D͏i͏-s͏p͏e͏n͏s͏a͏

Dimusica

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Se c’è un gruppo che rappresenta magnificamente il passaggio tra gli anni Sessanta e Settanta è quello che mette insieme David Crosby, reduce dall’avventura dei Byrds, Stephen Stills e Neil Young, che erano assieme nei Buffalo Springfield, e Graham Nash, inglese arrivato negli Usa dopo la sbornia beat vissuta in prima fila con gli Hollies. L’avventura iniziò nel 1968, con Crosby, Stills e Nash pronti a mettere insieme quelle straordinarie armonie vocali di cui diventano maestri (perfino i Grateful sostengono di aver imparato da loro quando incidono l’acustico Workingman’s Dead), la tradizione della canzone folk-rock, l’esperienza psichedelica, la lezione californiana delle “famiglie” dei Grateful Dead e dei Jefferson Airplane, con i quali erano particolarmente legati, un gusto pop assolutamente inedito, per produrre un disco d’esordio, nel 1969, che fu un capolavoro, una magnifica fotografia del sentimento dell’epoca, dolcemente in bilico fra un trasognato calore acustico e una più intima alterazione visionaria. Il loro esordio dal vivo fu glorioso, sul palco di Woodstock, e già allora la band si era arricchita della presenza del canadese Neil Young e della sua inconfondibile chitarra elettrica. Il movement era alla fine, il sogno degli anni Sessanta si era infranto, ma per Crosby, Stills, Nash & Young il momento del passaggio dal sogno alla realtà andava raccontato con passione, come riescono a fare in Déjà Vu, nel 1970 e con lo straordinario live 4 Way Street. Dopo quel tour la formazione si sciolse, per riformarsi varie volte nel corso degli anni, con risultati alterni. Ma le canzoni scritte e conservate in questi primi dischi, canzoni originalissime e testi incentrati su storie personali e collettive, raccontano quanto meglio di qualsiasi altra illustrazione le tensioni di quegli anni, la politica, la rabbia, l’amore, la libertà, la poesia. Erano quattro personalità tra loro molto diverse, ma proprio questa diversità, un perfetto quadrato alchemico, ha giustificato un equilibrio dal sapore magico.

In quegli anni Crosby realizzò un incredibile album solista, If I Could Only Remember My Name, forse più di altri una sintesi irripetibile, fatata, in stato di grazia, delle energie della musica californiana, un delicato e contemplativo vangelo concepito in un ideale crepuscolo calato sulla Baia di San Francisco, prima di perdersi nell’incubo della droga. Anche Stills si mosse da solo e con i Manassas nel solco di un rock a tinte più forti e passionali. Nash scrisse alcune delle canzoni più tenui e dolci della storia del rock americano (una fra tutte, Simple Man, una sorta di garbato manifesto esistenziale). Neil Young divenne un ruvido e stralunato eroe solitario, un grande hobo in grado di vagabondare per le strade del rock, rischiando di continuo, sperimentando errori e fughe paranoiche, toccando disperati bagliori di verità, scrivendo numerosi capolavori e arrivando ancora intatto alla contemporaneità, amatissimo, quasi venerato, dai rocker dell’ultima generazione.

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“Non posso dirti dove ho intenzione di andare… ma posso dirti da dove vengo.”

Marie Johnston, classe 1963, originaria di Dallas nel Texas, folksinger per vocazione, ha esordito nella seconda metà degli anni ottanta. Ha fatto la musicista itinerante, nella più pura tradizione dei folksinger americani e, proprio come si usava nei tempi eroici della canzone d’autore, ha creato composizioni lucide e molto realiste, che descrivono le realtà sociali che ci circondano.

Ha lasciato casa a sedici anni, staccandosi dall’educazione rigorosa impostale dalla madre, ed è andata vivere con il padre che le ha insegnato i primi rudimenti musicali. Il padre (“Dollar” Bill Johnston), che l’accompagnerà in diverse tournèe, è un appassionato di musica folk: suo tramite Michelle ha conosciuto Woody Guthrie, Doc Watson, Cisco Houston, Leadbelly e lo swing texano di Bob Wills.

Michelle è cresciuta dritta come un virgulto, si è formata un carattere duro, ed il suo idealismo non è solo un fatto letterario, per anni è in prima fila nelle manifestazioni pubbliche (la copertina di “Short Sharp Shocked” mostra la foto di un poliziotto che malmena Michelle nel corso di una manifestazione a San Francisco), partecipa ad associazioni benefiche, fonda un movimento ecologico, frequenta comunità punk, lavora per rock against racism, poi va a vivere in Europa (dopo essersi spostata da Austin a San Francisco) e, più esattamente prima ad Amsterdam, quindi a Berlino e Londra.

Siamo già negli anni ottanta e la ragazza mostra apertamente le sue attitudini musicali, ha una passione spiccata per tutto ciò che è puro e idealista, le sue scelte musicali attingono alle tradizioni privilegiando country e folk, blues e jazz.

Per un certo periodo fa la segretaria allo Speakeasy dove comincia a presentare le sue canzoni dal vivo. Poi, chitarra a tracolla, inizia a girare gli States: Pete Lawrence, il padrone dell’etichetta inglese Cooking Vynil, la registra con un sony portatile nel corso del festival folk di Kerville in Texas: il disco che ne risulta (The Texas Campfire Tapes) è un sorprendente successo indie (è il bestseller delle indipendenti inglesi nel corso del 1987), malgrado la registrazione comprenda anche rumori vari (grilli, automobili che passano, uccelli), Michelle mostra di avere un talento fuori dalla norma, le sue composizioni, lucide e piene di poesia, hanno il pathos e la fierezza di quelle dei grandi folksinger del passato.

Passa un anno e la Mercury, una multinazionale, la mette sotto contratto. Gli inizi non sano facili ma non si dispera e alla fine del 1988 esce “Short Sharp Shocked” il suo secondo album, ma il suo primo disco reale: è un piccolo trionfo per la giovane texana, in primo luogo perché vince la battaglia con la sua etichetta per la copertina, quindi perché il disco, ben supportato da buone composizioni. Il secondo album, fine 1989, è l’eclettico e difficoltoso “Captain Swing“, il disco completamente diverso dai due che lo hanno preceduto, ci consegna l’autrice alle prese con una robusta sezioni di fiati a ripercorrere sentieri musicali certamente non molto usuali.

E’ un omaggio alla tradizione texana dello swing, al blues fiatistico, ma l’album non ha l’impatto del lavoro precedente, vuoi per la diversità del materiale presentato, vuoi per il troppo eclettismo che la giovane lascia trasparire dal suo lavoro: la passione e la voglia di imporre le proprie idee questa volta sono preponderanti rispetto al risultato ultimo, certamente molto interessante, ma comunque inferiore rispetto al disco precedente.

Il suo quarto album: “Arkansas Traveler”, il terzo della sua trilogia, quello che la conclude, è il suo capolavoro. Arkansas traveler, è un disco lucido suonato con molto feeling, splendidamente attuale e strutturato con amore. Un lavoro che tratta con estremo rigore le radici della musica americana e le sue connessioni con la ballata tradizionale europea, quindi oltreché essere un album estremamente piacevole da ascoltare è anche un testo storico-educativo su cui ciascuno di noi può iniziare il suo apprendimento per conoscere più a fondo la vera musica tradizionale.

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Non sempre è possibile individuare con precisione il momento in cui un artista, o un gruppo di artisti, valica la linea d’ombra tra l’elité e il mito. Per i Chieftains, uno dei pochi ensemble musicali diventati il simbolo di una nazione, questo coincide con l’uscita e il successo di Barry Lyndon, il capolavoro con cui Kubrick prende atto dell’impossibilità dell’uomo di progredire. Nel 1975 il film al botteghino non fu un successo ma la colonna sonora agì da detonatore sullo spirito di un tempo in cui la musica popolare stava diventando rifugio sicuro per i tanti delusi da un rock che iniziava a dare i segni di una decadenza da Babilonia. Grazie ai Chieftains, il grande pubblico scoprì lo straordinario patrimonio musicale irlandese – qualcosa di molto simile a quello che ha fatto di Tolkien l’alfiere della riscoperta di miti e fiabe celtiche.

“Negli anni ’50 l’Irlanda era percorsa dalla febbre per il rock’n’roll e farsi vedere in giro con un violino significava sembrare un gay agli occhi di tutti” racconta Sean Keane, il violista entrato nella band insieme a Peadar Mercier (bodhran) e Derek Bell (arpa celtica) in occasione della registrazione del quarto album, aggiungendosi così al nucleo originario formato alla fine degli anni ’50, oltre che da Moloney, da Sean Potts (tin whistle), Martin Tubridy (flauto, concertina) e Martin Fay (fiddle).

Per ricordare le difficoltà dell’inizio c’è un aneddoto che vale la pena di ricordare: nonostante la crescente popolarità di cui erano circondati, grazie soprattutto ai loro entusiasmanti concerti, ci sono voluti più di dieci anni prima che ciascun componente della band decidesse di lavorare nei Chieftains a tempo pieno, vincendo così la paura di “costringere le proprie famiglie a un futuro incerto”. Moloney, tanto per fare un esempio, per anni è andato in tournée prendendosi le ferie dal suo lavoro di dirigente d’azienda.

Oggi quella dei Chieftains, il cui organico ha subito diversi mutamenti, è la storia di un successo crescente, testimoniato dalla presenza in cartellone dei festival e di eventi più importanti della sfera musicale. Moloney & C. sono ormai identificati con la musica irlandese tradizionale. E, nonostante la disinvoltura con cui affrontano i repertori più disparati, non si sono mai allontanati dalla strada maestra delle proprie radici: è piuttosto il loro approccio al repertorio, quella speciale attitudine – patrimonio esclusivo dei grandissimi – che consente a un artista di svelare al pubblico più vasto tutti i segreti di un repertorio musicale considerato per pochi. Come Miles Davis con il jazz, “I Chieftains sono i Grateful Dead della musica tradizionale” ha detto Larry Kirwan, cantante dei Black 47, gruppo rock irlandese di stanza a New York.

Il successo dei Chieftains è l’ennesima conferma di quanto sterili possano essere le classificazioni troppo rigide: non a caso ormai nella bacheca sono allineati vari Grammy ottenuti in diverse categorie. Con il passare del tempo il gruppo sembra aver assunto un ruolo da testimonial non solo della cultura irlandese ma, più in generale, della musica popolare e della sua volontà di aprirsi al mercato.

Quanto al lavoro sulle possibili contaminazioni tra il proprio passato e la modernità, i Chieftains hanno raggiunto il massimo della creatività con “Irish Heartbeat” l’album capolavoro inciso con Van Morrison, ombroso quanto geniale patriarca musicale dell’Irlanda del blues, del jazz, del rhythm’n’blues e della sofferta spiritualità.

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Così adesso sono morto, cavoli, e nella tomba vicino alla mia c’è nientemeno che Chopin. Se me l’avessero detto quand’ero piccolo non ci avrei mai creduto. A parte che grande non sono diventato mai, ché anche a trentasei anni ero alto un metro e due centimetri.

Certo che morire a trentasei anni non è mica uno scherzo, è come un racconto breve che finisce subito, è un po’ presto, cavoli, morire a trentasei anni. Ma d’altra parte lo sapevo già, lo sapevo già che finiva male, la mia vita. La mia vita è cominciata male dall’inizio, sì, perché già quando sono nato mi sono rotto in mille pezzi, mi sono sbriciolato come un biscotto. Eh sì, perché le mie ossa avevano poco calcio dentro, e così sono sempre stato come una meringa, che appena la tocchi va in frantumi. Osteogenesi imperfetta,la chiamarono, che poi vuol dire che c’hai le ossa che sembrano grissini.

Ero brutto già da piccolo, io, perciò ero goloso di bellezze. Guardavo sempre la televisione, ché lì dentro c’erano un sacco di bellezze. C’erano le donne coi capelli lunghi e gli occhi grandi, e c’era la musica che mi piaceva. Quando avevo quattro anni alla televisione una volta c’era Duke Ellington che suonava, ed è stato lì, è stato proprio lì che mi sono innamorato del pianoforte, e così ho chiesto subito a mio padre se me lo regalava. I miei me ne comprarono uno, certo, ma siccome era un pianoforte giocattolo io dalla rabbia presi il martello e lo sfasciai, perché anche se avevo solo quattro anni volevo un pianoforte vero, io.

Il piano vero me lo regalarono, solo che ai pedali non ci arrivavo, cavoli, allora mio padre costruì una prolunga che se coi piedi la schiacciavi si schiacciavano pure i pedali. E, quel piano allora Io suonai talmente tanto che anche quando non lo suonavo non smettevo di pensarci, perché mi si era infilato dentro il sangue. “Ti mando a lezione di musica classica, allora, Michel”, fece mia madre, e io ci andai, ci andai per otto anni, ci andai, ma a casa la sera ascoltavo i dischi jazz di mio padre, che mi piacevano di più. Mio padre aveva un negozio di strumenti e suonava la chitarra, era bravo, e aveva un bel mucchio di dischi. Io li ascoltavo ogni giorno e li sapevo tutti a memoria, ma mio padre non ci credeva. Sentiamo, fece una volta, e io attaccai e cantai tutti i pezzi, glieli cantai uno dietro l’altro. “Merda!”, disse lui, e poi non disse niente più.

Quando in negozio veniva qualcuno per comprare un piano mio padre mi chiamava e mi diceva: “Faglielo sentire, ragazzo, dai”, e io mi mettevo seduto e attaccavo, facevo qualche numero di jazz di quelli giusti e quello lì restava secco, cavoli, ascoltava con la bocca aperta e alla fine il piano poi se lo comprava. Stavo sempre in negozio, stavo sempre con le mani sopra i tasti. E se smettevo era solo per ascoltare un disco. A scuola i miei non mi mandarono, per non farmi prendere in giro dai compagni.

Siccome a scuoia non ci andavo, da scuola mi mandavano le cassette con le lezioni registrate, ma io nemmeno le ascoltavo, le cassette. Ci registravo sopra la musica che suonavo, così potevo riascoltarmi. Mi riascoltavo e calcolavo la differenza tra me e Bill Evans, che col piano ci faceva le magie, e sempre mi pareva lui più bravo.

Poi un giorno arrivò Terry. Quando il trombettista Clark Terry capitò dalle mie parti, il suo pianista mangiò qualche schifezza e gli venne la cagarella, e allora Terry cercava un pianista per farsi accompagnare, e la gente gli disse che in zona c’ero io, ma lui disse che un ragazzo di tredici anni era troppo piccolo per accompagnarlo, e che la cosa non si era mai vista da nessuna parte. E quando poi mi vide disse che sembravo ancora più piccolo di uno di tredici anni, e che con uno così proprio non ci avrebbe mai suonato.

Ma quando mi piazzarono sullo sgabello e cominciai a darci dentro, disse che uno così bravo non l’aveva mai sentito, e cavoli, se potevo andare. Clark Terry mi piaceva, gente, era un tipo a posto, aveva cominciato a suonare da ragazzo, nei bar e poi nella banda della Marina Militare, ma poi aveva suonato anche col grande Duke e adesso mi voleva, voleva proprio me. Così entrai un po’ nel giro, e a quindici anni suonai pure con Kenny Clarke, un nero che era uno che picchiava forte sulla batteria e pure sul vibrafono, e che aveva inventato un nuovo modo di suonare il piatto della batteria. Ragazzi, la faceva parlare, la faceva.

A diciott’anni me ne scappai di casa, presi la mia roba e me ne andai a Parigi dove registrai il mio primo album. Cominciai a suonare Pure con Lee Konitz, uno che aveva imparato la fisarmonica da solo, e dopo il clarinetto e dopo anche il sassofono, e col sassofono ci sapeva fare, ragazzi ci sapeva.

E pure se non avevo soldi e camminavo male a diciannove anni presi l’aereo da solo, il biglietto lo pagai con un assegno a vuoto e me ne andai in America, perché era lì che c’erano i grandi jazzistti, lo sapevo, e io volevo suonare insieme a loro.

E lì incontrai Charles Lloyd, che ormai faceva l’hippy in mezzo ai boschi e che era triste e non suonava più perché il suo pianista lo aveva abbandonato, e quando arrivai per colpa mia ricominciò a suonare il sax con me e con altri due matti e insieme facemmo un bel quartetto. Suonammo in un mucchio di città, e sempre andava alla grande, e quando suonammo a Montreaux il mio nome all’entrata era scritto grande sulla porta, Michel Petrucciani, e su un giornale scrissero che quel concerto dimostrava la vera statura che avevo raggiunto in così poco tempo, e mi ricordo che quando a colazione sul giornale lessi la parola statura mi andò la spremuta di traverso e dalle risa caddi pure dalla sedia, e a momenti mi rompevo. Suonai con loro per tre anni e dopo me ne andai e cominciai a suonare solo.

Lo amavo, il pianoforte. Alle prove toccavo quella cassa lucida. Quando guardavo dentro ci vedevo i denti del pianoforte che rideva. E quella tastiera così lunga. Avevo un callo osseo nella spalla che non mi lasciava allargare bene il braccio, e ai concerti, per arrivare in fondo alla tastiera, saltellavo sul sedile come un merlo. La gente, siccome mi sporgevo, aveva paura che cadessi, ma non cadevo mai, perché con l’altra mano mi tenevo al pianoforte. Una volta che il pubblico lo sentivo tutto teso, mi fermai e chiesi:

“Come va?”

Allora tutti risero e si misero più comodi sopra le poltrone, e io continuai.

Ai concerti c’erano sempre donne belle che mi portavano sul palco, mi portavano in braccio come un bambino, tanto pesavo solo venticinque chili, ma poi a venticinque anni imparai a camminare con le stampelle, e da allora sullo sgabello mi arrampicai da solo, senza paura, perché alle mie mani veniva sempre una gran voglia di toccare i tasti. Quando mi portavano sul palco, anche se ero francese mi sentivo napoletano e spaccone come mio nonno che pure suonava la chitarra, e appena cominciavo a suonare dicevano che si vedeva proprio che ero preso dalia musica, ecco, che si capiva da come tenevo alta la testa con gli occhi persi dentro l’aria, senza guardare la tastiera. Ma io la testa la tenevo alzata solo per respirare meglio, se no l’ossigeno mancava.

A volte un osso si rompeva, mentre suonavo, una clavicola, che so, una costola, una scapola, ma il dolore io me lo tenevo e stavo zitto, e di suonare non smettevo mai, perché era bello come quando fai l’amore.

E una sera dopo un concerto c’erano due ragazze, una con le fossette e una col codino, e quella con le fossette mi guardò e aveva gli occhi neri neri, e si chiamava Erlinda, e le sorrisi, e lei davanti a tutti mi prese in braccio e mi baciò. E così dopo un po’ ci sposammo. Non era una donna qualsiasi, Erlinda Montano. Era un’indiana Navajo, cavoli, una pellerossa. Una pellerossa e un nano, ragazzi, ci pensate? Avevo ventun anni, allora, e uscì un mio disco che aveva dentro un pezzo che si chiamava Erlinda come lei. Lei lo ascoltò e sorrise, e fece le fossette.

E con Erlinda ero felice e andavo al mare, e al mare mi compravo camicie a fiori e camicie con le palme, camicie hawaiane con le maniche corte che mi sentivo subito in vacanza. E non le compravo nei negozi dei grandi, le camicie, no, le compravo nei negozi per bambini. Ah, ci stavo così bene, con Erlinda.

E dopo venne Eugenia, che mi diceva sempre che sotto le coperte ci sapevo fare, e fare l’amore mi piaceva, perché era proprio come suonare il pianoforte. E quando le facevo le carezze Eugenia diceva che mani calde, Michel, che mani calde, e davvero me le sentivo calde, le mani, come ci fosse dentro la musica bollente che voleva uscire.

E anche a Eugenia dedicai un pezzo che si chiamava Eugenia come lei. Mi piaceva un sacco, Eugenia, e restai con lei per cinque anni, e la lasciai il giorno prima delle nozze perché avevo conosciuto Marie-Laure, che mi diede un figlio, Alexander, con la mia stessa malattia. Eugenia pianse a più non posso, quando le dissi che la lasciavo, ma che potevo farci, uno non può voler bene quando non vuole bene. Adesso stavo con Marie-Laure, la amavo, e quando le chiedevo se mi trovava bello, Marie-Laure diceva che ero bellissimo, e che la musica mi stava dentro come un fiore dentro un vaso, e quando usciva profumava.

Suonare mi faceva stare bene, ragazzi, non ve l’immaginate, le mani diventavano di fuoco. Con le mani sui tasti ero felice.

Componevo. Una volta scrissi un pezzo lento di sole quattro note che mi piaceva tanto. Forse era il più bello, perché era bello e semplice, e dolce come una poesia. Cantabile, si chiamava, Cantabile, perché veniva voglia di cantarlo come una canzone, anche se non aveva le parole.

E un giorno a Bologna insieme a Lucio Dalla suonai pure davanti al papa, e Lucio suonò il clarinetto che sembrava che piangeva, e io suonai come una preghiera. Alla fine Giovanni Paolo era commosso, e anch’io ero commosso, e mi volevo inginocchiare e non riuscivo. E mi ricordo che mentre suonavo i monsignori battevano il tempo con il piede, e con le mani facevano oscillare a tempo le sottane e, cavoli, ci mancava poco che si alzassero e si mettessero a ballare.

Quando suonavo certe volte mi mettevo in testa berretti strani, coppole da siciliano e cappelli grandi che sembravano sombreri, e ci sudavo dentro ma non me li toglievo, me li tenevo stretti e andavo avanti, e sudavo di brutto dentro le camicie che alla fine erano bagnate che se le strizzavi usciva l’acqua, e scendevo dal palco sudato marcio, e quando scendevo dal palco non ero mai solo, perchè le donne mi volevano, mi correvano dietro, gente, per i baci e per gli autografi, e così dopo Marie-Laure venne Gilda, e pure lei suonava il piano, suonava musica classica e le piaceva Chopin. Era siciliana, insegnava al conservatorio, e senza che mi avesse mai parlato prima mi disse che da molti giorni mi seguiva, perché una volta a un concerto il ricordo delle mie mani Ie era rimasto come una compagnia. E le volevo così bene che me la sposai, Gilda, me la sposai e dopo un poco divorziammo.

E per ultima venne Isabelle, con gli occhi chiari, Isabelle che mi voleva bene più di tutte, che cercò di farmi vivere in una casa parigina e cercò di farmi smettere di bere e di drogarmi.

E tutte queste storie le volevo perché volevo vivere storie d’amore con delle donne belle, storie d’amore come quelle che vedevo alla televisione, dove lo sposo prendeva la sposa in braccio, la portava nella stanza e dopo si baciavano. Solo che le mie donne erano loro a prendere in braccio me, e io volentieri le lasciavo fare.

Volevo dormire con delle donne belle, cavoli, ma certe notti dal dolore nelle ossa non dormivo, e quelle notti che arrivavano una dietro l’altra la spalla, i nervi, il polso, l’osso del ginocchio li sentivo a uno a uno. Solo le mani erano forti e sempre calde.

Però ai concerti suonavo e suonavo, ragazzi, dovevate esserci, e le note dalla cassa del mio piano uscivano come ombre che avevano la voce, e salivano in alto e poi cadevano giù, ed erano una pioggia scoppiettante che cadeva a catinelle sulla gente che ascoltava, sulle mie ossa rosicchiate, sul mio cuore.

Suonare era bello, era la mia vita. Coi piedi andavo piano, si capisce, ma con le mani andavo a cento all’ora e le sentivo sempre calde, le sentivo, le mie mani, e la tastiera Ia vedevo che fumava. Suonavo e me ne andavo per il mondo, e in tutto il mondo tenevo un sacco di concerti, e solo nell’ultimo anno di concerti ne contai duecentoventi.

Suonare suonavo, suonavo sempre. Mi arrampicavo sullo sgabello e poi partivo come un razzo, andavo in orbita. Avevo sempre i riflettori in faccia, mentre suonavo, e nel buio non vedevo niente, ma quelli giù dal palco nel buio li sentivo che trattenevano il respiro, mentre picchiavo sopra i tasti, e non tossiva mai nessuno, non tossiva, e nessuno si soffiava il naso mai.

E quando cominciavo dalle dita mi usciva fuori tutta quella musica, mi usciva, veniva fuori come acqua fresca, bagnava la tastiera e andava giù sul legno delle tavole del palco, colava giù sul pavimento e bagnava i piedi degli spettatori a uno a uno, e gli saliva per le gambe e andava su, e a quelli gli veniva freddo, e alla fine con le luci accese li vedevi tutti bagnati, in piedi, tutti inzuppati che battevano le mani. E dopo le donne venivano nel camerino e mi baciavano. E lo sapevo ch’ero brutto, ma con la musica e le donne mi veniva tutta la bellezza.

Guadagnavo bene, guadagnavo. Da non crederci. Mi davano un sacco di soldi, ragazzi, e quando suonavo con gli altri musicisti dividevo sempre in parti uguali, anche se loro non erano famosi come me. E con la limousine si andava negli alberghi a quattro stelle e come mi piaceva. In camera schiacciavo tutti gli interruttori e accendevo tutte le luci insieme, accendevo, e dopo aprivo il frigo e mi bevevo tutto quel che c’era, e ogni sera facevo il bagno nella vasca con la schiuma dentro.

Una volta a Bergamo mentre suonavo mi ruppi il braccio destro, ma nessuno se ne accorse, perché suonai tutto il tempo con il braccio rotto come niente fosse. A un altro concerto una sera suonammo per due ore, faceva un caldo boia e sudai come una fontana. Le mani mi scottavano, la testa pure, ero stanco e avevo mal di schiena, e avevo solo voglia di tornarmene in albergo e di sdraiarmi a letto. Ma quelli chiesero il bis, e poi un altro bis e un altro ancora, e così suonai ancora per mezz’ora, suonai, e a casa il medico disse che mi ero rotto il coccige, che è l’osso del sedere, l’ultimo osso della schiena prima del culo.

Dopo i concerti il mio medico mi visitava, scuoteva Ia resta e diceva basta, Michel, basta, non puoi andare avanti in questo modo. E dopo con le mani in tasca andava su e giù per lo studio, mi guardava storto, si arrabbiava e mi proibiva di fare altri concerti, e io invece sorridevo e li facevo. Li facevo perché erano la mia vita, i concerti, come il cibo, le donne e gli amici.

Mi piaceva, la vita, cavoli. Mi piacevano un sacco di cose. Suonare, fare l’amore, stare con gli amici. Anche mangiare, mi piaceva, e a casa a volte venivano gli amici e cucinavo io, e si mangiava e si beveva alla grande, col vino, i dolci e la pasta fatta in casa, e il piatto che facevo meglio era il Pollo alla Petrucciani, che ti leccavi i baffi. E quando cucinavo il pollo mi ci mettevo di gusto, mi ci mettevo, e lo facevo bene, e farlo bene era più difficile che suonare il piano. Mangiavamo e bevevamo, e a un certo punto c’era sempre qualcuno che suonava.

E, dopo mangiato, quando tutti se ne andavano, giocavo sul tappeto con mio figlio Alexander, e giocavamo piano perché aveva le ossa di ricotta come me, e un giorno, mentre giocavamo piano, all’improvviso fece la faccia triste, guardò sua madre e disse: “Perché mi hai fatto?”

Andavo a tutta birra, suonavo dappertutto e con tutti, ormai. Quando suonai con Dizzy Giilespie vidi che aveva una tromba tutta storta, e gli chiesi ma come fai a suonare? E lui rispose che era stata la moglie che gliel’aveva stortata picchiandola sul pavimento, e che da allora la tromba suonava molto meglio. Suonai con Miies Davis che con la tromba faceva venire Ia malinconia. E, poi suonai al Blue Note, che non me lo sarei mai sognato, il Blue Note, cavoli.

Mio padre era orgoglioso, diceva che ero proprio bravo, con il piano. Che ero il migliore. “Quando non ci sarò più”, diceva, “tu suona, suona sempre, Michel, e mentre suoni ricordati che sarò sempre sopra di te che ti guardo da là sopra”.

E, invece adesso sono io che da qua sopra guardo lui.

Venne un Natale, e Natale io lo odiavo, perché da bambino a Natale e a Capodanno ero sempre in ospedale con qualche osso rotto.

Finalmente venne un Natale che ero tutto intero e avevo solo un po’ di raffreddore, e dopo venne Capodanno, e a Capodanno, per andare a passeggiare in spiaggia con la mia donna per mano, mi beccai quella polmonite, e sulla spiaggia caddi a terra come un fico secco. Mi tirai su da terra e le cose non erano più cose, erano ombre. Allora Isabelle mi prese in braccio e mi baciò, e dopo andammo all’ospedale. Seduta sulla sedia aveva quello sguardo strano, che usciva da quegli occhi chiari pieno di paura. E dal letto la guardavo che piangeva con quegli occhi grandi e chiari e sorridevo e pensavo che io così brutto ero felice di avere vicino una donna così bella, e pensavo che sempre avevo avuto accanto donne belle. E poi il 6 gennaio da sotto la coperta le dissi che avevo freddo alle mani e le chiesi se me le voleva riscaldare.

Lei allora prese le mie mani nelle sue e me le scaldò, e dopo uscì un momento a prendermi un caffè, e io proprio in quel momento sono morto, cavoli, il 6 gennaio, e adesso qui vicino a Chopin mi viene da ridere, a pensarci, perché io, pieno di donne belle, sono morto proprio mentre arrivava la befana.

tratto da: Antonio Ferrara, in “Parole Fuori” edizioni Il Castoro, Milano, 2013

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David Crosby ha posato la sua chitarra acustica, il suo spinello, il suo bicchiere di scotch e da meraviglioso bird ha messo le ali a riposo definitivamente. Quante folk-ballad ci ha regalato, quanti leggiadri intrecci vocali con gli amici Still, Nash, & Young. Hippy malinconico che ha saputo avventurarsi sempre dentro terre nuove. Una voce tenera, impegnata, magica. Un narratore delle tante ombre di quella sua generazione sfregiata dalla guerra in Vietnam. Una voce dentro altre voci che riusciva a creare mosaici sonori mai conosciuti prima. Crosby non suonava canzoni ma tramutava tutto in manifesto generazionale. David Crosby, una chitarra rullatrice di folk, suol e blues che ha dissetato milioni di ragazzi. Un precursore lisergico di storie apocalittiche, a volte un medioevale del ventesimo secolo. Mancheranno quelle sue suggestioni “west coast”.

@ilpianistasultetto #Dimusica

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Ci sono personaggi la cui esistenza si dipana su un canovaccio ricco di svolte, di pieghe improvvise, di parabole inebrianti e di rovinose cadute, di successi fulminei e di paurosi sbandamenti. Il mondo del rock ne è pieno, anche se purtroppo, sovente queste vicende assumono inevitabilmente i contorni mitologici dell’eroe bello e dannato condannato a una morte prematura. E’ solo per una serie di incredibili scherzi del destino o di karma direbbe un Buddista se oggi David Crosby è ancora qui con noi.

Una vita intensissima, estrema, spesso spericolata, ma che nel corso degli ultimi quattro decenni è stata testimone di pressoché tutti gli eventi chiave della storia del rock. Quasi quarant’anni nel corso dei quali David Crosby è sembrato morire diverse volte, preparando in più d’una circostanza i suoi irriducibili fans alla triste notizia che puntualmente non è arrivata: come un gatto a nove vite. Musicalmente Crosby ha segnato almeno due decenni con una serie di capolavori culminati con quel “If I Could Only Remember My Name” (“Se solo potessi ricordare il mio nome”) del 1971 che tutt’oggi rimane come una pietra miliare indiscussa del panorama musicale di quel periodo.

La sua attività musicale inizia nella metà degli anni sessanta con il gruppo dei “The Byrds” con i quali pubblica sette album, senza contare le raccolte e quelli dal vivo. Nel ’69 con Stills e Nash forma l’omonimo gruppo per poi ampliarsi l’anno successivo con l’arrivo di Neil Young. Con questi musicisti a ruota, inciderà poco meno di una ventina di dischi. A cavallo degli anni duemila con Pevar e Raymond pubblicherà una manciata di dischi con la denominazione CPR.

Dal ’71 anno di pubblicazione del sopra detto “If I Could Only Remember My Name” passano diciotto anni prima di ascoltare un altro suo disco. In questi anni Crosby vive di tutto, da malattie a carceri da droghe a separazioni, accumula tanto di quel “curriculum vitae” da poter scrivere un libro. Ma, come sempre ogni volta rinasce e nel 1989 incide “Oh Yes I Can” (“Oh, si che posso”) cioè la risposta al primo disco “If I Could…” (“Se solo potessi ricordare il mio nome”), il titolo suona come una convincente dichiarazione d’intenti e riporta prepotentemente la figura di Crosby alla ribalta. Il disco suona bene e convince critici e fans non purtroppo come il successivo “Thousand Roads” del ’93 e ancor meno “It’s All Coming Back To Me Now” del ’95.

La musica di David Crosby, dalle prime avventure con i Byrds fino al recente sodalizio con i CPR passando attraverso la leggendaria epopea di Crosby Stills Nash & Young, è stata la colonna sonora di più d’una generazione. La sua vicenda artistica e umana ha spesso assunto contorni leggendari e mitologici e, seppur con le sue mille contraddizioni, Crosby ha sempre avuto un ruolo di primo piano nei momenti cruciali della storia del rock e del costume. Da portavoce della controcultura hippie, eroe della generazione di Woodstock, superstar degli anni settanta fino alla discesa agli inferi di una tossicodipendenza quasi letale, Crosby si è sempre esposto in prima persona e oggi porta le cicatrici di una vita avventurosa, sempre al di sopra delle righe.

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Nel vasto panorama della musica tutta, ci sono dei musicisti, cantanti o per meglio dire “distributori sonori” che si inoltrano in un angolo del nostro cuore e ci rimangono per molto tempo, a volte per sempre.

Frank Zappa è uno di questi. Conosciuto in età adolescenziale, ero più attratto dalla sua estroversione umana che per una reale emozione sonora. Poi con il tempo ho cominciato ad apprezzare anche i suoi dischi e maturato l’idea che la sua musica, oltre a non essere banale, aveva un’ossatura profonda e soprattutto personale.

Il duca della prugne, così era chiamato Frank Zappa, dal brano omonimo che comparve nel suo celebre secondo album “Absolutely Free”. Nessuno prima di lui fu maestro della sovversione musicale, il più illuminato e multiforme dei musicisti generati dalla rivoluzione degli anni sessanta. La parte più ludica e irriverente della cultura rock, l’esempio indomabile di una coscienza scomoda e indigesta al perbenismo americano. Alla cultura rock, Zappa ha insegnato cinismo e parodia, una visione fortemente laica e demitizzata della realtà, mescolando musica e rumori, parole e gemiti, telefonate e sirene. Con pari dignità dimostrava che si poteva eseguire un jodel tirolese e Stravinskij, un chicchirichi e il jazz.

Come per tutti i grandi della musica del nostro tempo, continueremo a domandarci se sia stato o meno un raro, isolato genio del bricolage musicale, oppure un perfetto prodotto della sua epoca, di quegli anni sessanta e settanta così sbeffeggiati dai suoi dischi. Di sicuro Zappa innalzò a suo modo un canto di dolore per una gioventù costretta a rivedere le proprie scelte di vita per sopravvivere. Rifiutava le mode e le etichette e diventò, suo malgrado, il re della controcultura statunitense, attraverso performance, dischi, e persino poster (il più celebre dei quali lo ritrae seduto sul gabinetto del suo appartamento). I suoi testi sono un’esplicita condanna dell’ipocrisia borghese e dell’intero stile di vita americano. Sono dissacranti e irriguardosi, sono una clamorosa dichiarazione di libertà assoluta, un appello ai giovani a liberarsi di certe mode, della musica idiota e, soprattutto, a non accettare di essere considerati solo in quanto “consumatori”.

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Difficile è collocare un personaggio singolare come Ry Cooder, musicista, produttore, chitarrista, compositore, interprete, che dagli anni Settanta alla fine del secolo percorrerà in lungo e in largo le strade della musica, dal rock al country, dalla musica cubana a quella araba, dalle colonne sonore al pop, dal jazz al blues.

Secondo lo schema tradizionale, non è un cantautore, non è un rocker, né un campione del pop. Sfugge, per natura, alle etichette e alle definizioni, ma il suo lavoro di recupero delle tradizioni musicali, quella americana in particolare durante gli anni Settanta, e il suo lavoro di musicista e produttore, avranno grandissima influenza. Come ha scritto su “Rolling Stones” Jon Landau: “Cooder è alla perpetua ricerca della nota magica, del sound giusto al momento giusto”.

Interprete sopraffino della tradizione musicale americana, nei primi anni della sua avventura musicale si concentrava sul repertorio più vicino al blues e al tex-mex, ma già verso la fine degli anni Settanta l’eclettismo delle sue scelte ne fa un preziosissimo outsider, in grado di muoversi liberamente tra generi e stili mantenendo saldissima la propria ispirazione, la capacità di far diventare diverse dall’originale le composizioni sulle quali lavora con certosina precisione.

I suoi album degli anni Settanta sono un incredibile catalogo dei linguaggi della musica popolare americana: da “Ry Cooder” (1970), intriso di folk e di blues, a “Into the Purple Valley” (1972), da “Paradise and Lunch” (1974) a “Chicken Skin Music” (1976), Cooder esplora la musica folk e il tex-mex, il blues e il rhythm’n’blues, la canzone e il gospel, per approdare al jazz con “Jazz” (1978) e alle origini del rock’n’roll con “Bop Till You Drop” (1979), primo disco nella storia della musica ad essere stato registrato totalmente in digitale. Negli anni Ottanta dedicherà molto del suo lavoro alla realizzazione di colonne sonore, girerà per il mondo collaborando con musicisti di estrazione e cultura diversissime, africani, indiani, arabi, per approdare al successo planetario, negli anni Novanta, quando farà scoprire al mondo intero la magia della musica cubana con “Buena Vista Social Club”. Negli anni duemila sono da rilevare i suoi “Chavez Ravine” (2005) e “My Name Is Buddy” (2007), ma soprattutto alla collaborazione con Mavis Staples in “Well Never Turn Back” (2007). Nel decennio che va dal 2008 al 2018 Cooder pubblica quattro dischi: I, Flathead (2008), Pull Up Some Dust and Sit Down (2011), Election Special (2012) e The Prodigal Son (2018) non sempre all'altezza delle aspettative ma sempre degli di nota, grazie soprattutto alla non banalità e alle loro motivazioni. Alle stesso tempo continuano le collaborazioni con la pubblicazione di cinque dischi: Hollow Bamboo (con Jon Hassell e Ronu Majumdar) (2000), Mambo Sinuendo (con Manuel Galbán) (2003), il bellissimo San Patricio (con The Chieftains) (2010), Live in San Francisco (con Corridos Famosos) (2013) e l'ultimo di quest'anno Get on board (con Taj Mahal) tra le migliori uscite del 2022.

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Nel vasto panorama della musica tutta, ci sono dei musicisti, cantanti o per meglio dire “distributori sonori” che si inoltrano in un angolo del nostro cuore e ci rimangono per molto tempo, a volte per sempre.

Mostro sacro della chitarra, geniale musicista della metà degli anni sessanta, il suo suono rimarrà presente per decenni e decenni. Nonostante la sua vita musicale durò una manciata di anni, le sue produzioni musicali rimangono tutt’oggi la ricca testimonianza della sua genialità. Di sicuro una cosa c’è: un prima e un dopo Hendrix.  Jimi Hendrix irruppe sulla scena del rock come una meteora incandescente che trasformò l’idea stessa della chitarra elettrica. A tutti gli effetti è stato un musicista simbolo di quegli anni. Nessuno meglio di lui ha incarnato un tratto ineliminabile degli anni Sessanta, ovvero quella sensazione di rincorsa creativa. Tutto correva, i cambiamenti sembravano a portata di mano, gli eventi si succedevano ad un ritmo febbrile. Questa ebbrezza collettiva, Hendrix cercò di interpretarla in una stravolta improvvisazione sonora. I suoi “voli” solistici sembravano sfuggire ai consueti piani narrativi musicali. Le sue invenzioni, i furori creativi, le visioni folgoranti, imponevano continue sfaccettature. Sempre “in fuga” tra progetto e spontaneità, caos e ordine, allo stesso tempo. Capirne oggi la portata è più difficile, perché ormai tutto è già stato assimilato, digerito, trasformato in ovvio, ma, se pensiamo a quel tempo, quando per la prima volta ci si rese conto del suo “potere”, il suono di quella chitarra dal sapore del nuovo, è assai diverso. Jimi Hendrix ebbe la forza e la capacità di raccogliere il blues fin dove là era arrivato e di scaraventarlo nel futuro. La sua è stata una corsa sfrenata, sregolata, il cliché dell’artista votato all’autodistruzione, tipico del passaggio tra i sessanta e i settanta. Hendrix, meticcio come il rock, nero e bianco allo stesso tempo, era padrone di una tecnica stupefacente, il blues scorreva liberamente tra le corde della sua chitarra e cosciente di questo stette al gioco infiammando le platee con un repertorio coreografico che diventò parte integrante del suo mito. La sua Fender Stratocaster era, di volta in volta, la proiezione del suo membro, compagna di torridi amplessi elettrici, suonata coi denti, i gomiti, gli abiti etc. Hendrix aprì la strada ad un utilizzo totale dello strumento, rivelando ai chitarristi nuove possibilità, più funzioni: accompagnamento ritmico, assoli, pure sonorità. Gli sono bastati tre dischi, a parte le miriadi d’incisioni collaterali, per fissare questa rivoluzione. Tre album che non assomigliavano a nulla di conosciuto, tre dischi dove il rock stesso abbatteva con fulminea rapidità i propri confini. Hendrix partiva dal blues e lo trasformava, mettendo insieme jazz e canzone, rock e rumore, fondendo l’arte dell’improvvisazione propria dei grandi del jazz, a quella del rock. Hendrix sognava, immaginava, non si limitava a suonare. Era un musicista solo, visionario, creativo, pronto a volare sempre più in alto, a bruciarsi le ali con ignote prospettive, capace di abbandonare anche quel rock che gli aveva dato energia, denaro, successo.

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Billy Bragg l’ho conosciuto con la pubblicazione del suo primo disco nel 1983. Da quell’anno non l’ho più perso di vista anzi, lo vidi molto bene quando a metà anni ottanta “vissi” un suo concerto sotto il palco all’ex Foro Boario di Treviso con altre poche decine di persone. Bragg infatti, non lo conosceva ancora nessuno in Italia.

Esponente della canzone di protesta degli anni ottanta (nato nel 1957, vero nome Steven Williams) è una sorta di Bob Dylan inglese vent’anni dopo. Cresce col primo punk inglese, ama i clash e ha idee vicine a quelle del partito laburista. La sua peculiarità è soprattutto la sua lingua lunga, schietta e incisiva, le frecciate al potere. La stampa inglese lo definirà Billy il terribile.

E’ Peter Jenner, manager dei Pink Floyd e dei Clash, che gli procura un contratto. Bragg ne esce con sette brani solo chitarra e voce, tra queste A New England entra nelle classifiche indipendenti inglesi. A questo punto Bragg pubblica un (mini) disco “Life’s a riot with spy vs. spy” nel ’83, che balza al primo posto delle classifiche indipendenti ed entra in quelle nazionali. A questo successo seguono lunghi mesi di tournees in tutta Europa e america. E’ del ’84 il suo primo vero disco “Brewing up with Billy Bragg”.

Da quel momento la fama dell’artista cresce vertiginosamente e Bragg è sempre in prima fila a tutte le manifestazioni a sfondo sociale e politico. Seguono altri dischi negli anni a venire, arricchendosi in più di arrangiamenti strumentali. Ma è con il suo settimo album “Workers playtime” dell’ 88 che Billy si dimostra un artista ormai maturo. Ottime composizioni, musicalmente interessanti (She’s got a new spell) una su tutte.

Nel decennio a venire se la sua scelta “militante” è sempre in prima linea, non così è musicalmente parlando. Il “tono” musicale diventa senza dubbio un pretesto per esprimere le proprie accuse a tutto il sistema politico e sociale.

Più tardi accompagnato dai Wilco, esce “Mermaid Avenue” I e II. Bragg mette in musica le ultime liriche scritte da Woody Guthrie e ancora una volta riesce a sorprendere. Testi e musica finalmente vanno a braccetto. Il cantautore e i Wilco compongono melodie superbe su testi pregnanti.

Quello che affascina di Bragg sono le sue canzoni agrodolci sulla vita quotidiana, le sue ballate di vita domestica. Nella sua spartana semplicità riesce a fondere con talento melodico ora confessioni adolescenziali ora meditazioni profonde. Provate ad ascoltare: The Short Answer, Must I Paint You A Picture e Valentine Day Is Over, ve ne accorgerete, sono dei veri gioielli.

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