Quei saperi nascosti degli alunni stranieri

di Vinicio Ongini | Comune-info |03 Dicembre 2021

Quali sono gli esiti scolastici degli alunni con cittadinanza non italiana? Quali sono le traiettorie formative, gli ostacoli, i successi nel confronto con gli alunni italiani? Ci sono progressi, e se sì, come vengono raccontati?

Negli ultimi anni sono state “scattate” tre utili fotografie su questi temi. La prima, in ordine temporale, è l’indagine del ministero dell’istruzione, La dispersione scolastica, a.s. 2015-16 e nel passaggio 2016-17, novembre 2017. Un’indagine generale su tutta la popolazione scolastica, dalla quale si evince che la dispersione scolastica è diminuita negli ultimi dieci anni, passando dal 20,8 per cento del 2006 al 13,8 per cento del 2016. Percentuale ancora molto alta. Vediamo nei dettagli quali temi e questioni emergono: un divario significativo tra scuole del Nord e del Sud del Paese: la dispersione scolastica è molto più forte nelle regioni Sicilia, Calabria, Campania, Sardegna; la dispersione scolastica si evidenzia in particolare nel passaggio tra la scuola secondaria di primo grado e la scuola di secondo grado; c’è una differenza di genere: la dispersione scolastica è più accentuata tra i maschi; coinvolge in particolare due tipologie di allievi: gli studenti con cittadinanza non italiana e gli studenti provenienti da condizioni economiche e sociali disagiate.

La seconda fotografia è l’ultima indagine statistica pubblicata dal ministero dell’istruzione: Alunni con cittadinanza non italiana, maggio 2020, i dati si riferiscono all’a.s. 2018-19, che registra una percentuale in leggero aumento, nonostante il forte rallentamento della loro presenza negli ultimi anni dovuto alla crisi economica del nostro Paese. Gli alunni con cittadinanza non italiana sono 860.000 e rappresentano il 10 per cento sul totale della popolazione scolastica. Come si spiega questo aumento? In questi stessi anni sono diminuiti gli alunni italiani, 240.000 in meno negli ultimi cinque anni.

Quello degli studenti non italiani rappresenta dunque un elemento dinamico, e non solo dal punto di vista demografico, un segmento della popolazione scolastica differenziato al suo interno e in movimento, con alcune caratteristiche positive e attrattive, lo vedremo tra poco, anche nei confronti degli studenti italiani. Naturalmente rimangono questioni critiche ancora irrisolte. Per esempio le difficoltà nel passaggio alle scuole superiori di secondo grado, come evidenziato anche dall’indagine generale sulla dispersione scolastica: un terzo degli allievi abbandona nel biennio delle scuole superiori di secondo grado. Continua ad esserci un forte ritardo scolastico: un terzo degli allievi d’origine non italiana, a quattordici anni, sono in ritardo, di uno o più anni, nei confronti dei compagni di scuola italiani. La scarsa frequenza della scuola dell’infanzia: quasi un quarto dei bambini, figlio di immigrati, nella fascia d’età tre-cinque anni, non frequenta la scuola dell’infanzia. Un gap decisivo considerando che sono gli anni in cui si prende dimestichezza con la lingua. Con questa “partenza” il punto di approdo del percorso scolastico degli studenti “stranieri” è inevitabilmente problematico. La differenza di genere: In generale le studentesse hanno risultati scolastici migliori degli studenti, fatta eccezione per la matematica. Sono anche più propense a percorsi scolastici più lunghi dei maschi, verso i diplomi e le lauree. E questa caratteristica vale anche per la componente straniera, anzi le studentesse straniere hanno risultati migliori dei loro compagni maschi, più delle studentesse italiane nei confronti degli studenti maschi italiani. Ma se si prendono in considerazione i dati sui neet (leggi anche La crescita dei Neet ora fa paura di Annarita Sacco), i giovani che abbandonano precocemente qualunque tipo di percorso formativo, si scopre che se sul versante italiano sono soprattutto maschi, sul versante degli stranieri i neet sono soprattutto femmine, con percentuali molto alte nelle comunità marocchine, bengalesi, indiane, pakistane, cingalesi. Significa dunque che il miglior potenziale delle alunne straniere, rispetto ai maschi, sulla lunga distanza trova ostacoli e condizioni sfavorevoli di tipo sociale e culturale.

La terza fotografia presa in considerazione è quella scattata dal Rapporto invalsi 2019, le ultime rilevazioni (nel 2020 le prove invalsi non si sono svolte). Le prove di quest’ultima indagine contenevano due novità: per la prima volta gli studenti di terza media e seconda superiore hanno svolto le prove su un computer, alle primarie invece hanno continuato a usare carta e penna. La seconda novità, accanto alle prove di italiano e matematica, è l’introduzione, in quinta elementare e terza media, di due prove di inglese: lettura e comprensione orale. Quali sono i principali elementi emersi da questa indagine in relazione ai percorsi e agli esiti scolastici degli alunni stranieri? Il primo dato generale è la forte differenza territoriale. C’è un’Italia divisa in due: esiti positivi, sopra la media nazionale, nelle scuole del Nord e in particolare del Nord Est, esiti negativi nelle regioni del Sud e delle Isole: Campania, Calabria, Sicilia, Sardegna. Il Nord-Est è non solo più efficace, in base ai risultati delle prove, ma anche più equo, cioè garantisce maggiore eterogeneità nella composizione delle classi. Nelle scuole del mezzogiorno invece ci sono maggiori differenze tra scuole e all’interno delle scuole tra classi. C’è, in altre parole, una tendenza più accentuata nelle scuole del Sud a formare classi con i “bravi” e classi con i “meno bravi”. Si può ipotizzare che in questi contesti sociali abbia un peso maggiore una spinta, una mentalità più “familistica” verso l’istruzione pubblica, che non è certo un portato dalle culture degli immigrati. Questi dati possono mettere in discussione un pregiudizio. Non è vero che nelle scuole con percentuali alte di alunni “stranieri” la qualità della scuola peggiora (“rallentano il programma”, lo dicono a volte i genitori italiani preoccupati). Lo dimostra il fatto che le prove invalsi raggiungono risultati migliori nelle scuole del Nord Est del Paese, il territorio a più alta presenza di alunni “stranieri”. Non è vero che formare classi omogenee, i bravi da una parte, gli svantaggiati da un’altra, come avviene soprattutto a Sud, risulti più efficace. Forse è vero il contrario, e cioè che l’eterogeneità di una classe può costituire elemento dinamico, di scambio, di relazioni più ricche di opportunità tra tutti gli allievi. È un’indicazione della normativa del ministero dell’istruzione, Linee guida per l’accoglienza degli alunni stranieri, febbraio 2014: formare le classi mescolando il più possibile le tante diversità della popolazione scolastica. È il principio della “via italiana alla scuola interculturale”. Nella scuola e nella classe “eterogenea” si possono fare “esercizi di mondo”, come è scritto nel documento, Diversi da chi?, 2015, dell’Osservatorio per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’intercultura del ministero dell’istruzione:

Nella scuola gli studenti con background migratorio possono imparare una cittadinanza ancorata al contesto nazionale e insieme aperta a un mondo sempre più grande, interdipendente, interconnesso. Nella scuola questi bambini e ragazzi si allenano a convivere in una pluralità diffusa…

Ma c’è un altro aspetto importante evidenziato dalla recente indagine invalsi, collegato a una delle novità introdotte quest’anno: le prove di inglese. Gli studenti “stranieri” delle scuole italiane hanno difficoltà in matematica e soprattutto nella lingua italiana ma in inglese sono bravi quanto i loro compagni di classe italiani e in alcune regioni sono anche più preparati. Questa competenza maggiore in inglese allude a una dimensione plurilingue degli alunni “stranieri” poco visibile e non valorizzata. Troppo spesso il racconto e la pratica dell’integrazione dei bambini e ragazzi “stranieri” sono state dominate dalla dimensione delle carenze, delle difficoltà, dei vuoti da colmare (“non conosce una parola d’italiano!”). Riconoscendo molto poco i saperi acquisiti, le competenze in altre lingue, la capacità di muoversi tra più codici linguistici. I bambini filippini a volte conoscono già l’inglese e i bambini senegalesi o ivoriani il francese, oltre che in qualche caso le lingue madri. Ci sono forme di bilinguismo e di dimestichezza con le lingue maggiori tra gli allievi stranieri e questo loro competenza può essere un’opportunità di arricchimento per tutti.

Troppo spesso gli alunni e gli studenti “stranieri” a scuola sono raccontati come una componente debole, fragile, bisognosa di aiuto. Naturalmente ci sono anche queste situazioni e le politiche scolastiche, le scuole, i dirigenti scolastici, gli insegnanti devono intervenire con misure precise e adeguate. Ma c’è anche un altro aspetto, poco visto, non valorizzato ed è quello degli apporti, o dei possibili apporti, dei ragazzi “stranieri” e delle loro famiglie: una competenza plurilingue (più bravi in inglese, dicono i dati invalsi), un impegno e un’aspettativa verso l’istruzione da parte di alcuni gruppi d’immigrazione che i nostri studenti e famiglie italiane non hanno più. Nell’indagine nazionale istat, L’integrazione scolastica e sociale delle seconde generazioni, 2015 veniva rilevato questo aspetto: «le relazioni degli alunni stranieri con gli insegnanti sono migliori di quelle degli alunni italiani, in particolare nelle scuole superiori. Anche il rapporto con lo studio sembra nel complesso migliore di quello degli italiani».

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