Corso di Recupero per Astemi #4/5

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L’uva e il vino

L’uva, ossia il frutto della vite, formato da bacche (acini) riunite in un’infruttescenza (o grappolo), fornisce la materia prima per la preparazione del vino. Il grappolo è costituito da un raspo e da vari peduncoli con pedicelli sui quali si inseriscono gli acini. Questi si compongono di buccia (epicarpo), polpa (mesocarpo) e semi o vinaccioli (endocarpo). L’insieme della polpa è costituito da acqua, zuccheri, acidi, mucillaggini, sali e altre sostanze minerali, azotate, pertiche, vitamine; infine dai vinaccioli o semi.

La buccia dell’acino contiene essenzialmente materie coloranti (da cui deriva il colore dei vari vini), inoltre aromi, tannino e sostanze minerali. Ha una funzione protettiva e reca esternamente la pruina, una specie di cera che ha il compito di proteggere l’acino dall’umidità, dall’evaporazione eccessiva e dal permanere in superficie di gocce d’acqua.

Una prolungata e insistente umidità favorisce l’attacco di un fungo microscopico che apre nella buccia delle fessure, mettendo allo scoperto la polpa dell’uva e asportandone le sostanze nutritive. La Botrytis o, come dicono comunemente i vignaioli, “botrite”, può avere conseguenze disastrose per il raccolto. In alcuni casi particolari e per certi tipi di vini speciali si lascia sviluppare apposta la botrite perché conferisce pregio alle uve, insieme al d altri fattori connessi con la ritardata maturazione. Le sostanze che avvolgono la buccia sono chiamate in questi casi “muffe nobili”. Vini che si avvalgono dell’apporto della “pourriture noble” sono il Tokaj ungherese e lo Chàteau d’Yquem, ma ne abbiamo parecchi anche in Italia, tra cui il Picolit.

Va anche ricordato che le sostanze minerali contenute nella polpa sono date dai sali che la vite ha assorbito dal terreno e che costituiscono le ceneri del mosto e del vino.

Elementi temibili per la stabilità del futuro vino sono il ferro e il calcio. Il primo, se presente in notevoli proporzioni, provoca dannosi intorbidamenti. L’uva e il mosto contengono vitamina A, B, C ed altre in quantità variabile. I vinaccioli cedono al mosto soprattutto tannino, in quantità tanto maggiore quanto più lungo è il tempo di contatto.

Influenza dell’ambiente

La vite ha una grande capacità di adattamento all’ambiente, tollera anche estremi termici notevoli, ma occorrono determinate temperature minime per i suoi principali fenomeni vitali. Per esempio, perché avvenga la fioritura, la temperatura deve raggiungere almeno i 16 °C. Per la maturazione occorrono da 18 a 23 °C. Talvolta può essere la luce a supplire a qualche difetto di temperatura. Un eccesso di precipitazioni, inoltre, in tutte le fasi vegetative, favorisce lo sviluppo delle malattie crittogamiche. Più che la siccità, la vite teme l’umidità, le brine primaverili, le nebbie troppo frequenti, le rugiade troppo abbondanti, i venti impetuosi. Salvo alcuni tratti della pianura padana, non c’è praticamente regione italiana dove la vite non sia coltivata. In Valle d’Aosta, in Valtellina, nel Trentino-Alto Adige, la vite si spinge a limiti decisamente notevoli, non tanto come latitudine, ma come altitudine. I vigneti da cui si ricava il Blanc de Morgex sorgono su fasce di terreno che superano i 1000 metri di quota. Va segnalato che, di regola, il limite è di 600 metri, ma in Valtellina e nel Trentino-Alto Adige molti vigneti si spingono fino a 800–900 metri sul livello del mare. Come dice Guyot, la vite chiede “quel po’ di acqua, di nutrimento e di sole che le sono strettamente necessari”. Però dal punto di vista enologIco ed agro-economico il problema si fa più complicato. A seconda delle varie zone vinicole, per le quali va accertata la vocazione», occorre innanzitutto scegliere le varietà di vitigni di sicuro successo, anche per quanto concerne l’accrescimento e la maturazione dell’uva. Con la sua lunga estensione in latitudine, la Penisola comporta differenze notevoli di clima e di temperatura. Abbiamo a disposizibne una varietà di vitigni eccezionale, gran parte dei quali collaudati per esperienza secolare, ma per la scelta è di norma preferibile attenersi alle varietà locali.

Infatti ogni vitigno è adatto specialmente all’ambiente in cui è sorto o nel quale è coltivato da secoli. Il ricorrere a varietà proprie di altre regioni costituisce sempre un rischio: in alcune zone dove sono stati introdotti vitigni impropri per la ricerca di una maggiore produttività non sempre si sono ottenuti risultati validi. I fattori che influenzano maggiormente la qualità dell’uva sono: il vitigno, il clima e il terreno. Per un’uva di buona qualità viene richiesto di norma un clima mite, di media collina, ventilato, senza ristagno di umidità primaverile o estiva, con giusto grado di insolazione e di piovosità.

I terreni migliori per i vigneti — dicono i tecnici — sono quelli di medio impasto, fertili, di composizione equilibrata, ricchi di potassio, bene esposti, possibilmente in leggero declivio. Riassumendo, si può dire che il vino buono deriva dall’uva sana e adatta a quel tipo di vino (o da una mescolanza di uve, sempre sane). Quest’uva ideale, ripetiamo, è in funzione di un trinomio: vitigno, clima e terreno.

La coltivazione

La vite può moltiplicarsi per via gamica — il seme — o per via agamica, cioè con talee e propaggini. Non si usa la moltiplicazione per semi se non per produrre nuove varietà e nuovi ibridi. In tutti gli altri casi si utilizzano le talee o barbatelle, che sono piante giovanissime fornite di radici fittizie a forma di barba. Si chiamano anche margotte di vite e ci sono appositi vivai specializzati per i rifornimenti. Questi appezzamenti di terra si chiamano barbatellai ed esercitano una funzione importante nel campo vitivinicolo.

Generalmente come talea viene utilizzato un pezzo di tralcio di un anno, con almeno due gemme. A uno o due anni dall’innesto, le barbatelle o pianticine vengono trapiantate nel vigneto, preferibilmente in autunno, a una distanza che varia secondo la forma di allevamento. Le colture più diffuse sono a spalliera, cioè sorrette da un’intelaiatura, e a pergolato. In questo caso, l’impalcatura a sostegno delle viti è costituita da due file di pali, o colonnette di cemento, congiunti al vertice da elementi orizzontali ad un’altezza dal suolo tale da consentire il passaggio di addetti alla lavorazione o all’immutabile rito della vendemmia. La coltura ad alberello, così tradizionale nell’Italia centro-meridionale, cioè con piante singole potate a forma di albero, sempre di bassa statura, va gradatamente scomparendo anche in Puglia, per far posto a sistemi più aggiornati.

Nei vigneti specializzati le viti variano come numero da 2000 a 10000. Per i sistemi si tiene conto dei terreni, dei climi e delle pendenze. Si cerca di rendere stabili più che si può le attrezzature perché i costi sono elevati e il materiale facilmente deteriorabile. Anche i pittoreschi vigneti con le viti maritate agli alberi (aceri o olmi), tradizionali nella zona di produzione del Lambrusco e in Campania, vanno gradatamente scomparendo e ne prendono il posto i sistemi tipo Guyot, Sylvoz e altri, sempre di impronta specialistica.

II terreno, nel caso di nuovi impianti, va preparato a volte con profondi scassi, o sbancamenti di rocce. Occorre una concimazione frequente ed anche l’irrigazione. Annualmente la vite richiede almeno tre lavorazioni del terreno: una più profonda nel periodo di riposo, una media in primavera, una superficiale nel mese di agosto. Tralasciando le altre operazioni secondarie relative al terreno, sono invece di grande importanza i trattamenti antiparassitari contro le principali malattie crittogamiche quali l’oidio e la peronospora.

La vendemmia

La conclusione delle fatiche che durano ininterrottamente tutto l’anno si ha con la vendemmia. Questa pittoresca operazione di raccolta dell’uva che ha stimolato tante fantasie descrittive e pittoriche, ma per la quale è difficile reclutare operatori volonterosi e capaci (anche in considerazione del fatto che si conclude in brevi termini), può essere fatta in un arco di tempo che varia tra i mesi di luglio e ottobre, più raramente novembre. In genere si raccolgono prima le uve bianche, per gran parte delle quali viene consigliato ai vignaioli di non oltrepassare il limite di giusta maturazione, caso mai di anticiparlo.

Le uve nere si vendemmiano quasi sempre nel mese di ottobre. Le prime uve si ottengono di solito nell’Italia meridionale, ma certi Pinot vengono vendemmiati in agosto anche in settentrione. Uve tardive possono essere considerate quelle dei vitigni Sangiovese e Montepulciano delle Marche e degli Abruzzi; con l’Aglianico della Basilicata si va a novembre. Diverse volte si vendemmia in novembre anche nella zona dei Nebbioli piemontesi e dei Barbaresco, in provincia di Cuneo. Può essere considerato un vantaggio cogliere le prime nebbie, a patto che l’umidità non sia troppo elevata e segua subito dopo il sole.

Con la specializzazione e il progressivo abbandono delle colture miste, tipo vite e olivo, la produzione di uva per ettaro é generalmente, aumentata. I disciplinari che regolano la produzione dei vini Doc (denominazione di origine controllata) però stabiliscono delle limitazioni precise. Per il Barbaresco e per il Barolo, ad esempio, sono ammesse produzioni non superiori, in ogni caso, a 80 quintali per ettaro. Per il Chianti 125 quintali per ettaro, per il Chianti Classico 115 quintali, per il Frascati 130 quintali, per l’Ischia bianco o rosso 100 quintali. Alcune rese sono state criticate perché ritenute troppo abbondanti, ma in genere i risultati delle vendemmie sono sempre inferiori al massimo, che si ottiene solo nelle annate estremamente favorevoli. Come abbiamo detto, la conclusione annuale delle lunghe fatiche nella vigna é costituita dalla vendemmia. Valutare il momento di cogliere l’uva non è facile, anche perché possono incombere sfavorevoli e imprevisti eventi meteorologici. Ogni volta sorgono dubbi e paure, il vignaiolo scruta sovente il cielo con molta trepidazione. Talvolta si pente di avere anticipato l’operazione di raccolta.

L’uva va vendemmiata nel momento della sua giusta maturazione fisiologica. L’epoca può essere leggermente spostata a seconda delle condizioni atmosferiche o del tipo di vino che si vuole ottenere. Occorre seguire scrupolosamente la maturazione fino al momento in cui l’acino da verde diventa giallognolo o giallo per le uve bianche e violaceo per le rosse; contemporaneamente l’acino aumenta anche di volume. Si verifica, in questa fase, il fenomeno più importante, la formazione di zuccheri; il «tenore zuccherino» viene misurato con appositi strumenti.

Per rendersi conto del grado di maturazione è preferibile non affidarsi al metodo empirico dell’assaggio, ma attendere il responso dei mostimetri e refrattometri dei laboratori gestiti dai consorzi o da altri enti.

La vitivinicoltura moderna non si affida più ai proverbi di stampo contadino, ma agli enotecnici e agli specialisti degli ispettorati agrari. Per i vini bianchi, che necessitano di alta percentuale di acidità, é sempre bene anticipare il raccolto. Specie per le uve Pinot, dalle quali si ricavano gli spumanti, la raccolta anticipata costituisce un fattore determinante. Quando, a causa di piogge persistenti, esiste il timore di uve malsane dalle quali discenderanno vini altrettanto imperfetti, soggetti alla “fioretta” (Mycoderma vini), si raccoglie l’uva anticipatamente per evitare danni maggiori.

Esistono delle regole per la raccolta dell’uva che è bene seguire. Intanto è sconsigliabile staccare i grappoli nelle primissime ore del mattino o subito dopo la pioggia. In questi casi si verifica una diminuzione del tenore zuccherino.

Inoltre, il grappolo a causa dell’umidità risulta più facilmente attaccabile dalle muffe. Molto importante è la «cernita» delle uve che va fatta subito al momento del raccolto. Di solito vengono separate da una parte le uve per il vino «scelto», dall’altra le uve per vini meno pregiati. Vanno scartati decisamente i grappoli intaccati dal marciume perché guastano anche quelli sani e conferiscono, come minimo, cattivi sapori al vino.

Il raccolto più razionale si ottiene impiegando ceste o cassette di legno o di plastica e maneggiando l’uva con molta accuratezza. Specie in colline dai pendii aspri, vengono adoperati bigonci che possono contenere anche 50 chili o più. Non è però conveniente ammassare troppo l’uva.

La raccolta dell’uva fatta con apposite macchine, come si usa comunemente nei vigneti della California, trova molte difficoltà ad essere applicata in Italia. Siamo ancora nella fase sperimentale, tenendo conto che questo sistema non può essere usato nei vigneti impiantati su terreni in notevole pendenza o addirittura scoscesi, come accade ad esempio in Valtellina.

Per le uve di grande pregio, la raccolta meccanizzata risulta totalmente inadatta, trattandosi di un prodotto particolarmente delicato che richiede cure amorose e molte precauzioni nel maneggiarlo.

Come si fa il vino

La prima operazione conseguente alla vendemmia è la pigiatura dell’uva, ossia la riduzione dell’uva in mosto. La pigiatura ha lo scopo di provocare la rottura della buccia e la fuoruscita della polpa dell’acino. Solo alcune piccole aziende di carattere familiare pigiano l’uva con i piedi nudi in vasche rettangolari di legno a un solo fondo o su doppi fondi. Se si pigia su un fondo solo, il mosto va asportato subito affinché non crei ostacoli per l’altra uva. Logicamente, la pigiatura meccanica è considerata il miglior sistema e anche il più economico per una vinificazione razionale. Con i metodi più aggiornati si ottiene subito la separazione del mosto dalle scorie che sono rappresentate dai graspi, dai vinaccioli e dalle bucce, quell’insieme che forma le cosiddette vinacce.

Queste vinacce vengono fatte macerare, per un periodo più o meno lungo, in alcuni tipi di vinificazione unite al mosto nella fase di fermentazione, ma la pratica della separazione delle scorie principali, e cioè i graspi, è ormai entrata nell’uso corrente.

Le pigiatrici sono macchine dotate di una tramoggia nella quale viene immessa l’uva da pigiare. Dalla tramoggia l’uva passa tra due cilindri scanalati i quali, ruotando in senso opposto tra di loro, eseguono un lavoro di schiacciamento degli acini. Il pigiato cade in un cilindro metallico forato che mediante un sistema rotante riesce ad eliminare i graspi che non andranno a fermentare nei tini. La buccia, i vinaccioli e il mosto liquido cadono in un tino sottostante.

Senza addentrarci in spiegazioni troppo particolareggiate, diciamo che i sistemi di diraspatura (senza i graspi) e non diraspatura (con i graspi) presentano i loro vantaggi e svantaggi. La presenza dei graspi, ad esempio, é utile per i vini che si vogliono particolarmente tannici, colorati o aromatici, in quanto essi facilitano la solubilizzazione del tannino; ne viene anche accelerata la fermentazione stessa.

La fermentazione

Questa complessa operazione per trasformare il mosto in vino si conosceva fino dal tempo degli Assiri, ma furono i Romani a perfezionarla. Fermentazione viene dal latino fervére e significa bollire. Infatti assomiglia molto al sobbollimento di un liquido. Quello ottenuto dalla pigiatura si presenta torbido, denso, appiccicaticcio, di sapore dolce e nello stesso tempo acido. Viene posto a fermentare negli appositi tini, dove viene lasciato per un certo periodo di tempo. Non bisogna abbandonare il mosto in fermentazione in balia di se stesso: si potrebbero ottenere risultati disastrosi.

Il mosto è composto da una parte liquida e da una parte solida (le bucce e i vinaccioli). Queste parti solide, avendo peso specifico inferiore al liquido, tendono a salire in superficie e quindi a separarsi dal liquido. La loro risalita é facilitata dall’anidride carbonica che rigonfia le parti solide. La vinaccia che risale in superficie e che si separa dal liquido prende il nome di «cappello». A contatto con l’aria il cappello si ossida e non bisogna permettere che questo si verifichi. Ecco perché si dice che la vinificazione, di solito, avviene a «cappello sommerso». Per affondare questo cappello ci si serve di bastoni muniti di pioli che si chiamano “follatori” oppure si dispone sulla parte superiore del tino un graticcio di listelli di legno. Nelle grandi vasche di fermentazione si usa il sistema del cappello emerso perché il recipiente ha un soffitto, quindi non è scoperto.

La fermentazione alcolica viene divisa in due periodi: fermentazione tumultuosa e fermentazione lenta. La prima fa seguito alla pigiatura dell’uva e va fino alla svinatura; la «lenta» prosegue poi fino alla completa trasformazione degli zuccheri in alcol.

La svinatura è l’operazione che permette di separare le vinacce dal mosto fermentato che si avvia a diventare vino; il prodotto che se ne i ottiene viene chiamato «vino fiore».

I classici sistemi di vinificazione

In bianco 

— Questo sistema è generalmente usato per i bianchi, per i quali si richiede un leggero colore, gusto liscio, delicato, senza tannicità. Principalmente consiste nella separazione immediata, dopo la pigiatura, delle vinacce dal mosto, il quale comincia a fermentare soltanto dopo tale separazione.

In rosso 

— Questo sistema consiste nel far fermentare il mosto di uve nere a contatto delle vinacce per alcuni giorni, durante i quali una certa percentuale di zucchero subisce la trasformazione in alcol. La durata del contatto dipende dalla qualità dell’uva e dal tipo di vino da produrre, nonché da fattori ambientali.

In rosato 

— Consiste nella fermentazione in bianco-rosato di mosti ricavati da uve nere. Questo sta a significare che il vino rosato non deriva dal semplice taglio fra vini bianchi e rossi, sistema troppo semplicistico, ma da una scrupolosa e appropriata tecnica di lavorazione di determinate uve. Il «cerasuolo, ad esempio, è un vino con qualità intermedie fra il rosato e il rosso.

Cure al vino nuovo

Sono molto importanti e consistono nelle colmature, nei travasi e nei controlli analitici. Come ho già accennato, la presenza di aria sulla superficie del vino è dannosa, per cui va ripristinato il massimo livello con aggiunta di altro vino sicuramente sano e di buona qualità. Talvolta è necessario ricorrere ad uno strato di vaselina pura per preservare il vino dal contatto con l’aria.

Travasi 

— Questi passaggi del vino da un recipiente all’altro vanno eseguiti con molta cura. ll primo avviene a fermentazione ultimata: il vino viene «svisato» e posto nelle botti. E’ ancora molto torbido, però grazie all’abbassamento della temperatura ambiente (d’inverno) e alla quiete, deposita le sostanze che ha ancora in sospensione e che provengono dalle parti solide dell’uva.

I vini rossi di buona costituzione, ricchi tannino, diventano presto limpidissimi. Si rende allora necessario il travaso in altre botti da effettuarsi a dicembre; un altro segue a marzo; poi un altro ancora a settembre quando si approssima o è già in corso un’altra vendemmia.

Per i vini da invecchiamento, negli anni successivi, é sufficiente un solo travaso all’anno. Al termine di queste operazioni di chiarificazione e precipitazione spontanee, il vino risulta più stabile e brillante, a meno che non siano nel frattempo intervenute azioni batteriche nocive. Va tenuto presente che il miglior vino é quello che presenta un minor numero di scorie o di residui superflui.

Va seguita con attenzione l’evaporazione che si verifica nelle botti, attraverso i pori del legno. Occorre procedere alla colmatura delle botti, almeno una volta alla settimana, con vino sano. Per questa operazione si segue il calo di appositi bicchieri posti sulla sommità della botte, o con altri sistemi, che segnalano i mutamenti avvenuti.

Intorbidamento 

— Un inconveniente cui quasi tutti i vini vanno più o meno soggetti è l’intorbidamento, causato dall’insolubilità del cremortartaro.

Un rimedio naturale é rappresentato dall’abbassarsi della temperatura, tramite il freddo invernale.

Ma esistono anche altri sistemi maggiormente tecnici perché gli sbalzi termici troppo bruschi possono danneggiare il vino.

Una filtrazione accurata si ottiene con il passaggio del vino attraverso strati filtranti, composti con tela, cellulosa, amianto in fibre. Logicamente con i travasi la chiarificazione avviene spontaneamente tramite la forza di gravità. Tuttavia vari agenti esterni possono favorirla, oppure ostacolarla, provocando delle coagulazioni e degli intorbidamenti che formeranno egualmente dei depositi, sempre fastidiosi. I bianchi e i vini provenienti da uve immature presentano maggiori difficoltà. In tal caso si procede alla chiarificazione dei vini con varie sostanze, come il bianco d’uovo e le gelatine.

I componenti del vino

Per chi si occupa di vitivinicoltura ed enologia, anche a livello di semplice appassionato, è importante dare almeno uno sguardo alla composizione del vino, per cercare di penetrare i segreti della sua intima struttura. Intanto, poiché il vino deriva dal mosto (che si ricava dall’uva fresca mediante pigiatura, sgrondatura o torchiatura), è evidente che molte sostanze dal mosto passano al vino e qualcuna di esse diminuisce percentualmente mentre altre aumentano.

Che cos’è il vino? Domanda semplice, ma vediamo cosa dice in proposito la legislazione italiana: Il vino è il prodotto della fermentazione alcolica totale o parziale dell’uva fresca ammostata con gradazione alcolica di almeno tre quinti della gradazione complessiva. L’enotecnico potrebbe aggiungere che questa bevanda è una soluzione idroalcolica (vale a dire un composto di acqua e alcol) nella quale si trovano disciolti numerosi componenti acidi, salini, organici, aromatici che a tale soluzione conferiscono particolari proprietà organolettiche e sapori variatissimi.

Sotto l’aspetto più compiutamente chimico, la soluzione idroalcolica é molto complessa ed è formata da numerose specie molecolari, aventi un andamento evolutivo promosso dagli enzimi e portato a compimento dai microrganismi presenti nella sostanza in cui hanno il loro ambiente naturale, che varia a seconda dei rapporti in cui si trovano i suoi componenti e con reazioni diverse a seconda dei trattamenti che il vino ha subito ad opera di coloro che lo producono e lo portano a maturazione.

Probabilmente non esiste un altro alimento tanto complesso per tutte quelle sostanze che si formano durante la fermentazione alcolica, la fermentazione malolattica, le fermentazioni secondarie e durante il periodo di invecchiamento.

Nella sua costituzione sono stati ravvisati oltre duecento elementi, ma si parla di un numero ben superiore, anche se non ancora totalmente definito.

Vediamo di analizzare brevemente la composizione del vino.

Acqua 

— Considerazioni scherzose a parte, è la principale componente del vino. Si trova nella stessa quantità presente nel mosto, con una percentuale che varia dal 70 all’85 per cento.

Alcol etilico 

— In ordine di importanza viene subito dopo l’acqua ed è presente in quantitativi che variano dal 4,5 al 19 per cento per i vini fortemente alcolici. Esso deriva dalla fermentazione degli zuccheri presenti nel mosto (glucosio e fruttosio) ad opera dei lieviti. La gradazione alcolica può essere “svolta”: è l’alcol effettivamente contenuto nel vino. La gradazione potenziale fa riferimento all’alcol che si svilupperà se si farà fermentare lo zucchero indecomposto ancora contenuto nel vino. La gradazione complessiva infine altro non è che la somma di quella svolta e di quella potenziale.

L’alcol etilico ha grande importanza nel vino perché, oltre al “carattere”, conferisce al prodotto un margine di sicurezza contro l’attacco di microbi patogeni che diminuirebbero la sua conservabilità.

Altri alcoli 

— Sia pure presenti in modesta quantità, hanno la loro importanza in quanto concorrono durante l’invecchiamento alla formazione degli esteri, sostanze che influiscono sullo sviluppo degli aromi. Citiamo — oltre all’alcol metilico — il propilico, il butilico e l’amilico, nonché la glicerina, alcol trivalen-te: questa conferisce al vino morbidezza.

Acidi 

— L’insieme degli acidi organici e inorganici costituisce l’acidità, molto importante dal punto di vista della degustazione (viene subito dopo gli alcoli).

L’acido tartarico é quantitativamente il più importante, poi vengono l’acido malico e l’acido citrico, già presenti. nel mosto. L’acido succinico e il lattico derivano invece dal processo fermentativo.

Tra gli acidi volatili il più importante é l’acido acetico, che però deve essere moderatamente presente nei vini provenienti da uve sane. L’insieme dell’acido acetico e dell’acido lattico, nonché degli esteri volatili e dell’aldeide, compongono la cosiddetta «acidità volatile», a volatile (perché si separa mediante distillazione) insieme all’acidità fissa (che è l’insieme degli acidi organici contenuti nell’uva) forma l’acidità totale, da cui dipendono la salute, la freschezza e la buona conservazione del vino.

Secondo la legislazione italiana, i vini per il consumo diretto non debbono avere un contenuto in acidi volatili che superi un decimo della gradazione alcolica.

Minerali 

— Oltre agli acidi organici, il vino contiene gli anioni degli acidi minerali (come il solforico, il cloridrico, il fosforico, il salicilico e altri) che sono totalmente combinati, ovvero salificati, dai cationi (potassio, calcio, magnesio, sodio, alluminio, ferro, manganese, rame, arsenico), tutti elementi che la vite assorbe dal terreno e che ritroviamo nel vino. Tali componenti possono variare da poche decine di milligrammi a 300 o 400 milligrammi per litro.

Zuccheri 

— Nei vini secchi rimangono pochissime tracce di zuccheri dopo la fermentazione alcolica. Comunque essi non mancano mai e contribuiscono a rendere il gusto più o meno morbido. Si parla di vini amabili quando gli zuccheri presenti nel vino sono nell’ordine dall’1 al 3 per cento. Quantità maggiori danno luogo ai vini dolci. I filtrati dolci possono arrivare anche a 70 grammi di zucchero per litro. Oltre al glucosio e fruttosio, sono presenti anche altri zuccheri speciali.

Sostanze coloranti 

— Possono essere più o me-’ no presenti nel vino non solo in dipendenza di ciò che è contenuto nella buccia dell’uva, ma anche del sistema di vinificazione.

Le uve bianche sono colorate dai flavoni che conferiscono ai vini quel colore giallo più meno accentuato. Nelle uve nere o rosse oltre ai flavoni sono presenti gli antociani, sostanze di colore che variano tra il rosso, il violaceo e l’azzurro. Tra queste sostanze si distingue l’enina, che si trova nella buccia dell’acino.

Dalla quantità dei pigmenti presenti nell’uva e nel vino deriva l’intensità colorante degli stessi e la gamma di tonalità dei vini bianchi e rossi. In taluni vini bianchi, la clorofilla dona tonalità verdoline.

Molto vicine alle sostanze coloranti sono le tanniche, il cui principale componente é il tannino; la sua presenza, a seconda della quantità, fa giudicare il vino aspro, astringente, allappante e ruvido. Le bucce contengono parecchio tannino, in proporzione da l a 5 in confronto alle bianche. Poiché questo composto sarebbe un calmante del sistema nervoso, si dice che i vini rossi sono più adatti dei bianchi per le persone che hanno un sistema nervoso scosso.

Composti organici 

— Nel vino sono contenuti parecchi composti organici di natura complessa, che influenzano i caratteri organolettici accrescendone il valore nutritivo: sostanze azotate, mucillagginose, gommose e pectiche. Queste ultime sono degli idrati di carbonio che si trovano nel mosto allo stato colloidale e vengono anche chiamati colloidi protettori, in quanto ostacolano altre precipitazioni nocive. I protidi o sostanze azotate si trovano nel mosto in quantità minime, tuttavia la loro presenza é necessaria in quanto sono gli alimenti perì lieviti della fermentazione alcolica. Queste sostanze allo stato colloidale contribuiscono poi, in seguito a fermentazioni secondarie, a conferire il caratteristico bouquet al vino.

Costante è la presenza dei gas: di essi l’anidride carbonica è uno dei più importanti fra quelli che si sviluppano durante la fermentazione alcolica. Ogni successiva rifermentazione, possibile nei vini aventi dello zucchero residuo, porta alla creazione di nuova anidride carbonica; lo stesso avviene nel corso della fermentazione malolattica.

L’ossigeno è indispensabile per la moltiplicazione dei lieviti nella prima fase della fermentazione alcolica ed è necessario all’affinamento dei vini pregiati.

E’ con questo mezzo che avviene la conservazione per lunghi anni nei recipienti di legno. Un gas che si manifesta sovente nei vini e che può conferire un cattivo odore di uova fradice è l’idrogeno solforato. II difetto viene elimina to mediante l’aerazione. E’ infine presente l’azoto, che però resta inerte e non avvertibile alla degustazione.

I processi enzimatici, quali l’invertasi, entrano nei processi di scomposizione del saccarosio in glucosio e fruttosio. Infine, parte delle vitamine contenute nell’uva si ritrovano nel vino. La vitamina C ha tra l’altro un effetto antiossidante. Siccome le vitamine sono sensibili ai troppo bruschi sbalzi di temperatura, quando i mette in opera la pastorizzazione del vino i solito eseguita per rendere più stabili vini i consumo corrente restano distrutte.

Analisi chimica

Ha lo scopo di determinare la quantità dei vari componenti del vino. Ciò può dare utili indicazioni, sia per giudicare il suo stato di evoluzione che per stabilire i trattamenti e le cure eventuali cui sottoporlo. Le analisi compiute di solito (a parte altre indagini più complesse) riguardano la determinazione dell’alcol, degli acidi fissi e volatili, degli zuccheri e infine delle sostanze estrattive.

La determinazione dell’alcol si effettua per mezzo di apparecchi chiamati ebulliometri.

L’acidità totale viene espressa in acido tartarico (tot grammi per litro) anche se a determinarla concorrono gli innumerevoli acidi presenti nel vino, sia in forma libera sia salificati. Servendosi della stessa reazione chimica svolta per determinare l’acidità totale, con gli esami di laboratorio si può stabilire il quantitativo di acidi volatili, che vengono separati l dagli acidi fissi mediante un flusso di vapore acqueo. Sempre attraverso l’analisi chimica si può determinare la quantità di zuccheri, ancora espressa in grammi per litro.

Per estratto secco si intende l’insieme di quelle sostanze non volatili che restano dopo che il vino è stato fatto evaporare. Esso comprende quindi gli acidi fissi, le sostanze minerali assorbite dalla vite attraverso il terreno, quali gli acidi inorganici salificati con potassio, magnesio, calcio e sodio; la glicerina, gli zuccheri, gli amidi, le pectine, le gomme, mucillaggini, sostanze azotate e coloranti.

Questo complesso che costituisce il «corpo del vino» varia da un minimo di 15 a un massimo di 30 grammi per litro, eccezion fatta per lo zucchero. Sono due i sistemi di determinazione: diretto e indiretto. Il primo mediante evaporazione e pesatura dei residui, il secondo tramite un rapporto tra la densità del vino e quella del suo distillato alcolico.

Grado alcolico

Il tenore di alcol svolto nei vini asciutti (completamente fermentati) e il tenore dell’alcol complessivo nei vini amabili servono come base nelle contrattazioni per stabilire il prezzo, in quanto si suppone che ad alte percentuali alcoliche corrispondano vini più sani e più buoni. La gradazione legale minima per i vini immessi ai consumo è fissata dalla legge in 10 gradi. Per i vini Doc la gradazione legale è stabilita dal disciplinare di produzione. Per determinare i pregi dei grandi vini, oltre al fattore alcolico, intervengono valori assai più importanti. Per ottenere il prezzo di un ettolitro di vino si moltiplica il prezzo per grado per il numero dei gradi riscontrati nel vino. Esempio: vino da 11 gradi, moltiplicati per lire al grado uguale a lire 44 000 all’ettolitro.

Malattie del vino

I progressi tecnologici compiuti in ogni campo, e naturalmente anche nell’enologia, escludono praticamente la presenza sul mercato di vini malati, come invece accadeva un tempo, quando il vino era commerciato sfuso, in damigiane e bottiglioni, non sempre ben tappati. Vale comunque la pena di conoscere malattie e difetti principali dei vini onde premunirsi in certi casi, per fortuna non frequenti. Quando si manifestano, le alterazioni sono per lo più di origine microbica, poiché taluni microrganismi trovano condizioni favorevoli per il loro sviluppo.

«Fioretta» 

— E una delle malattie più comuni, causata dalla trasformazione dell’alcol etilico. Il vino colpito presenta sulla superficie un velo biancastro molto fragile, che poi assume un colore grigiastro che tende a salire lungo le pareti del recipiente, sia esso botte, fiasco o bottiglia. A livello familiare può capitare quando si infiasca in proprio e appare questo strato sul collo della damigiana, o si notano puntini biancastri affioranti sulla superficie. Non è un difetto grave, si può eliminare con filtrazioni. In gergo tecnico per far scomparire la fioretta si procede ad una scolmatura.

Acescenza o spunto 

— L’alterazione può essere più o meno grave e in questo caso il vino sa decisamente di aceto, per cui bisogna evitare di berlo: lo stesso palato mette in allarme il consumatore. Lo «spunto corrisponde alla fase iniziale, in uno stadio più avanzato si determina l’acescenza cioè si sviluppa quel Mycoderma aceti che fu già isolato dal grande Pasteur. Il difetto è praticamente ineliminabile. Si verifica, in genere, quando i vini sono di gradazione alcolica troppo bassa e mancano di stabilità.

Agrodolce o fermentazione mannitica 

— Si sviluppa in certi casi nei vini giovani, specie in quelli di tipo amabile, con basso valore di acidità: il vino presenta delle particelle in sospensione e tende ad intorbidarsi.

Presenta inoltre un sapore dolciastro, come un frutto che abbia superato i limiti di maturazione, con aggiunta di una punta fastidiosamente acida. Il fenomeno è provocato da microbi che trasformano gli zuccheri del vino in mannite. I vini scrupolosamente lavorati non presentano mai questo inconveniente; in fase di produzione il difetto viene eliminato con aggiunta di anidride solforosa. Tale ag-giunta va calibrata scrupolosamente; altrimenti quando il consumatore beve il vino può andare incontro a cefalee.

Il girato 

è una malattia che si sviluppa di solito nei mesi estivi, con il gran caldo, e l’insorgere del fenomeno è caratterizzato dallo sviluppo di bollicine di anidride carbonica. Il vino si intorbida e si scolora e prende un odore poco gradevole, come se fosse invecchiato precocemente. L’inconveniente é fra i più gravi: se affrontato dal produttore di vino all’inizio, può essere rimediato con la pastorizzazione del vino e con una filtrazione molto accurata; se si verifica nella cantina del privato, il vino è da buttare.

Il filante o grassume 

si verifica particolarmente a carico dei vini dolci che diventano, in questa circostanza, torbidi ed oleosi.

L'amaro 

è una malattia che colpisce i vini rossi nella fase di invecchiamento. Si verificano i seguenti sintomi: intorbidazione, attenuazione del colore, sapore decisamente amaro. I produttori curano questi inconvenienti con carboni vegetali attivi.

I carboni

— diciamolo per inciso — sono permessi dalla legge. Riescono quasi sempre ad eliminare gli odori estranei.

Gli oli enologici (meglio dell’olio d’oliva che si usava un tempo) sono parimenti utili per proteggere la superficie del vino dal contatto con l’aria in botti, damigiane e fiaschi. Va precisato che sia i carboni sia gli oli sono insolubili nel vino e quindi non possono produrre alterazioni di sorta, né del gusto, né dell’aroma. Questo discorso vale per tutti gli altri additivi e coadiuvanti, tipo colle, gelatine o minerali silicei, tutti prodotti pure innocui e insolubili. Se ben impiegati, giovano al vino e ne perfezionano le caratteristiche. #Divino

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