Il girone infernale dei vestiti
Aisha è una giovane mamma indiana. Si sveglia alle 4 e mezza per fare il bucato, cucinare, accudire i suoi tre bambini, alle 7:30 inizia il turno in fabbrica. 12 ore a cui si aggiungono gli straordinari, non pagati. Aisha guadagna 85 euro al mese. Per arrivare puntuale a volte non riesce a mangiare nulla, un minuto di ritardo le costa un’ora di salario. È svenuta due volte, Aisha, la seconda hanno dovuto portarla all’ospedale. Nelle fabbriche, le operaie svengono spesso. Succede anche in Europa, in Bulgaria, per esempio, le storie di operaie mal pagate e sfruttate fino a perdere i sensi sono molte.
Prima della pandemia, Siddharth Kara, un professore di Harvard e Berkeley esperto di schiavitù moderna, ha fatto uno studio sulle condizioni delle donne che lavorano da casa per l’industria dell’abbigliamento. Donne ma anche tante bambine, perché nel cucito le piccole dita lavorano con maggiore precisione. L’85% dei vestiti che cuciono è destinato al mercato occidentale.
Decorazioni, ricami, frange e lustrini confezionati con tanta maestria su quel bel vestitino che avete adocchiato in vetrina, li hanno ricamati piccole schiave retribuite 20 centesimi l’ora. Petar lavora per una fabbrica di abbigliamento in Bulgaria, la Koush Moda. “Entri in fabbrica alle 8 di mattina, -dice- ma non sai mai quando ne uscirai. A volte torniamo a casa alle 4 del mattino seguente”. Paga: 320 euro al mese.
Euronews ha condotto un’inchiesta in un’altra fabbrica dello stesso paese, stessa paga: si chiama Pirin Tex. Elyna è una di quelle operaie. “Penso che i nostri colleghi dell'Europa occidentale riderebbero” racconta amaramente “a sentir parlare di ciò che guadagniamo. Non ci crederebbero. Ma siamo cittadini europei di seconda classe? Siamo cattivi sarti?” La Pirin Tex non produce per le catene low cost, ma principalmente per Hugo Boss. Un gilet Hugo Boss costa quanto il salario di 10 giorni dell’operaio che lo ha creato.
In Turchia la situazione è identica: 365 euro al mese, si lavora dalle 8 di mattina a mezzanotte. Perché la richiesta e la produzione, ovunque, aumentano a ritmi impossibili. La follia della Fast Fashion ha cambiato radicalmente il mercato: le due collezioni Primavera-estate e Autunno-inverno sono diventate 52, una nuova collezione ogni settimana. Il Fast Fashion è un gioco perverso, la produzione dell’industria tessile è responsabile del 10% delle emissioni mondiali di gas a effetto serra. L’occidente si ingorga di abiti invenduti o smessi: ogni secondo l'equivalente di un camion carico di vestiti viene buttato in una discarica o bruciato. In Europa produciamo 2 milioni di tonnellate di vestiti dismessi all’anno che rispediamo agli stessi paesi poveri da cui sono arrivati.
Abbiamo inventato un nuovo genere merceologico, il Tropical Mix: sono balle da 40-50 kg piene dei nostri vestiti usati che vengono esportati verso il sud del mondo. Partiti dall’inferno delle fabbriche indiane fanno il percorso inverso e ritornano nel sub continente, in altri inferni in cui migliaia di uomini e donne li dividono per qualità, materiale e colore. La roba viene divisa in riutilizzabile e in spazzatura. Poi il tropical Mix riparte, destinazione Africa, dove cambia nome, si chiama Mitumba. Intasa i mercati e le discariche con gli stracci che sono usciti dai nostri armadi, e ammazza la produzione locale.
Il Ghana, che ha 30 milioni di abitanti, riceve 15 milioni di capi a settimana. Lì il Tropical Mix-Mitumba lo chiamano “Akan obroni wawu” vuol dire “abiti dell’uomo bianco morto”. Eppure, basterebbe fare come suggeriva quel geniaccio di Groucho Marx: “Se suona l'uomo della spazzatura, digli che non ne vogliamo…”
Ci hanno provato. Kenya, Uganda, Tanzania, Rwanda e Burundi si sono messi assieme e hanno deciso di bandire l’ingresso di vestiti usati nei loro paesi. Ma gli Stati Uniti li hanno minacciati di sanzioni, e l’unico paese che ha osato sfidare lo zio Sam è stato il Rwanda.
Un altro grande comico americano, Milton Berle, diceva: “Nel mio quartiere il camion dei rifiuti viene due volte la settimana. Per fare le consegne”.
di Diego Cugia #Disociale
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