Giornata mondiale salute mentale 2024
trascrizione parziale intervento Sala della Regina, palazzo di Montecitorio © Camera dei Deputati, segreteria generale
Noi partiamo da una posizione che abbiamo imparato a scuola, che ci ha accompagnato nelle università, che è la divisione delle discipline, divisione delle professioni, divisione delle classi sociali, divisione tra centro e periferia, divisione tra età.
Cosa possiamo fare? Possiamo immergerci nel campo, andare sui territori, uscire dalla stazione di Piscinola-Scampia, attraversare il quartiere, farci attraversare dalle emozioni, dalle sensazioni, dai bisogni, dalle aspirazioni, dai limiti, farci scuotere da questo e poi organizzarci per produrre una risposta.
Quindi non dobbiamo difenderci. Come adulti, se vogliamo conoscere l’ambiente in cui vivono, e noi stessi viviamo, dobbiamo farci raggiungere. Questa è la definizione dell’empatia: farsi raggiungere dai sentimenti, dalle emozioni, dalle sensazioni che gli altri vivono, ma senza farci portare via.
Il secondo passaggio è predisporre i luoghi. Tutto quello che noi abbiamo detto fino ad ora si resetta, improvvisamente, nella necessità di metterci tutti d’accordo e realizzare un intervento multidisciplinare, multiprofessionale, con tutte le discipline di cui c’è bisogno su un territorio.
È lì che ci si testa e che le professionalità, incontrandosi e urtandosi, imparano ad andare d’accordo insieme. Quindi un’altra cosa di cui abbiamo bisogno è non aver paura di urtarsi, perché l’urto è un incontro e, se noi abbiamo quello spazio cognitivo che ci permette di fare dell’urto un apprendimento, possiamo predisporre spazi in cui questi ragazzi si sentono ascoltati, accolti, in cui viene restituita la dignità della vita in quanto tale.
Non perché sei figlio di un camorrista, io ti devo etichettare. Tu sei figlio e, prima di tutto, sei essere umano, quindi io posso, insieme a te, fare un percorso pedagogico, educativo e riuscire a condurmi a dialogare meglio con me stesso e con l’altro. Questa è una pratica.
Il campo mette tutti d’accordo. Io amo il campo. Abbiamo qua dei project manager e degli educatori che lavorano ogni giorno sul campo. Altri non sono qui, perché sono proprio a Scampia a lavorare in questo momento.
Quindi questo è quello che secondo me possiamo fare nella direzione di prevenire gravi danni a questi ragazzi, prevenire drammi familiari.
Prima si parlava dell’irrimediabilità. Noi dobbiamo essere consapevoli, in questo momento, che certe condotte inconsapevoli nel mondo della cura delle nuove generazioni producono danni irrimediabili a medio e lungo termine. Quindi la responsabilità è un obbligo, e per questo servono professionisti non preparati, super preparati, perché di fronte a tutto questo incontro, scontro, organizzazione, incontro di menti, discipline, la preparazione e il rischio di burnout è altissimo.
Noi non ci possiamo giocare le professionalità migliori che presidiano le nostre periferie e le nostre frontiere educative con il burnout.
Quindi l’attività interessante che facciamo a Scampia, come a Tor Bella Monaca, con ragazzi a scuola, negli istituti scolastici, deve prevedere uno spazio di pensiero, che non sia solo lo spazio dell’attività: spazio di supervisione, di programmazione, di équipe.
Quando noi viviamo il campo, viviamo immediatamente una realtà che è diversa. C’è un back office dell’intervento educativo. Questo back office non è conosciuto, se non dai tecnici, ma è questo back office che permette di far sì che l’intervento sia effettivamente efficace.
Cosa vuol dire efficace? Che io riesco a entrare in contatto con il ragazzo, riesco a entrare in contatto con la famiglia e riesco a costruire insieme un percorso evolutivo. Il grado di evoluzione non è importante. L’importante è che noi diamo e ci definiamo una meta.
Perché guardate che la difficoltà e l’impossibilità che hanno i nostri ragazzi di realizzarsi produce una frustrazione che arriva già oggi nella società come una frustata. Noi come adulti non ce ne accorgiamo, ma la sentiamo.
Quindi occuparsi delle nuove generazioni in questo, ma anche in altri modi, è sicuramente un aspetto pratico.
Avrei tante cose da dire, ma preferisco stare sull’onda del flusso e ricordarci che, come adulti, abbiamo la responsabilità di non chiuderci in uno spazio di comfort, in uno spazio fisico, in quartieri, in strade, in luoghi che noi riteniamo i nostri.
Il “punto zero” del viaggio pedagogico è il viaggio, l’incontro con la diversità. Questo incontro con la diversità ci educa alla tolleranza, alla comprensione, alla possibilità di fare questo viaggio insieme.