Signor presidente le scrivo dalla Geenna. Qui è solo pianto e stridor di denti

Il Riformista, 27 novembre 2021

Michele Nardi, dopo aver lavorato come giudice a Trani, ha prestato servizio all’Ispettorato del Ministero della giustizia e quindi alla Procura di Roma come pm. Nel 2016 è stato indagato dalla Procura di Lecce con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari e al falso. Dal 14 gennaio 2019 al 24 giugno del 2020 è stato sottoposto alla custodia cautelare in carcere. La Cassazione, per tre volte, ha annullato il provvedimento di carcerazione preventiva. L’anno scorso è stato condannato in primo grado 16 anni e 9 mesi di reclusione. Attualmente è sospeso dalle funzioni e dallo stipendio. Questa settimana ha chiesto al Csm di poter tornare in servizio. Si è sempre proclamato innocente ed ha depositato a Palazzo dei Marescialli un dossier sul modo in cui sono state condotte le indagini ed il processo. Alla base delle accuse vi fu la testimonianza dell’imprenditore pugliese Flavio D’Introno. Quando Nardi venne arrestato era titolare di importanti fascicoli su esponenti politici di primo piano. Pubblichiamo qui di seguito la lettera che Michele Nardi ha inviato al presidente Mattarella in occasione della scorsa Pasqua, direttamente dal carcere di Matera.


Nelle celle delle carceri ci si ammala, si soffre e si muore, ma nessuno parla di noi a parte il Santo Pontefice. Occorre una altissima caratura morale, come quella del Pontefice, per chinarsi verso il basso e guardare nella gola infernale dello scarto sociale per occuparsi degli ultimi di questa umanità dolente. Per questo mi sarei aspettato dal lei, signor Presidente, un intervento deciso per indirizzare il governo ad adottare serie misure di sfoltimento delle carceri, l’adozione automatica e su larga scala di misure alternative alla detenzione, come fatto persino in Paesi che consideriamo meno civili di noi, al fine di allentare il pericolo di contagio e ridare speranza a questa umanità reietta. Nessuno di voi conosce lo stato delle carceri italiane, vecchie, luride, prive di manutenzione.

Nessuno di voi ha mangiato il disgustoso rancio del carcere. Nessuno di voi conosce l’umiliazione di essere spiato e controllato anche quando sei in bagno e il dover implorare per esercitare i propri piccoli diritti, come farsi visitare se stai male o poter inviare una istanza alla Autorità giudiziaria o ricevere la visita di un avvocato.

Se non fosse per la pietas dei nostri compagni di sventura e del personale penitenziario di ogni ordine e grado, anche loro dannati con noi in questo girone dantesco, non saremmo in grado di terminare la giornata. E questa situazione già cosi intollerabile per un Paese che si ritiene civile, è aggravata dalla situazione dalla pandemia mondiale di covid-19. Come pensa che ci si possa sentire a vedere gli agenti di polizia dotati di mascherine e guanti quando a noi non viene fornito nulla? È l’ennesima sottolineatura che siamo solo spazzatura da nascondere sotto il tappeto. Ringrazio Dio, mi creda, per avermi fatto vivere questa tragica esperienza. Per trent’anni ho spedito centinaia di persone in prigione l’ho fatto con coscienza e cercando di essere giusto, ma non potevo immaginare l’inferno a cui li condannavo perché il carcere per conoscerlo, occorre viverlo, non andarci in visita passando dagli uffici della direzione, dove tutto è tranquillo e pulito, ma immergersi negli odori nauseabondi delle celle, nella disperazione dei compagni di prigionia, nella loro rabbiosa prepotenza, nella ristrettezza degli spazi che rende difficile qualsiasi movimento.

Si impara, stando qui, che le carceri sono piene di persone che dovrebbero stare piuttosto in un ospedale psichiatrico o ricoverati in reparti ospedalieri o, semplicemente, dovrebbero essere liberi perché innocenti o perché, anche se colpevoli, il carcere assomiglia ad una vendetta consumata nei loro confronti e non ad uno strumento di rieducazione come prescritto dalla Costituzione. Disperati spinti al margine della società e delle possibilità esistenziali, finiti inevitabilmente nelle maglie della giustizia, mischiati a criminali veri e nuovamente vittime, anche qui in carcere. Ci sono malati di cancro allo stato terminale rispetto ai quali il giudice competente non ha avuto la compassione di adottare provvedimenti alternativi e poveracci che devono scontare dieci anni per una serie di piccoli furti di natura alimentare.

Ho conosciuto ragazzi di vent’anni che hanno tentato dì impiccarsi ed altri guardarti spauriti, gettare i loro occhi nei tuoi occhi, ancora increduli dell’inverno esistenziale che avvolgeva la loro sorte, come per cercare, nel fondo della tua anima un briciolo di compassione, di comprensione, per sentirsi ancora vivi, riconosciuti, degni di un futuro, di sogni e di speranze. Il carcere invece, aumenta solo la rabbia e la collera, la sensazione della esclusione e del biasimo collettivo e spinge ancora di più a condotte antisociali. Nessuno uscirà di qui migliorato, rieducato, risocializzato. Il carcere è una istituzione arcaica, inutile, dannosa, costosa, dolorosa, brutale, utile solo per neutralizzare temporaneamente i violenti. Alla luce dell’attuale livello tecnologico come è possibile non prevedere gli arresti domiciliari con controllo da remoto, la forma ordinaria di custodia e detenzione? Nello sprofondo di questo inferno, dove sei fortunato se stai in una cella con un bagno in cui riesci a sederti, o farti una doccia con un minimo di privacy, vi sono uomini che marciscono sospesi nel tempo fermo e sospeso del carcere e che stanno soffrendo più di quanto dovrebbero o meriterebbero, per via della attuale situazione e, fra loro, tanti innocenti. Già, perché nelle carceri, spesso si dimentica questo, ci sono anche degli innocenti in attesa di giudizio, ma le stimmate della galera imprimono un marchio di colpa sulla fronte di chiunque varchi il cancello che ci separa dagli altri, da quelli che giudicano e si sentono buoni cittadini. Ma un imputato assolto, dopo anni di sofferenza, non è un colpevole che è riuscito furbamente o fortunosamente a scamparsela, come qualcuno, che siede dove non meriterebbe, ha pubblicamente affermato, ma una sconfitta per l’intero consesso sociale, per il sistema giudiziario, e non perché non sia riuscito a condannarlo, ma perché ha inflitto sofferenza ad un innocente. Il diritto penale, il processo, anche negli attuali ordinamenti civili, mantiene una carica di violenza e brutalità difficile da giustificare sul piano morale. Questa lezione fondamentale di garantismo sembra del tutto dimenticata dalla classe politica, di governo e di opposizione, oltre che, purtroppo, anche da gran parte della magistratura, inevitabile figlia di questa società incattivita e impaurita da continui e ingiustificati allarmismi. Lei, signor Presidente, rischia di diventare, inconsapevolmente, il volto credibile e perbene della sanguinaria ondata giustizialista che ha travolto le radici garantiste della nostra cultura giuridica. Ma con la sua storia personale e familiare, la sua cultura e la formazione giuridica, la profonda conoscenza dei diritti fondamentali dell’uomo “riconosciuti” dalla Costituzione repubblicana, avrebbe dovuto indicare la strada, essere di ispirazione, richiamare tutti al rispetto degli alti principi di civiltà giuridica che l’Italia – il nostro Paese di cui essere orgogliosi e fieri testimoni – sin dai tempi di Cesare Beccaria ha insegnato al mondo intero. Ci saremmo aspettati una sua parola, un piccolo pensiero anche per noi. Forse avremmo evitato rivolte e manganellate, di sicuro saremmo stati risparmiati dall’amarezza e dalla delusione e, con noi, le nostre famiglie provate dal nostro dolore, dalla nostra mancanza. Forse non avremmo ricevuto niente di concreto ma almeno avremmo avuto l’illusione di avere ancore il rispetto e la considerazione del Presidente della Repubblica, delle Istituzioni, della società civile, rispetto e considerazione che sostanziano la dignità umana, quella che sembra non spettarci più per il solo fatto di essere qui, in questo mondo a parte, dove sembra che non basti privarci della libertà, ma occorre spogliarci della dignità umana, degli affetti della dimensione vitale che rende uomini, perché solo considerandoci più tali, ma scarti di cui liberarsi, si può moralmente indifferenti alle nostre disumane condizioni di detenzione e, persino, al pericolo concreto di farci ammalare e morire di Coronavirus. Il processo non è una pratica da smaltire, un risultato aziendale da inserire in una statistica di produttività, ma un pozzo nero di umanità nei quale occorre immergersi, sporcandosi, perché solo cosi si può diventare davvero giudici di uomini, titolari legittimi del destino altrui. Perché la giustizia vive in quella sottile e sfumata linea dell’orizzonte dove il mare delle vicende umane incontra il cielo delle regole e del diritto e il compito del giudice è leggere la corretta. Decisione su quell’impalpabile confine, dove quelle due realtà, quella umana, concreta e dolorosa e quella astratta e perfetta della norma, si incontrano come per confondersi una nell’altra. Per quanto mi riguarda posso dirle di aver trovato più umanità qui, compassione, vicinanza, fra detenuti e personale penitenziario, di quanto ne abbia mai sperimentato nella vita precedente. Come la vedova che getta nel tesoro del Tempio la sua ultima moneta, così i detenuti di Matera hanno rinunciato, in alcuni casi, anche ad acquistare il sopravvitto per il giorno di Pasqua per donare i pochi spiccioli del loro peculio carcerario alla Caritas, perché aiuti le famiglie in difficoltà economica! Gli ultimi della terra che insegnano a tutti la solidarietà concreta, e non solo a parole. Verso un Paese in ginocchio, gemente e disperato. Ecco perché, di fronte a questo spettacolo di umanità dolente, di cui faccio pienamente parte, ringrazio il Signore che, Crocifisso e reietto, mi ha mostrato, attraverso questa via crucis, che sono stato chiamato a vivere per caso come l’ignaro Cireneo, il Suo volto Santo attraverso quello dei miei Compagni di sventura. Noi, crocifissi accanto a Lui, crocifissi in Lui. Mi creda, signor presidente, di fronte a tutto questo dolore e mestizia che mi circondano passa in secondo ordine anche il mio destino processuale. La vita qui ha trovato la sua vocazione: essere la loro voce, la voce degli ultimi che nessuno ascolta, che nessuno vuole ascoltare. È il modo più alto per essere magistrato della Repubblica: reclamare, con tutta la voce che ho, i diritti inalienabili della parte più debole del mio Paese! La prego, per tanto, dal basso della mia condizione, dai fondo della mia umiliazione, di voler considerare l’opportunità di sollecitare il governo ad adottare misure legislative adeguate per rendere anche questo “mondo a parte” degno di un Paese civile, quale orgogliosamente deve essere e rimanere sempre la nostra amata Italia. Buona Pasqua, signor Presidente

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