché riguardano processi reali di fabbricazione della realtà giuridico legale con la quale si regolamenta una specifica relazione bellica e di inimicità. In queste zone, a parere di Mantas, il nome del mio amico, si produce una peculiare condizione che definiva di “bespredel”, cioè di “assenza di limiti”. Mantas raccontava la vita nell'eccesso di potere dove la realtà può essere letteralmente fabbricata a piacimento dall'autorità, creando testimonianze e prove materiali di eventi che si imprimono nella memoria pur senza avere alcun legame reale con le operazioni belliche da cui nascono. Ci troviamo cioè nel bel mezzo di una produzione sistematica di fake news che però diventano (S)toria.

“La Zona”, come la definisce Mantas, con la Z- maiuscola (una Z che ricorda così tanto la lettera dipinta sui carri armati e sugli elmetti dell'esercito russo che invade l'Ucraina), era proprio Mariupol, ma anche la Cecenia, dove lavorò molti anni producendo un film documentario in cui raccontò invece di un luogo onirico, Barzakh, un rifugio sospeso tra la vita e la non vita, tra la morte e la non morte, dove si incontravano i desideri delle persone in attesa dei loro cari scomparsi. Accompagna per lungo tempo con la sua telecamera una madre che attende informazioni sul figlio scomparso. Ha pagato alcune migliaia di dollari ad un agente dell'FSB, il servizio segreto russo, ex KGB, per sapere se è ancora vivo, se è detenuto in qualche carcere oppure se è morto. Trova così archivi improbabili, tra indovine che leggono dei sassolini e i documenti fabbricati dalla Burocrazia, ampiamente inutili, che, però, in qualche modo, soddisdano la sua richiesta di informazioni. In questo triste viaggio in cui l'accompagna, Mantas scopre Barzakh e racconta un'altra Assenza, quella di un luogo, la Cecenia, che oggi potrebbe dirci tanto della Russia e della leadership che governa il mondo. In Cecenia si è progressivamente assistito alla radicalizzazione islamista della resistenza al potere centrale russo; dal sufismo moderato e mistico si è arrivati allo jiadhismo wahabita, come se solo un “dio” potesse dare la forza di opporsi al potere assoluto che lì si manifestava. Ma si è anche assistito al suo successivo annichilimento. Ciò avvenne, secondo Mantas, dentro una grande finzione giuridico legale che era la “Zona di operazioni speciali anti terrorismo”, in cui vecchie pratiche staliniste di dominio e di controllo delle popolazioni ribelli trovarono uno spazio di legittimazione legale che permise la sistematica cancellazione di ogni forma di resistenza e di ogni racconto sugli orrori che via via venivano commessi: nel silenzio assenso della comunità internazionale e dei loro imperatori anglossassoni alle prese con le loro proprie cancellazioni e gli affari con gli oligarchi di Putin.

Il destino ha voluto che Mantas trascorresse i suoi ultimi giorni di vita conoscendo direttamente, sul suo proprio corpo, il “bespredel”, giustiziato “con onore”, secondo i codici criminali russi, dalle truppe speciali cecene, arrivate per l'occasione a dare manforte allo scalcagnato esercito di Mosca (*). Nello scoprire che Mantas era l'unico straniero rimasto a Mariupol insieme alla compagna compresero di poter finalmente regolare un conto sospeso. Mantas filmò Barzakh sotto i loro occhi, senza che loro se ne accorgessero, aiutato dalla resistenza cecena. Un affronto inaccettabile che gli valse anche un premio alla Berlinale. Circa 10 anni più tardi, dopo le torture rituali, Kadirov si è preso la briga di sparargli personalmente i due ultimi colpi letali; uno sul cuore e l'altro tra gli occhi. Per non farsi mancare nulla nel “bespredel” il suo corpo fu fatto ritrovare dalla compagna alla quale fu permesso anche di portarlo in Lituania, passando proprio dalla Russia, mentre a Mariupol, rasa al suolo, le macerie coprivano le fosse comuni.

La Cecenia è oggi un'entità sovrana in cui i movimenti di indipendenza sono solo un ricordo cancellato del passato. E' comandata da Kadirov per conto dello Zar Putin e la sua durata ne determinerà il nome. “Stato” è però come già viene definita ed in effetti allo Stato ci si riferisce quando si parla di eventi come quelli che hanno ricostruito il potere russo in Cecenia, che hanno fatto sparire quel ragazzo ed hanno ucciso Mantas. Ma ci raccontano in modo analogo di quanto sta accadendo in Palestina e in molti altri luoghi del mondo. Da Hobbes fino a Schmitt, lo Stato sembra essere fondato intorno ad una relazione intima con un atto originario essenzialmente atroce ed orrorifico percepito come “fuori” ed eccezionale rispetto ai luoghi in cui prende forma.

Per “far dimenticare” questa assenza primordiale la “Zona” sembra essere un ottimo strumento e nel mio testo sulla Colombia descrivo alcuni suoi elementi di liquidità, per come emergevano a Buenaventura.

Raccontando la ricorrenza di eventi culmine, quali improvvise ondate di militarizzazione del “Barrio” in cui vivevo, oppure eruzioni di violenza armata sulle strade intorno a noi, ma anche rivolte più o meno spontanee, cercavo di osservarla a partire da spazi che generavano convivialità ed “oblio” dell'orrore. Ne osservavo, cioè, i meccanismi di rimozione. Ritrovai così dei momenti rituali nel senso più antropologico del termine (spazi di comprensione iniziatici, chiusi, ripetibili ma con una durata) che liberavano dall'autorità e dalla guerra. Tutto ciò avveniva in maniera effimera ma decisamente importante per gli equilibri psico-sociali della comunità. Sostituivano la tradizione militarista dei luoghi con pratiche celebrative della vita che ribadivano la superiorità dei vincoli sociali rispetto alla morte. Per farlo tuttavia non ricorrevano all'istituzione del “funerale” oppure della “commemorazione”. Non avevo trovato Barzakh ma spazi di resistenza ai potenti flussi psichici che trapassavano luoghi e persone.

Ho chiamato questi momenti rituali “interregni”, prendendo a prestito la nozione da Gramsci. Li ho descritti come spazi sospesi, nei quali la comprensione ontologica che l'ordine materiale delle cose non cambia al cambiare dell'organizzazione “superiore” che si occupa della logistica della “Zona”, produce una scissione ideale tra i dominanti ed i dominati. Vi è cioè una comprensione condivisa per cui tutti sanno che chi comanda non risolverà mai i problemi del vivere, ma senza chi comanda tutto potrebbe diventare peggiore di quanto non sia, almeno dal punto di vista personale e familiare. Questa peculiare forma di intendere le dinamiche socio-economiche è dovuta alla natura intermediaria del potere ed al suo articolarsi attraverso la duplice regola del “Know How” e “Know Who”. Antropologicamente, dunque, si assisteva, a mio parere, ad una continua fine del “vecchio ordine” senza che il “nuovo” producesse mai alcun effetto concreto sulle relazioni di scambio e sulle economie morali della comuna e del quartiere. Tuttavia, il passaggio da un'organizzazione all'altra era un fatto reale e, nella transizione, si producevano vie di fuga che ho descritto come potenzialità, che alcuni sapevano cogliere o vedevano meglio di altri.

In questa prospettiva, ho raccontato, ad esempio, le storie dei “muchachos” e della loro funzione connettiva tra il Barrio e il resto della città, tanto materiale, producendo servizi di moto taxi e trasporto merci, quanto simbolica, rappresentando un “potere” che iscriveva il Barrio sulle mappe urbane, rendendolo così capace di reclamare quote della ricchezza cittadina. C'erano vere e proprie organizzazioni di base nella “Zona” che mantenevano relazioni tra loro, imitandosi nella gestione dei commerci ed armandosi contemporaneamente se le condizioni lo richiedevano per delimitare le varie zone di influenza. Nelle relazioni tra il “dentro” del barrio e il “fuori” della città che queste organizzioni producevano, si articolava, a mio parere, un elemento molto importante della fattualità del potere come brokeraggio ed orrore che descrivevo nella “Zona”. Vi scorgevo, infatti, degli elementi di sistemi politici estramente complessi, troppo spesso dimenticati nelle analisi politologiche sulla Colombia e sui paesi colpiti dalla “war on drugs” o di cui si leggeva solo su testi molto specifiici ma di criminologia locale o di giornalisti d'inchiesta che raccontavano le stesse storie da decadi e ormai nessuno le leggeva più.

Quello che osservai durante il mio lavoro di campo fu che nel “cambio di ordine” da Rastrojos ad Urabeños, si generò un qui-ed-ora espresso attraverso locuzioni come “callejear” (andare in miezz' a via) e “jugar vivos” (giocare da vivi) che definivano una necessità di comprensione della “Zona”. I racconti del Barrio dimostravano, a mio parere, che il potere, che poteva certamente essere “senza limiti”, veniva anche quotidianamente “messo in scena” nella sua precarietà ed instabilità, da soggettività in divenire che incorporavano l'assenza di limite della Zona. Seguendo queste linee interpretative, descrivevo l'emergere di leader che poi si facevano capi e di capi che parevano re per una notte o per un mese o di membri di gang che per alcuni diventavano dei locali Robin Hood e per altri dei carnefici. Ognuno di questi micro ordini personalistici rappresentava dunque una possibile soluzione, seppur ripetitiva e parziale, al problema dell'Assenza.

Ciò che, però, più mi interessava in questi intrecci tra autoritarismo ed anti-autoritarismo, era che i capi, a volte anche estremamente improbabili, emergevano quasi quotidianamente non solo nella praticità delle loro azioni e della loro presenza sulle strade. Erano “capi” anche perchè manifestavno un mondo mitico fatto sia di racconti di strada sia di momenti di condivisione rituale. In alcuni casi ritrovai, ad esempio, il Jean Rouch de “les maitres fous”. In altri mi parve di scorgere elementi di veri e propri “Stati ombra” africani di cui hanno scritto diversi antropologi (per esempio qui e qui) che esistono solo in una forma mistica e simbolica se non proprio come spiriti che possiedono alcune persone. Quello che notavo a Buenaventura, cioè, era l'emergere di organizzazioni politiche radicalmente multipolari e certamente instabili, ma che esistevano in quanto celebrazione rituale del molteplice e non come riduzione ad unità e normalizzazione del dominio. Le implicazioni di queste conclusioni sono certamente vaste; riguardano pratiche di governamentalità che le assoggettano attraverso la guerra civile permanente, forzando la periodica legittimazione di un dominio comunque parziale (il passaggio appunto da Rastrojos ad Urabeños); ma anche la creazione di società segrete, sette e società di mutuo aiuto di vario tipo; oltre che esperimenti di autonomia locale più durevoli (i cimarrones ed i quilombos nella tradizione afro-americana) .

Quest'ultimo punto ci conduce direttamente al nuovo lavoro e ad un aspetto del potere inteso come brokeraggio e orrore che vorrei indagare con maggiori dettagli; “il far dimenticare” e “il dimenticare” in senso più generale. In questi mesi di letture sulle ribellioni del XIX secolo che accompagnarono l'incontro coloniale in Asia, mi sono infatti scontrato con processi che avevo considerato meno durante la mia permanenza in Colombia. La pervasività di traumi dovuti alla violenza armata non mi aveva permesso di scorgere una questione altrettanto importante. A fondare lo Stato o un regno o un'entità politica di qualche tipo non è solo l'atrocità originaria bensì il suo oblio. Non è, o non è solo “il far credere”, ma il “far dimenticare” che risulta “istituente”. Il caso della Cecenia e delle cancellazioni storiche prodotte dal regime di Kadirov lo dimostrano con una certa chiarezza. L'attuale racconto occidentale della guerra in Palestina ne è un'ulteriore prova. Non si tratta però di costruire un inganno che diviene realtà come accade nel film “Donbass” di Sergei Loznitsa. Si tratta invece di vere e proprie epistemologie che usano la rimozione dell'orrore quasi come sistema di programmazione linguistica e neuronale. La rimozione cioè si fa paradigma estetico che riempie di immagini la memoria saturandola in modo da impedire la critica del qui-ed-ora, ma anche di un passato controverso e non condiviso.

LuangPrabang

Il luogo che più di tutti mi ha portato a riflettere sulla rilevanza della dimenticanza è stato Luang Prabang, una città con una storia decisamente interessante che nel corso degli ultimi anni si è convertita, come ebbe a dire un'antropologa locale, in una “Zona Speciale per il Turismo”. C’è un aspetto di Luang Prabang che ha a che fare con la sua turisticizzazione\mercificazione che rende peculiare la quotidiana esperienza del tempo, cioè di come passato e presente esistono nel presente. Il nodo cruciale è che la (S)toria della città riguarda la vecchia famiglia reale che viveva, gestiva e possedeva tutta l'aria divenuta patrimonio dell'UNESCO nel 1995. La stessa area inoltre è stata profondamente modificata dall'incontro coloniale e, se si eccettuano i templi, tutte le architetture presenti oggi, con pochissime eccezioni, furono costruite durante i 50 anni della Colonia francese, tra la fine del 1800 e l'inizio della seconda guerra mondiale. Stiamo quindi parlando di un processo di urbanizzazione che in poche decadi ha di fatto cancellato o modificato radicalmente il paesaggio cittadino. A complicare i percorsi di rimemorazione vi sono poi altri elementi di una certa importanza per la storia locale. Il primo fu un saccheggio della città che avvenne nell'ormai lontano 1887 nel quale il centro cittadino fu raso al suolo quasi del tutto. Il secondo sono le due guerre di Indocina in cui il Laos, sotto la leadership più o meno imposta della famiglia reale di Luang Prabang, divenne zona di guerra. In particolare, dal 1959 fino al 1975, il Laos entrò in una lunga e sanguinosa guerra civile che portò al quasi completo annichilimento di varie province e regni del Paese che, in diverse epoche storiche, contesero il potere alla famiglia reale di Luang Prabang.

Nei libri di (S)toria, la guerra civile normalmente si sovrappone e si confonde con la “Guerra Segreta” che inizia “ufficialmente” con una conferenza stampa tenuta dal Presidente J.F. Kennedy il 22 marzo del 1961 e in cui affermò, al di fuori di ogni dubbio, che il nord del Laos era stato invaso dalle forze comuniste nord vietnamite. La paura dell'“invasione” è un tema ricorrente nelle narrazioni locali e, in effetti, queste terre furono invase per saccheggi in diversi momenti storici. Tuttavia, nel 1961, l'“invasione comunista” apparteneva a quelle invenzioni di cui Mantas scriveva nel suo lavoro sulla Cecenia ed assomigliava alle “armi irachene di distruzione di massa” fabbricate per le riunioni dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 2002. Inoltre, “la guerra segreta” che terminò con gli accordi di pace di Ginevra del 1973, fu riconosciuta ufficialmente dagli Stati Uniti solo nel 2016 e con una lunga serie di limitazioni rispetto al suo reale svolgimento, al riconoscimento delle vittime e delle stragi di civili perpetrate e rispetto alle innumerevoli testimianze del diretto coinvolgimento della CIA e dell'esercito americano (e francese) nello sviluppare il traffico internazionale di eroina a partire dalle produzioni di oppio laotiane. Ci troviamo quindi dentro un processo di rimozione storica di vasta portata.

L'aspetto interessante è che sullo sfondo della “Guerra Segreta”, la guerra civile laotiana vide Luang Prabang al centro di svariate macchinazioni politiche che riguardarono i membri della sua famiglia reale, esponenti dell'esercito e dell'alta burocrazia. Benchè alcuni dei maggiori leader politici dell'epoca venissero proprio da questa città, oggi, a Luang Prabang, ad esempio, non c'è un museo che ripercorra le diverse fasi di questo conflitto o che si addentri, con qualche dettaglio, nelle dinamiche che condussero la leadership cittadina ad accettare, se non proprio a volere, sia i bombardamenti a tappeto di vallate molto vicine, sia lo stesso traffico di eroina. Siamo quindi nella presenza di una cosciente rimozione storica che potrebbe essere interessante analizzare con maggiori dettagli.

Al posto di un passato conteso, troviamo infatti un discorso identitario e nazionalista che costruisce attraverso il passato “mitico” della città la “laotianità” intesa sia come marchio etnico-popolare venduto dall'industria del turismo, sia come simbolo di unità di un territorio altrimenti trapassato da flussi di vasta portata, tanto finanziari ed economici, quanto culturali ed etnici. Per questa ragione, nella nozione di “heritage” (patrimonio culturale) creata dall'UNESCO, e che analizzerò meglio poi, si produce un'esperienza storicizzante della quotidianità abbastanza peculiare nella quale l'epoca monarchica è rimessa in scena nel suo lato più accogliente ed “illuminato”; quello appunto che “riuniva” e che produceva economia. Vecchi edifici coloniali, stanze di re e regine o giardini di principi e principesse che affacciano su uno dei più suggestivi fiumi dell'Asia sono oggi disponibili per il tempo libero dei suoi visitatori. E' come se tutti i suoi abitanti partecipassero di una vera e propria costruzione immaginaria di Luang Prabang in cui la (S)toria riemerge come una fantasticheria sul suo passato. Così facendo, produce un ordinamento giuridico-morale che, cancellando una parte comunque importante di quello stesso passato, riproduce immagini di una forma di governo che alcuni, probabilmente, vorrebbero restaurare. Questa prospettiva è quella che più mi interessa perchè ha a che fare con una aspetto del patrimonio storico artistico che lo rende “un ordine” oltre che una modalità del godimento. Per dirla con Zizek, questi intrecci infatti “insegnano [al soggetto] a desiderare”, quindi, a dimenticare oltre che a sognare un nuovo ordinamento politico.

Non esiste chiaramente una maniera univoca di raccontare le modalità con cui è possibile rivivere il passato nel presente. Nelle pagine che seguiranno proporrò diverse prospettive e traiettorie in cui eventi traumatici del passato sembrano manifestarsi nel presente in diversi contesti geografici. Proporrò poi una rassegna storiografica della regione in cui è inserito il Laos per fornire una migliore caratterizzazione del contesto in cui avvengono le rimozioni. Infine, se possibile, raccoglierò alcuni archivi etnografici nei quali questo passato conteso riemerge con maggiore chiarezza.

Perchè questo viaggio e questo esercizio di scrittura sia possibile però devo iniziare da una spedizione in kayak su di un fiume lucano dove queste idee hanno iniziato a prendere forma.

(*) Quella che propongo è una mia personale ricostruzione dell'omicidio di Mantas sulla base delle testimonianze di persone informate sui fatti ed incrociando dati sulla guerra a Mariupol durante la sua uccisione. In particolare, la presenza di Kadirov e delle forze speciali Cecene è stata cruciale durante la presa dell'industria siderurgica Azofstal nel porto di Mariupol che avvenne poco tempo dopo l'uccisione di Mantas. Nel suo lavoro “Mariupolis” raccontò, tra le altre cose, la progressiva crescita militare del battagliane Azof insieme alle critiche che provenivano da entrambi i lati, sia russi che ucraini, per la sua chiara appartenenza all'estrema destra neofascista. Nel suo lavoro postumo “Mariupolis 2”, presentato a Cannes nel 2022, Mantas stava documentando invece la vita di alcuni rifugiati che non volevano andare via dalla città sotto i bombardamenti ed erano rimasti dentro una chiesa evangelica. La sua uccisione potrebbe essere stata casuale. In effetti, trovandosi in Ucraina senza documenti ufficiali, è possibile che non sia stato riconosciuto da chi lo ha trovato. La possibilità poi che i militari disponessero di tecnologie di riconoscimento facciale è in effetti remota anche se bastava scattare una foto con un cellulare ed inviarla a chi di dovere. Senza dubbio, Mantas era iscrittto da tempo in una black list del regime russo. Dopo Anna Politoskaya, fu uccisa in Cecenia anche una collaboratrice della giornalista russa ed amica personale di Mantas, Natalia Estemirova. Mantas probabilmente era da qualche parte su quella stessa lista di nomi. Le torture subite e i due spari a freddo ricevuti mi hanno fatto quindi propendere per un regolamento di conti “mafioso”. Non ho però prove che sia stato Kadyrov a sparare materialmente i colpi. Si trovava solo a Mariupol quando Mantas morì. Ci tengo a chiarire che la ricostruzione che propongo è quindi mia e personale e non è una versione condivisa dai familiari di Mantas, nè dalla sua ex compagna che anzi all'epoca del nostro incontro non la riteneva pienamente credibile.