Ry Cooder

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Difficile è collocare un personaggio singolare come Ry Cooder, musicista, produttore, chitarrista, compositore, interprete, che dagli anni Settanta alla fine del secolo percorrerà in lungo e in largo le strade della musica, dal rock al country, dalla musica cubana a quella araba, dalle colonne sonore al pop, dal jazz al blues.

Secondo lo schema tradizionale, non è un cantautore, non è un rocker, né un campione del pop. Sfugge, per natura, alle etichette e alle definizioni, ma il suo lavoro di recupero delle tradizioni musicali, quella americana in particolare durante gli anni Settanta, e il suo lavoro di musicista e produttore, avranno grandissima influenza. Come ha scritto su “Rolling Stones” Jon Landau: “Cooder è alla perpetua ricerca della nota magica, del sound giusto al momento giusto”.

Interprete sopraffino della tradizione musicale americana, nei primi anni della sua avventura musicale si concentrava sul repertorio più vicino al blues e al tex-mex, ma già verso la fine degli anni Settanta l’eclettismo delle sue scelte ne fa un preziosissimo outsider, in grado di muoversi liberamente tra generi e stili mantenendo saldissima la propria ispirazione, la capacità di far diventare diverse dall’originale le composizioni sulle quali lavora con certosina precisione.

I suoi album degli anni Settanta sono un incredibile catalogo dei linguaggi della musica popolare americana: da “Ry Cooder” (1970), intriso di folk e di blues, a “Into the Purple Valley” (1972), da “Paradise and Lunch” (1974) a “Chicken Skin Music” (1976), Cooder esplora la musica folk e il tex-mex, il blues e il rhythm’n’blues, la canzone e il gospel, per approdare al jazz con “Jazz” (1978) e alle origini del rock’n’roll con “Bop Till You Drop” (1979), primo disco nella storia della musica ad essere stato registrato totalmente in digitale. Negli anni Ottanta dedicherà molto del suo lavoro alla realizzazione di colonne sonore, girerà per il mondo collaborando con musicisti di estrazione e cultura diversissime, africani, indiani, arabi, per approdare al successo planetario, negli anni Novanta, quando farà scoprire al mondo intero la magia della musica cubana con “Buena Vista Social Club”. Negli anni duemila sono da rilevare i suoi “Chavez Ravine” (2005) e “My Name Is Buddy” (2007), ma soprattutto alla collaborazione con Mavis Staples in “Well Never Turn Back” (2007). Nel decennio che va dal 2008 al 2018 Cooder pubblica quattro dischi: I, Flathead (2008), Pull Up Some Dust and Sit Down (2011), Election Special (2012) e The Prodigal Son (2018) non sempre all'altezza delle aspettative ma sempre degli di nota, grazie soprattutto alla non banalità e alle loro motivazioni. Alle stesso tempo continuano le collaborazioni con la pubblicazione di cinque dischi: Hollow Bamboo (con Jon Hassell e Ronu Majumdar) (2000), Mambo Sinuendo (con Manuel Galbán) (2003), il bellissimo San Patricio (con The Chieftains) (2010), Live in San Francisco (con Corridos Famosos) (2013) e l'ultimo di quest'anno Get on board (con Taj Mahal) tra le migliori uscite del 2022.

#Dimusica

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