Camarillo Brillo Sessions 2
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Gli anni ‘80 hanno fatto anche cose buone. Se riusciamo ad eliminare dai pensieri i paninari, la “Milano da bere”, i capelli dei “Kajagogoo” e i soliti politici, ce la possiamo fare. Musicalmente sono stati anni molto buoni, anzi ottimi. Certamente non si deve cadere nella panacea delle classifiche. Non del tutto, almeno. Ma sì, dischi straordinari ne sono usciti.
Facile scrivere di quelli. Meno dei tanti prodotti, seppur molto dignitosi, che si sono persi tra la velocità del consumo (della musica) e i fenomeni mainstream che si sono accaparrati tutte le hits. E per essere anche più pignoli, molti album strizzavano brutalmente un occhio -o due- al pop semplice semplice, ma riuscivano lo stesso ad avere una cura dei dettagli e delle idee, dentro, affatto banali.
Prendete l’unica prova come cantante di Rosie Vela. Modella e attrice, forse qualcuno la ricorda per la sua relazione con Jeff Lynne, il barbuto leader della “ELO” e uno dei membri dei “Travelling Wilburys”, supergruppo, come piace dire. Insomma, non una musicista a tuttotondo: come moltissimi, troppi, si dilettava comunque a comporre ed a cantare.
Se hai la fortuna di conoscere Kary Katz hai già giocato il jolly. Sapete molto bene che era il produttore e uno degli innumerevoli tecnici del suono degli “Steely Dan”, mai troppo celebrata band seminale del pop migliore degli ultimi quarant’anni. Sta cazzeggiando in studio, quando questa signora gli viene presentata, carica di canzoni e soldi: due assi e pochi rischi.
Che, poi, la voce della Vela non è male, anzi. Profonda e duttile, mai invadente, eppure colorata. Le canzoni del suo cassetto sono malinconiche, ma anche ritmate, complesse ed orecchiabili. Si può volere altro? Be’, sì. Quando si materializza Walter Brecker, che passa da lì così a caso, sono sei anni che gli Steely Dan non pubblicano nulla. L’ultimo loro disco è un capolavoro totale: “Gaucho.” Forse è difficile fare meglio.
Il produttore gli fa ascoltare quei nastri e il chitarrista degli Steely Dan resta folgorato. È entusiasta di ritrovare tra le flessuose melodie di Rosie l’intima essenza dell’esperienza musicale a cui ha dedicato dieci anni di vita, pieni di successi e di soddisfazioni. Suggerisce solo a Katz di dare ai suoni della tastiera un po' di consistenza in più, proponendogli di coinvolgere proprio il suo vecchio amico Donald Fagen.
Quest’ultimo, pur essendo un notorio scorbutico, non è privo di cuore: l’idea di poter tornare a lavorare per il suo fidato produttore, al fianco, per di più, del suo storico partner musicale, lo alletta forse anche più della stessa top model di Galveston, che occhieggia dietro quelle soffici partiture jazz-pop. C’è anche già il titolo del disco: “Zazu”.
In realtà un nome femminile di origine ebraica. Sta per “movimento”, Zazu” resterà solo un disco: il disco di Rosie Vela. Che nel 1986 si ritrova catapultata ai “Sound Ideas Studio” di New York con il seguente team: Gary Katz alla console, Donald Fagen alle tastiere, Walter Becker e Rick Derringer alle chitarre, Jim Keltner alla batteria e Tony Levin, chiamato a suonare basso e “Chapman Stick” su due brani (“Tonto” e “Zazu”).
Il team stellare intesse i tappeti sonori perfetti (del resto, perfezione e “Steely Dan” sono praticamente sinonimi). E sorprende davvero è la grinta con cui la Vela padroneggia queste partiture morbide, ma ritmate allo stesso tempo, a partire dall’ipnotica doppietta iniziale “Fool’s Paradise”-“Magic Smile”.
È stupefacente l’abilità con cui Vela si cala nelle atmosfere tipicamente “...stile Fagen” di brani che avrebbero figurato più che degnamente su “The Nightfly.” La struggente “Interlude”, una “Maxine” di ritorno, solcata da un assolo di chitarra dsa rocordare, prima che la Vela riprenda in mano il microfono sospinta da quel vortice sinuoso di tastiere che è il marchio dell’intero lavoro.
Sono brani ben congegnati, asciutti e raffinati al contempo, in bilico tra il “synth-pop” dominante e una vena jazz che affiora costantemente dai dettagli (i cori, i ricami chitarristici, l’andatura pacata dettata dal drumming.) Quelle di “Zazu” sono principalmente canzoni d'amore – secondo le parole di Vela, “sugli amanti sfuggenti che non si trovano mai” – anche se costruite con un approccio criptico ed enigmatico che, dev’essere piaciuto non poco al duo Fagen-Becker,
Nonostante le recensioni positive e l’exploit del singolo “Magic Smile” (n.29 della classifica Billboard Adult Contemporary), “Zazu” si è rivelato un mezzo fallimento commerciale negli Stati Uniti, ottenendo migliori riscontri in Europa, in particolare nel Regno Unito, dove ha raggiunto il n.20 della classifica degli album conquistando un disco d'argento (“Magic Smile” è stata anche una hit nella Uk Top 30.)
Così, gradualmente, è scivolato nell’oblio: fuori stampa in America e in Europa dall'inizio degli anni 90 (ma io ce l’ho, ovviamente), il disco è stato ristampato In Inghilterra da “Cherry Red” nel 2011, per il venticinquennale della sua pubblicazione, con un suono un più potente e un “booklet” contenente alcuni retroscena sulla sua gestazione e alcune foto inedite. Un’occasione per riscoprire tutto il fascino di questi brani senza tempo e della loro interprete, nel frattempo uscita completamente dai mondo della musica.
Ci resta così solo quell’unico, fulminante debutto: un lampo, un’ epifania, ed una resurrezione, quella di due irriducibili musicisti contronatura com Fagen e Becker. D’accordo, in seguito sarebbero tornati a riunirsi sotto le insegne degli Steely Dan: nel 2000 per registrare proprio “Two Against Nature”, a vent’anni dal predecessore, e tre anni dopo per “Everything Must Go”.
Una saga proseguita poi anche dal vivo, anche dopo la scomparsa di Becker, avvenuta nel 2017. Ma, al di fuori dell’attività per i Dan, solo in due altre occasioni i due compari si sono ritrovati negli stessi studi di registrazione in 44 anni: nel 1969 per l’album di Terry Boylan “Alias Boona” e nel 1973 per il brano “I'll Be Leaving Her Tomorrow” di Thomas Jefferson Kaye. “Zazu” resterà dunque, per tanti versi una cosa unica, di rara bellezza.
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