Da 100 giorni non tocco più un social

Li ha sempre difesi, li ha sempre praticati. Poi basta. Docente universitario e divulgatore, Giuseppe Antonelli si è disiscritto — anche la Crusca registra il verbo tra i neologismi — da una delle due piattaforme sulle quali era attivo e sull’altra non va quasi più. Non se ne è pentito, anche perché ha scoperto il gusto, e il diritto, di annoiarsi

Corriere della Sera-La Lettura, 5 dicembre 2021 | di Giuseppe Antonelli

Mi chiamo Giuseppe, e da 100 giorni non tocco i social. Lo so, ormai siamo in tanti, almeno credo; ma è qualcosa che mi sembrava gusto condividere. Ecco, appunto: anche le parole sono ormai compromesse, parole che un tempo erano forti come amicizia e condivisione. Un tempo si diceva che il personale doveva essere politico; oggi, a quanto sembra, dev’essere social. Dal socialismo reale a quello virtuale: cioè irreale. Ma perché? Dove sta scritto? In verità, mi sono disiscritto — anche la Crusca registra il verbo tra i neologismi — soltanto da uno dei due social su cui ero attivo: sull’altro, comunque, non ci vado quasi più e dalla stessa data non ci scrivo più niente. Me l’ero tenuto giusto in caso di crisi d’astinenza, ma poi succede che quando perdi il vizio lo perdi e basta (il pelo l’ho già perso tanto tempo fa: l’inizio della calvizie è stato il mio vero passaggio alla maturità, altro che dente del giudizio). A un certo punto ho deciso di smettere, così: d’impulso, da un momento all’altro, proprio mentre stavo leggendo commenti come al solito acidi, acrimoniosi, astiosi, avari (in rigoroso ordine alfabetico, e fermandosi alla A). Ho smesso molti mesi dopo aver visto la serie The Social Dilemma, che tutto sommato non mi aveva affatto scalfito: come se in realtà non mi riguardasse. Ho smesso qualche tempo prima delle rivelazioni che stanno destando scandalo in tutto il mondo riguardo ai comportamenti di una delle compagnie che gestiscono i principali social. Ho smesso e basta, senza ragioni e forse senza ragione; per un bisogno personale, come una specie d’istinto (di sopravvivenza?). I nuovi media, quelli che chiamavamo nuovi media e adesso cominciano in parte a diventare vecchiotti, li ho sempre difesi, fin dall’inizio, e sempre li difenderò. Da studioso della comunicazione non posso non riconoscere che grazie a loro — grazie alla telematica, per usare un termine quanto mai generico e approssimativo — hanno potuto prendere la parola tantissime persone che non avevano mai avuto voce in capitolo. Quei nuovi modi di comunicare ci hanno riportato a scrivere dopo un periodo dominato dall’oralità tecnologica e dagli audiovisivi; ci hanno fatto sperimentare una linguasempre in bilico tra lo scritto e il parlato, ma proprio per questo sempre espressiva, viva, attuale: un e-taliano vero. Mi ricordo bene quando alla prima email di spam che ho ricevuto — eravamo ancora nel Novecento — ho risposto: «Scusi ma io non la conosco, deve aver sbagliato indirizzo». Proprio come si faceva con le telefonate sul numero fisso, quando ancora si dovevano comporre i numeri che avevi segnato nell’agendina o imparato a memoria (sapevamo, sapevo all’epoca tantissimi numeri a memoria: ora so solo il mio; quelli di mia moglie e di figlia li ho scritti su un foglietto che tengo nel portafoglio, casomai il telefonino dovesse abbandonarmi a me stesso). Mi ricordo quando sul primo di quei social si parlava in terza persona. Mi ero iscritto dopo essermi lasciato con la mia compagna di allora e per rispondere alla domanda «A cosa pensa Giuseppe?» scrivevo frasi tipo «Cerca un pensiero stupendo che renda la pelle splendida». Citazione canzonettistica (sono gli Afterhours) che all’epoca — avevo meno di quarant’anni — mi dava la sensazione di essere o almeno apparire giovane. Risultato: due mi piace; e in ogni caso mi sentivo già un po’ meno solo. Quando ho deciso di smettere avevo ormai 5 mila amici e più o meno altrettante persone che seguivano la pagina. Ma proprio quello era il problema. Perché io di amici ne ho sempre avuti pochi: pochi ma buoni, mi è sempre piaciuto pensare. L’ultimo amico-amico con cui posso davvero discutere di tutto senza dover frapporre filtri di pudore l’ho conosciuto al terzo anno di università: più di trent’anni fa. Mi chiamo Giuseppe, da 100 giorni non vado più sui social e da oltre quindici anni (ormai ho perso il conto) non tocco sigarette. Quando ho smesso di fumare ho faticato tanto. Masticavo in continuazione gomme alla nicotina e bastoncini di liquerizia, col risultato che ogni tanto mi veniva la tachicardia. Per la strada pedinavo i fumatori cercando di annusare il più a lungo possibile quella scia di tabacco bruciato. Dopo la prima settimana, sono andato in libreria e ho comprato l’equivalente in libri dei soldi che avevo risparmiato evitando di comprare le sigarette. Li ho letti? Non me lo ricordo, forse non tutti: ma quello che contava era il gesto. E infatti me lo ricordo ancora. Il gesto di riappropriazione: riprendersi qualcosa che una dipendenza mi aveva tolto, e ora era tornato mio. Ora che ho smesso con i social che cosa ho risparmiato? Tempo. Tempo che però non è denaro: è vita. Cosa ho fatto in questi giorni con tutto quel tempo? Non saprei dirlo, nulla di particolare in effetti. Ho vissuto, appunto. Confesso che ho vissuto, diceva quello. Forse ho solo perso tempo in un altro modo: ma l’ho perso per me, e dunque ritrovato. Anche se la domanda giusta da farsi credo sia un’altra: cosa ci ho guadagnato? Quiete, attenzione, concentrazione: energie mentali per fare cose vere. Adesso vado a correre e lascio il cellulare. Faccio yoga e lascio il cellulare. Lavoro e lascio il cellulare. Sto con mia moglie, con mia figlia: e lascio il cellulare. Quando vedo una cosa che mi piace, ogni tanto penso ancora: questa sì che beccherebbe un sacco di like. Ma subito dopo penso: chissenefrega; fammi restare qui a godermela, fammela gustare fino in fondo, fissare nella memoria, trasformare in un ricordo. Ho smesso di pensarmi sempre in piazza, in pubblico, in posa; di misurarmi in termini quantitativi. Ho accettato di sentirmi solo, ogni tanto: di vivere ogni tanto momenti vuoti come uova al cioccolato; di non avere niente da fare o da dire o da pubblicare o da guardare o da commentare. E mi annoio: eh sì che mi annoio, e certo che mi annoio. È un mio diritto. (Già: con le citazioni canzonettistiche non ho smesso e credo che non lo farò mai).

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