Resistere nelle epoche oscure (e non solo)
In questi giorni tesi e plumbei, preludio di altri giorni, mesi e anni difficili, per i contraccolpi che la guerra inevitabilmente avrà – sta già avendo – sulla vita di milioni di persone anche al di là dei luoghi in cui oggi si combatte (la crisi alimentare in Africa, la recessione in Europa, l’intensificarsi dei flussi di profughi e migranti economici), mi sono venute in mente alcune riflessioni di Miguel Benasayag, contenute in un’intervista intitolata Resistere in un’epoca oscura (pubblicata come appendice al Discorso della servitù volontaria, a cura di E. Donaggio, Feltrinelli, 2014).
Benasayag è uno psicoanalista e filosofo che ha vissuto la prima parte della propria vita in Argentina, sotto la dittatura. Ha partecipato alla guerriglia, è stato catturato, torturato, ha scontato diversi anni di carcere. Quando parla di “epoca oscura” non pensa però a quel periodo della sua vita, ma a quello successivo. Alla Francia, dove approda dopo essere stato liberato grazie a uno scambio di prigionieri, all’Europa democratica dei nostri anni. Vivere sotto una dittatura – ci dice – significa trovarsi di fronte a scelte drammatiche, ma tutto sommato chiare. “Facili” (con tutte le virgolette del caso). Le epoche oscure sono, invece, quelle in cui la linea di demarcazione tra il bene e il male sfuma, il “nemico” non è nettamente individuabile, la tentazione al conformismo è forte. Paradossalmente – ci dice Benasayag – rimanere fermi nelle proprie convinzioni in queste condizioni è più difficile che opporsi al fascismo conclamato. Pensiamo alla difficoltà di resistere alle logiche della società capitalistica, mortifere, ma al tempo stesso avvolgenti, seduttive, affascinanti. Da cui è facile essere attratti, e di cui è (quasi) fatale ritrovarsi complici. Se pensiamo alla nostra vita di ieri, alla “normalità” pre-covid e pre-guerra in Ucraina, possiamo senz’altro dire che ci trovavamo, più o meno (s)comodamente, immersi in un’epoca oscura: senza montagne da scalare, senza rivoluzioni all’orizzonte, senza (quasi) prospettive. In cui la domanda “che fare?”, in chi ancora nutriva qualche velleità di emancipazione politica, non poteva che dar luogo a mesti ragionamenti sul seminare oggi per raccogliere chissà quando…
Poi il mondo è cambiato. La Storia – di cui era stata decretata la fine – ha subito un’accelerazione, si è messa a correre e a prendere una piega (brutta) che mai avremmo immaginato. E, se non altro, tutto sembra più chiaro: i buoni e i cattivi, il bianco e il nero, la parte con cui schierarsi. In una guerra “giusta”, in difesa della democrazia e contro il dispotismo. Oppure nella lotta contro tutte le guerre e l’economia di guerra, in un contesto che aprirebbe spazi inediti alla “sinistra non omologata”, candidata a farsi interprete della diffusa aspirazione alla pace dei popoli. L’inizio di una nuova epoca luminosa, dunque? Che nel linguaggio di Benasayag non significa meno drammatica o meno pericolosa (anzi!), ma più leggibile nelle sue alternative di fondo, più chiara, più aperta al cambiamento… Dalle parole di Benasayag, in realtà, emergono anche i pericoli che portano con sé le epoche luminose. Primo fra tutti, l’accecamento: «Nell’epoca luminosa non puoi evitare di diventare idiota: tutto sembra talmente semplice! Un organismo sociale, nella sua storia, ha bisogno di entrambe le cose, dunque anche di epoche oscure, perché non sono tempi di pura negatività. Sono epoche di elaborazione profonda. Dopo, quando tornerà un’epoca luminosa, sappiamo bene quello che accadrà: settembre 1944, tutti contenti, tutti partigiani e resistenti – e ci si dimenticherà di noi. Ma non ce ne preoccupiamo troppo. Il nostro lavoro è resistere in un’epoca oscura» (p. 88).
Lungi da me la pretesa di fornire un’interpretazione in chiave “epocale” dei giorni che stiamo vivendo. Due sole osservazioni a margine di questo testo. La prima: quello che sicuramente serve oggi, nel chiaro-scuro in cui siamo immersi, è resistere alla tentazione della semplificazione, della superficialità, dell’“arruolamento delle parole” a servizio dell’uno o dell’altro fronte. Ciò che Bobbio scriveva quasi settant’anni fa sul dovere dell’intellettuale di «seminare dubbi», anziché «raccogliere certezze», di «valutare tutti gli argomenti prima di pronunciarsi, controllare tutte le testimonianze prima di decidere, e non pronunciarsi e non decidere mai a guisa di oracolo dal quale dipenda, in modo irrevocabile, una scelta perentoria e definitiva» conserva – mi sembra – tutto il suo valore (Politica e cultura, Einaudi, p. 15).
Seconda osservazione: se è vero che i sondaggi oggi certificano l’esistenza di una maggioranza di italiani contraria alla guerra (o meglio, contraria all’invio di armi pesanti all’Ucraina), ciò non si sta traducendo in una mobilitazione diffusa per la costruzione di un’alternativa. Le assemblee, i presidi, le manifestazioni che alcuni di noi stanno contribuendo a organizzare e animare, affollate due mesi fa, non vedono oggi la partecipazione delle masse. Alcuni mondi prima scarsamente comunicanti si mescolano e può accadere che all’iniziativa promossa da un gruppo religioso si incontrino il militante di Rifondazione comunista e gli scout. Ma, alla fine, a muoversi sono coloro che già prima erano attenti, informati, disponibili a una qualche forma di impegno. Nulla di nuovo, né di inspiegabile. Ma ciò ci dice della necessità di quel lavoro lungo e faticoso di elaborazione, costruzione di pratiche, intreccio di relazioni, che è compito precipuo delle “epoche oscure”.
di: Valentina Pazé per https://volerelaluna.it – (10/05/2022) #Disociale
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