L’Impermanenza

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«Chi ha ricevuto la vita, non può evitare la morte. Questa è una verità che tutti gli esseri umani conoscono, dall’imperatore fino al più umile cittadino, ma in realtà neanche uno su mille o diecimila prende questa questione seriamente o se ne preoccupa», scrive Nichiren Daishonin nel Gosho Conversazione tra un saggio e un uomo non illuminato (Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 7, pp. 27–28).

«Quando improvvisamente ci troviamo di fronte all’impermanenza della vita [possiamo spaventarci al pensiero dell’ignoto e disperarci per la brevità del mondo a noi familiare], ma consideriamo sfortunati coloro che ci hanno preceduto nella morte, e superiori noi che siamo rimasti in vita. Presi da un impegno ieri e da un altro oggi, siamo vincolati senza scampo dai cinque desideri della nostra natura terrena. Inconsapevoli del fatto che il tempo passa veloce come un puledro bianco visto attraverso la fessura di un muro, ignari come una pecora condotta al macello, irrimediabilmente prigionieri del cibo e del vestiario, cadiamo senza accorgercene nella trappola della fama e del guadagno. E alla fine torniamo nella familiare dimora dei tre cattivi sentieri, ripetendo il ciclo delle rinascite nei sei sentieri dell’esistenza. Quale persona di animo sensibile può non rattristarsi per questo stato di cose e non soffrirne?».

Ma cos’è che fa paura giacché «chi ha ricevuto la vita, non può evitare la morte»? Cosa? giacché «Questo nostro corpo comunque diventerà nulla più del terreno delle colline e dei campi; è inutile attaccarsi alla vita perché, per quanto lo desideri, non puoi trattenerla per sempre. Anche una persona che vive a lungo, non vive oltre i cento anni e tutti gli eventi di una vita non sono che il sogno di un breve sonno»? (Op. cit., vol. 5, p. 180). Cosa? visto che, come dice Shakyamuni nel Sutra del Loto (Esperia, p. 298) «La mia vita dura da un incalcolabile numero di asamkhya di kalpa e durante tutto questo periodo io sono sempre vissuto qui e la mia vita non si è mai estinta»?

È che io non ci voglio credere. È che prendo sul serio il problema «del cibo e del vestiario». È che cado e neanche me ne accorgo, «nella trappola della fama e del guadagno». È che, proprio per questo, continuo a tornare «nella familiare dimora dei tre cattivi sentieri», Inferno, Avidità e Animalità, e a dimenticare che tutto origina dalla stessa cosa. Perché, come dice Daisaku Ikeda, «la sofferenza di nascita e morte, la sofferenza dell’impermanenza, è all’origine di tutte le sofferenze umane, di tutti i malesseri della società moderna» (La saggezza del Sutra del Loto, vol. 3, p. 64).

È che non riesco a credere che la mia vita sia eterna. Poi penso al sonno e a come il mio “io” si perde. A come a volte nella notte mi sveglio e confusa mi domando chi sono. Non ricordo. Per un attimo non sono più niente. E penso a come questo debba somigliare alla morte. Penso a quante volte ho incontrato una persona con la sensazione di averla già vista, già conosciuta; con la sensazione di riprendere un discorso interrotto; penso a come compio un gesto, faccio una cosa, con la certezza di aver finalmente portato a termine qualcosa. Persino quando inizio a recitare Daimoku o quando mi siedo di fronte al Gohonzon, ho la sensazione bellissima, avvolgente, di essere già stata lì. Di aver già visto quella pergamena, di aver già pronunciato quel mantra, Nam-myoho-renge-kyo. Ed è proprio lì davanti che tutti i pezzi si ricompongono.

Che quei riflessi di eternità che percepisco dentro me assumono un senso più profondo, più “rotondo”. Che non si tratta solo di belle o interessanti parole, ma di una porta che, come dice il Sutra del Loto, si può varcare solo con la fede. Lì davanti percepisco che, come spiega il sedicesimo capitolo del Sutra del Loto, la vita è eterna. È una consapevolezza che mi esplode dentro, mentre recito Nam-myoho-renge-kyo; lo scopo di quel capitolo, spiega Daisaku Ikeda (ibidem, p. 67), «è spiegare che non solo Shakyamuni, ma tutti gli esseri viventi sono Budda dall’infinito passato e far sì che ne prendano coscienza aprendo gli occhi alla grande vita universale.

La rivelazione di Nichiren Daishonin di Nam-myoho-renge-kyo, il principio implicito nel Sutra del Loto, lo ha reso possibile. Toda disse: “Lo scopo ultimo di praticare il Buddismo del Daishonin è di risvegliarsi all’eternità della vita, di sperimentare personalmente che la vita è eterna. Allora sperimenteremo l’assoluta felicità, una felicità che dura eternamente e che niente può turbare”. Ciò può essere ottenuto solo con la fede, approfondendo e perfezionando la fede. Toda sosteneva che capire una cosa con l’intelletto è facile, ma afferrarla con la fede è ben diverso. L’eternità della vita si può afferrare solo con la fede».

Solo con la fede. Sento che è in quella lotta quotidiana per realizzare qualcosa, qualunque cosa che lì davanti acquista un valore immenso, che passa questa mia eternità: ecco perché bonno soku bodai, i desideri terreni sono Illuminazione; ecco perché lottare tutti i giorni in questi corpo a corpo con la parte oscura di sé ha così tanto significato.

Solo con la fede. Ripenso al racconto dell’Illuminazione di Toda in carcere. A quando, «improvvisamente, prima che se ne accorgesse, Toda si ritrovò nel mezzo di un’enorme folla, forse simile ai granelli di sabbia di sessantamila fiumi, intenta a venerare il Dai Gohonzon» (La rivoluzione umana, vol. 4, p. 12). Sento che quella cerimonia è la stessa a cui sto assistendo io, qui davanti, mentre recito Nam-myoho-renge-kyo. Ed enorme e potente come una valanga — che il mio pensiero non riesce ad arrestare, nonostante il piccolo “io” che grida, che si dibatte — cresce la gioia, la certezza di comprendere “davvero” quello che avevo letto sull’esperienza di Toda, di condividere quella «gioia che lo faceva sentire quasi in preda al delirio» (ibidem, p. 13).

E ora non solo comprendo ma mi sento tutt’uno con quella frase del Sutra del Loto che dice: «Non vi è nascita né morte, non vi è esistenza in questo mondo né estinzione. Non è reale né illusorio, non è così né diverso. Non è così come viene percepito da coloro che vi dimorano» (Esperia, p. 298). E ora, qui davanti, mentre la mia bocca pronuncia Nam-myoho-renge-kyo, e la mia mente è finalmente calma, e il mio corpo è cullato da quel ritmo così forte eppure così semplice, ecco che la sento. Quella scheggia di eternità, quel frammento nascosto eppure pronto a esplodere come un fuoco d’artificio in una notte senza luna. E allora, ecco, adesso lo so: «Non c’è nulla di cui rammaricarsi o di cui temere».

Toda sosteneva che capire una cosa con l’intelletto è facile, ma afferrarla con la fede è ben diverso. Nel Sutra del Loto vi è una frase che dice: «Non vi è nascita né morte, non vi è esistenza in questo mondo né estinzione. Non è reale né illusorio, non è così né diverso. Non è così come viene percepito da coloro che vi dimorano» Davanti a queste affermazioni cosa può la mente?

Sempre attraverso il Sutra del Loto, Nam-myoho-renge-kyo ci appare non solo come belle o interessanti parole, ma come una porta che si può varcare solo con la fede. Varcarla non è facile, tanti si fermano sulla soglia, altri la attraversano più volte continuando a tornare «nella familiare dimora dei tre cattivi sentieri» (Inferno, Avidità e Animalità) alcuni una volta varcata non tornano più indietro… questa è l’illuminazione.

(Tratto da una lettera a “Buddismo e società”) #Dibuddismo

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