ALFINE L’AURORA

Stanze in disordine e alla deriva, come vele dimenticate tra cielo e terra, rincorrono desideri smarriti nella confusa fretta di rompere la quotidiana fatica delle scale. I gradini sbiaditi e insicuri raccontano malinconici sospiri, mentre il marmo freddo e ruvido ricorda ad ogni incerto passo che la gioia muta nel lamento di una lunga eterna notte. Vaga in ogni silente piano il cupo sofferente esistere, ovattato da pareti scrostate che racchiudono frammenti di infinito e ascoltano pianti diversi, nascosti da timorose porte.

Nella penombra sorda e vuota, occhi cerulei e spenti calpestano soffici tappeti consumati dagli anni, osservando inquieti il fruscio del crepuscolo. I monti annunciano la tormenta, tuoni impetuosi abbracciano le strade, sospingendo svolazzanti abiti verso alberi in fuga dal vortice degli eventi. Sui terrazzi i rossi stanchi gerani, sconfitti dal frastuono del vento e spogli dei loro fragili petali, si piegano nell’attesa dell’imminente fine.

Al primo chiarore due lacrime resistono, segnando i muri fradici della città. Il Sole insegue la ritrosa Luna che vorrebbe sottrarsi al perenne divenire, ma il tempo riprende il suo perpetuo canto, la fiera aurora riconquista l’orizzonte, illuminando spavalda gli effimeri tetti.

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