Transit

CamarilloBrilloSessions

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Tony Longheu – “BluesBeyond Again” (2023)

(TLBBA)

“Farà piacere un bel mazzo di rose E anche il rumore che fa il cellophane Ma due righe fan gola di più.” Per gli amici non si fanno recensioni, perchè scrivere dei loro dischi è un piacere, mai un obbligo o un lavoro. Con Tony Longheu, compadre di lungo corso, ci siamo fatti una breve chiacchierata sul suo disco “BluesBeyond Again” (lo trovate qui) e lui stesso ci presenta le sue composizioni, una ad una. Quindi un “Camarillo Brillo Session” un po' più lunga del solito, ma è voluta e meritata. Buona lettura. (D.)

Continua la tua esplorazione del Blues e della musica al là di questo genere. Come nasce la decisione di pubblicare “Again”, il secondo capitolo di “BluesBeyond”? “In realtà era da tempo che avevo voglia di dare un “fratello” a “BluesBeyond” del 2019, ma mi ero “intrippato” in cose più acustiche e, quindi, mi sono concentrato su nuove composizioni in acustico (anche con effettistica), che sono poi sfociate in “Points of View”, un album che non era propriamente blues, ma che era ispirato da questa musica. Alcuni amici, ultimamente, mi avevano chiesto un altro disco di esplorazioni blues e da questo input è uscito “BluesBeyond Again.”

Sei sempre stato un musicista aperto alla sperimentazione sonora, alla contaminazione tra stili musicali diversi (ricordiamo la tua trilogia elettronica “Lo-Fi Project). Quanto conta per un artista non rimanere confinato in un solo genere, per la tua esperienza? “Bella domanda. Personalmente ho cercato, e cerco ancora, di essere onnivoro, sia negli ascolti, sia nel comporre e suonare. Anni di ascolto mi sono serviti per affinare questa caratteristica. Sono sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, pur restando, comunque, con un piede nella “tradizione” (chiamiamola così). Del resto ho cominciato ad ascoltare seriamente musica nella metà degli Anni’70, quindi ho avuto una buona scuola.”

Sappiamo che suonare dal vivo, che è la dimensione certamente a te più consona, non è affatto semplice, per chi non fa il musicista professionista. Come vedi la situazione attuale in Friuli? (La domanda è una di quelle fatte mille volte, lo so…). “Come ho già detto in altre interviste, la gente che incontro durante le mie esibizioni, a parte qualche rarissimo caso, frequenta locali dove la musica è considerata puro intrattenimento. Per questo il musicista è, spesso, quasi costretto a suonare cover di artisti conosciuti. Ccerco sempre di mescolare le cose, proponendo mie composizioni e rivisitazioni di classici del blues e del rock, altrimenti la gente ti fa capire che si annoia. In Friuli i posti per suonare sono poco idonei, la musica fa da contorno e deve essere suonata a basso volume, altrimenti disturba. Ho suonato poche volte in sale adatte, dove le persone ti ascoltano con attenzione. Spero che cambi qualcosa, ma non mi illudo. Conosco tanti bravi musicisti che hanno smesso di suonare proprio per questo motivo e mi dispiaccio molto di questo.”

Il mondo è diventato digitale, praticamente in ogni suo aspetto. Recentemente Brian Eno ha affermato che ritiene questo periodo storico molto interessante, perché chiunque può creare della musica, anche bellissima, e farla arrivare a tutti. Non c’è il rischio che vi sia un’offerta musicale sterminata per una domanda, in realtà, molto bassa? “Brian Eno dice cose giuste. Però non ha il problema di veicolare la propria musica, ha molte “ore di volo” sulle spalle: è famoso e ha cominciato a produrre musica in anni nei quali la musica era considerata Arte. Noi, purtroppo, abbiamo il problema che non c’è vicino all’artista chi ha voglia di rischiare. I produttori e i manager guardano solo al profitto e promuovono solo “quello che va”: ormai molta gente ascolta solo musica “liquida”, non compra più CD o LP, non si appassiona. Per tornare alla domanda, sì, esiste il rischio che non si accorgano di te, se non sai muoverti in rete. Se non sai promuovere il tuo prodotto rischi l’anonimato. C’è molta buona musica in giro, ma pochi riescono ad emergere.”

La critica musicale tende, come è sempre stato, a essere molto schierata, alla ricerca di un attimo di visibilità per chi la fa e per gli artisti che, secondo i giornalisti, creano un ritorno (anche economico.) Credi che sia importante avere buone recensioni, e se sì, come ti poni di fronte a una stampa come quella musicale, sempre più di nicchia? “Mah, dipende molto se chi scrive di musica non ha catene o guinzagli. Certo, se uno scrive bene di me fa piacere. Se scrive male mi deve, però, spiegarne il motivo, dirmi cosa c’ è che non va. Insomma, spero sempre che chi ascolta le mie cose sia obiettivo, che lo faccia con attenzione. Confido molto nell’opinione dell’ascoltatore “medio”, meglio se non è un musicista. Dal mio punto di vista è più obiettivo, meno “tecnico”, la musica gli “ arriva” senza pregiudizi. Credo di essermi spiegato.”

Come può fare, dal tuo punto di vista, una persona che vuole sostenere un musicista, oltre ovviamente all’acquisto dei cd (o dei file in streaming) o della partecipazione ai concerti? “Penso che il “passaparola” sia molto importante. Mezzi per farlo ce ne sono e molti, anche se io sono abituato da tempo, ormai a non aspettarmi nulla, mi “sbatto” finchè posso. Anche se, a volte, mi mancano le energie.”

Se ce n’è una, in che direzione andrà la musica di Tony Longheu dopo “BluesBeyond Again”? “Vorrei esplorare ancora nuovi territori sonori, nuovi generi. Sono sempre interessato alla musica in toto, sia acustica che elettronica. Sto preparando due nuovi lavori, uno più acustico e cantautorale, l’altro più elettronico e strumentale. L’importante è avere tempo, passione e cuore!”

(TL)

“BluesBeyond Again”: tutti i brani presentati da Tony Longheu.

Metal House Blues. Un neanche troppo velato omaggio a Ry Cooder, un musicista totale, un viaggiatore dei suoni che è da anni una mia fonte di ispirazione. Chitarra accordata di SOL aperto e slide al mignolo per una cavalcata Blues.   Blues Masters Tribute. Tributo sincero ad alcuni dei maestri del blues che mi hanno ispirato. Una citazione di “Black Betty”, canzone di “Leadbelly”, ripresa tra gli altri, dai “Ram Jam” alla fine degli anni ’70. Chitarra accordata di SOL aperto, sempre slide al mignolo, voce “alcolica” e batteria dritta.

Five Friends in Metal House. “Five Friends in the Metal House listen to the music and drinking all night long!” La “Metal House” è un luogo, non meglio identificato, dove cinque amici, durante il lockdown, si ritrovano per ascoltare musica e bere. Un brano in stile “North Mississippi Blues”, con slide guitar accordata in “Standard Tuning.”

Four Shorts Blues (LO-FI Cellar Sessions). Quattro piccole composizioni improvvisate, una con “fields recordings”, rispettivamente con banjo, “Cigar Box Guitar”, “Diddley Bow” (chitarra con una sola corda) e voce con banjo.

DAD DAD Blues. Brano completamente improvvisato, eseguito con chitarre acustiche accordate in “DADDAD” e slide.

An Wednesday After Lunch. Una riflessione postprandiale, eseguita un mercoledì qualunque, dopo un piatto di pasta e un paio di bicchieri di vino. Chitarra resofonica accordata in sol aperto

Johnny Caliber drive a Van. Giovanni, un amico appassionato di blues, guida il suo furgone facendo consegne in tutto il Friuli. Appena sentito il brano mi ha detto che si è “visto” mentre viaggiava sul suo mezzo di trasporto e mi ha suggerito il titolo. Chitarra acustica in accordata in CGCCGD.

Peace on Me. Un pezzo scritto in mezzo alle montagne di Prossenicco di Taipana, dopo un breve temporale estivo, in riva al Fiume Natisone. Descrive il senso di pace che si può sentire quando si è in questi luoghi. Voce e Chitarra acustica (accordatura di do aperto.)

Shabda Joy (Raga Blues). La sperimentazione è sempre stata una mia passione. In questo caso ho creato un tappeto di tabla e chitarra (accordata in CGCCGC), creando una melodia orientaleggiante con slide guitar accordata in sol aperto. La tecnica slide era conosciuta, oltre che nelle Isole Hawaii e nel Mississippi, anche in India, dove tutt’ora vi sono maestri di chitarra che suonano con questa tecnica.

Now I'm Free Baby (by A.Longheu & F.Ulliana). Questa composizione, del chitarrista Fabio Ulliana, è già apparsa nel CD “ Blues Explosion”, a nome della “Fabio Ulliana & Off Limits Band”. Io avevo scritto e cantato il testo, che racconta di un sogno dove una strega lancia un incantesimo, ma poi, grazie ad un amuleto magico, il”Mojo”, la vittima viene liberata. Ho voluto proporre una versione molto più sperimentale, dove oltre a cantare, ho programmato un loop di batteria elettronica e suonato una slide guitar accordata in DADDAD.

Deep From My Soul (Space Blues). Un brano dove ho improvvisato dei loops di chitarra “Fender Stratocaster”, con effetti digitali e una melodia che è venuta dal profondo della mia anima. Buon ascolto. TL

Un particolare ringraziamento a Silvano Bottaro per la pazienza e per saperne tanto più di me.

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“E' inutile parlare d'amore” – Paolo Benvegnù

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(CBS 4)

All’alba, qualunque ora sia, restano i brandelli dei sogni. Non riesci a ricollocarli, si sovrappongono, sfumano, cambiano. Poche ore di sonno che ritrovi senza una ragione: perdere questi frammenti è una cosa che avviene senza pensiero, sovrastata dall’imperfezione della quotidianità. Dal nostro correre affannati come tanti piccoli cani senza guinzaglio.

Le canzoni di “E’ inutile parlare d’amore” (titolo che, da solo, vale moltissimo) sono questi frammenti. Vividi, splendenti, ma che sfuggono in un momento. Però lasciamo tanta luce, come quelle città immense e rumorose che accecano in un momento di lucidità, me che sono più belle di notte. Perfino in quelle si possono trovare i sentimenti, le parole, i suoni che ci aiutano.

Paolo Benvegnù costruisce un’opera folgorante nella sua musicalità raffinata e nel contempo comprensibile, emozionante. Eppure nelle pieghe di queste canzoni, arrangiate con una maestria quasi rara, si trova l’onirica visione di un artista che non scorda mai come, nello stesso istante, vi sia una realtà, diversa per ognuno di noi, ma tangibile, reale, anche sofferta.

“Our Love Song”, per dire, è diretta e costruita su una ritmica decisamente rock, senza troppi fronzoli: appare come un disincanto amoroso, eppure codificato in maniera che sia comprensibile (come è) per tutti. Farebbero ridere quelli che dicono il contrario, ma ci devono essere per ribadire come la loro sia una posizione assurda e senza costrutto.

E dopo “Canzoni brutte”, per tutti i mediocri del mondo. Che, poi, mediocri rispetto a chi o cosa? Essere uno che si batte soprattutto contro l’ipocrisia del mondo e della musica, in questo caso, eleva già di per sé. E Benvegnù crea una canzone che appare banale a chi vive nel mondo veloce del sentire, non dell’ascolto. Un piccolo inno che va molto otre alle generazioni.

(PB)

Che, poi, lo stesso cantante ce le spiega per bene, queste narrazioni (qui, una canzone alla volta). Per cui potrei smetterla di fare il fenomeno, che se lo fossi mi pagherebbero anche bene. Che sarebbe già ora di chiudere in semplicità, bonariamente.

Se ascoltate questo disco, il che implica che non facciate altro nel frattempo, non potrete che esserne affascinati. Anche solo gli archi di “Tecnica e simbolica” e “L’oceano” sono gioiellini di armonia. Come se non ci si dovesse quasi più pensare a costruire, pezzo a pezzo, bella musica. Qui si sente il lavoro di un artigiano, ma non di una bottega: di un negozio di lusso.

Ci sono tante cose che “E’ inutile parlare d’amore” vi può dire. Scegliete quelle che vi stanno meglio, quelle che vi fanno sognare per tre minuti, che vi rattristano ma in senso buono, quelle che vi liberano da un po’ di angoscia o vi fanno sorridere. Quelle che vi pare, come se poteste scegliere un sogno e ricordarvelo. Bello, no?

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(134)

(Vela)

Gli anni ‘80 hanno fatto anche cose buone. Se riusciamo ad eliminare dai pensieri i paninari, la “Milano da bere”, i capelli dei “Kajagogoo” e i soliti politici, ce la possiamo fare. Musicalmente sono stati anni molto buoni, anzi ottimi. Certamente non si deve cadere nella panacea delle classifiche. Non del tutto, almeno. Ma sì, dischi straordinari ne sono usciti.

Facile scrivere di quelli. Meno dei tanti prodotti, seppur molto dignitosi, che si sono persi tra la velocità del consumo (della musica) e i fenomeni mainstream che si sono accaparrati tutte le hits. E per essere anche più pignoli, molti album strizzavano brutalmente un occhio -o due- al pop semplice semplice, ma riuscivano lo stesso ad avere una cura dei dettagli e delle idee, dentro, affatto banali.

Prendete l’unica prova come cantante di Rosie Vela. Modella e attrice, forse qualcuno la ricorda per la sua relazione con Jeff Lynne, il barbuto leader della “ELO” e uno dei membri dei “Travelling Wilburys”, supergruppo, come piace dire. Insomma, non una musicista a tuttotondo: come moltissimi, troppi, si dilettava comunque a comporre ed a cantare.

Se hai la fortuna di conoscere Kary Katz hai già giocato il jolly. Sapete molto bene che era il produttore e uno degli innumerevoli tecnici del suono degli “Steely Dan”, mai troppo celebrata band seminale del pop migliore degli ultimi quarant’anni. Sta cazzeggiando in studio, quando questa signora gli viene presentata, carica di canzoni e soldi: due assi e pochi rischi.

Che, poi, la voce della Vela non è male, anzi. Profonda e duttile, mai invadente, eppure colorata. Le canzoni del suo cassetto sono malinconiche, ma anche ritmate, complesse ed orecchiabili. Si può volere altro? Be’, sì. Quando si materializza Walter Brecker, che passa da lì così a caso, sono sei anni che gli Steely Dan non pubblicano nulla. L’ultimo loro disco è un capolavoro totale: “Gaucho.” Forse è difficile fare meglio.

Il produttore gli fa ascoltare quei nastri e il chitarrista degli Steely Dan resta folgorato. È entusiasta di ritrovare tra le flessuose melodie di Rosie l’intima essenza dell’esperienza musicale a cui ha dedicato dieci anni di vita, pieni di successi e di soddisfazioni. Suggerisce solo a Katz di dare ai suoni della tastiera un po' di consistenza in più, proponendogli di coinvolgere proprio il suo vecchio amico Donald Fagen.

Quest’ultimo, pur essendo un notorio scorbutico, non è privo di cuore: l’idea di poter tornare a lavorare per il suo fidato produttore, al fianco, per di più, del suo storico partner musicale, lo alletta forse anche più della stessa top model di Galveston, che occhieggia dietro quelle soffici partiture jazz-pop. C’è anche già il titolo del disco: “Zazu”.

(Vela 2)

In realtà un nome femminile di origine ebraica. Sta per “movimento”, Zazu” resterà solo un disco: il disco di Rosie Vela. Che nel 1986 si ritrova catapultata ai “Sound Ideas Studio” di New York con il seguente team: Gary Katz alla console, Donald Fagen alle tastiere, Walter Becker e Rick Derringer alle chitarre, Jim Keltner alla batteria e Tony Levin, chiamato a suonare basso e “Chapman Stick” su due brani (“Tonto” e “Zazu”).

Il team stellare intesse i tappeti sonori perfetti (del resto, perfezione e “Steely Dan” sono praticamente sinonimi). E sorprende davvero è la grinta con cui la Vela padroneggia queste partiture morbide, ma ritmate allo stesso tempo, a partire dall’ipnotica doppietta iniziale “Fool’s Paradise”-“Magic Smile”.

È stupefacente l’abilità con cui Vela si cala nelle atmosfere tipicamente “...stile Fagen” di brani che avrebbero figurato più che degnamente su “The Nightfly.” La struggente “Interlude”, una “Maxine” di ritorno, solcata da un assolo di chitarra dsa rocordare, prima che la Vela riprenda in mano il microfono sospinta da quel vortice sinuoso di tastiere che è il marchio dell’intero lavoro.

Sono brani ben congegnati, asciutti e raffinati al contempo, in bilico tra il “synth-pop” dominante e una vena jazz che affiora costantemente dai dettagli (i cori, i ricami chitarristici, l’andatura pacata dettata dal drumming.) Quelle di “Zazu” sono principalmente canzoni d'amore – secondo le parole di Vela, “sugli amanti sfuggenti che non si trovano mai” – anche se costruite con un approccio criptico ed enigmatico che, dev’essere piaciuto non poco al duo Fagen-Becker,

Nonostante le recensioni positive e l’exploit del singolo “Magic Smile” (n.29 della classifica Billboard Adult Contemporary), “Zazu” si è rivelato un mezzo fallimento commerciale negli Stati Uniti, ottenendo migliori riscontri in Europa, in particolare nel Regno Unito, dove ha raggiunto il n.20 della classifica degli album conquistando un disco d'argento (“Magic Smile” è stata anche una hit nella Uk Top 30.)

Così, gradualmente, è scivolato nell’oblio: fuori stampa in America e in Europa dall'inizio degli anni 90 (ma io ce l’ho, ovviamente), il disco è stato ristampato In Inghilterra da “Cherry Red” nel 2011, per il venticinquennale della sua pubblicazione, con un suono un più potente e un  “booklet” contenente alcuni retroscena sulla sua gestazione e alcune foto inedite. Un’occasione per riscoprire tutto il fascino di questi brani senza tempo e della loro interprete, nel frattempo uscita completamente dai mondo della musica.

Ci resta così solo quell’unico, fulminante debutto: un lampo, un’ epifania, ed una resurrezione, quella di due irriducibili musicisti contronatura com Fagen e Becker. D’accordo, in seguito sarebbero tornati a riunirsi sotto le insegne degli Steely Dan: nel 2000 per registrare proprio “Two Against Nature”, a vent’anni dal predecessore, e tre anni dopo per “Everything Must Go”.

Una saga proseguita poi anche dal vivo, anche dopo la scomparsa di Becker, avvenuta nel 2017. Ma, al di fuori dell’attività per i Dan, solo in due altre occasioni i due compari si sono ritrovati negli stessi studi di registrazione in 44 anni: nel 1969 per l’album di Terry Boylan “Alias Boona” e nel 1973 per il brano “I'll Be Leaving Her Tomorrow” di Thomas Jefferson Kaye. “Zazu” resterà dunque, per tanti versi una cosa unica, di rara bellezza.

#Musica #Music #RosieVela #CamarilloBrilloSessions

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