La Resistenza nello zaino
C'è qualcosa che mi ha fatto riflettere, in questi giorni. È il fatto che, a volte, in un viaggio cerchiamo di scoprire mondi migliori di quello in cui viviamo, soprattutto quando questo ci sembra grigio, monotono, insostenibile sotto tanti punti di vista.
Non sono ancora partito, ma esistono altri modi di vivere il viaggio. Una di queste è ospitare viaggiatori a casa. Esistono alcuni siti per farlo: c'è couchsurfing, che è più grande e commerciale, e c'è anche trustroots più piccolo e indipendente. Il meccanismo è semplice: come viaggiatore fai una ricerca nella città in cui vuoi andare, trovi una certa quantità di persone, ognuna con il suo profilo, mandi qualche messaggio e con un po' di fortuna qualcuno ti ospita.
Negli ultimi mesi ho ricevuto un po' di gente proveniente da diversi paesi del mondo: Giappone, Stati Uniti, Cina, Messico, Repubblica Ceca. I viaggiatori erano molto diversi tra di loro, anche a livello umano: dal classico turista in giro per il mondo, ai viaggiatori più accaniti degni del miglior libro di Jack Kerouac. Con alcuni il dialogo è semplice, rimane sul di dove sei cosa fai da dove vieni dove vai com'è quel posto come sono i cibi nel tuo paese qual è il tuo lavoro che musica ascolti eccetera eccetera. Con altri, invece, si crea una connessione più profonda, ci si arriva a confrontare su altre esperienze della vita e ragioni più profonde che ci spingono al viaggio e a fare le cose che facciamo.
In particolare con un paio di persone ho intravisto una tendenza, o una caratteristica, comune, che posso provare a riassumere così: la ricerca nel viaggio di libertà soprattutto come fuga da un contesto di origine caratterizzato da una forte pressione sociale, regole rigide e non adatte al benessere umano. Insomma persone che vanno via perché, se stanno a casa, impazziscono.
Questo mi ricorda l'esperienza di Augusto Boal, fondatore del Teatro dell'oppresso. Le sue tecniche nacquero in Brasile, nell'America del sud della guerra fredda, violenta contro i manifestanti, in lotta tra imposizione del sistema capitalista e le rivendicazioni dei lavoratori per i loro diritti. Una terra contesa tra i due blocchi contrapposti: da un lato la dottrina Monroe che voleva trasformare le Americhe nello zerbino degli Stati Uniti, dall'altro l'Unione Sovietica che cercava di attirare quanti più paesi nella sua orbita di influenza. Nella contesa dei grandi tori, le piccole rane della grande periferia americana cercavano di agire anche loro sul loro territorio per portare avanti la loro lotta. La guerriglia con gli AK-47, i paramilitari con gli M16, gli studenti con le occupazioni, gli operai con gli scioperi, gli artisti con le loro opere.. e poi c'era chi si inventava altri modi come, appunto, Boal.
La sua tecnica si basa sul far emergere coscienza nelle classi oppresse, in modo creativo, per mezzo del teatro. Lui e i suoi collaboratori creavano situazioni in cui ci fosse una descrizione diretta o metaforica delle situazioni di oppressione, e invitavano il pubblico a partecipare irrompendo sulla scena e sostituendosi a qualcuno degli attori per proporre soluzioni ai problemi di oppressione sociale ed economica.
Poi Boal viaggiò in Europa: Francia, Italia.. e si trovò di fronte ad una situazione inaspettata: se in Sud America era evidente chi fossero gli oppressori e gli oppressi, se era evidente quali fossero le persone che marciavano per i loro diritti e chi li voleva ricondurre con il manganello a dei salari da fame, se era evidente QUALI fossero gli ostacoli alla liberazione delle classi oppresse, in Europa la situazione era diversa. Sembrava che ci fossero altre inibizioni interne agli stessi cittadini che, ancor prima degli ostacoli esterni, non gli permettessero di esprimersi liberamente. Per descrivere questo stato di cose creò l'espressione “Le flic dans la tête” (il poliziotto nella testa). Boal individuò difficoltà psicologiche, internalizzazione delle regole del sistema, insomma non c'è bisogno della repressione degli squadroni della morte: sai già cosa non devi fare e come ti devi comportare.
Nella nostra società c'è tutta una serie di regole che abbiamo internalizzato, assorbito fin dall'infanzia, e che magari non siamo neanche in grado di riconoscere immediatamente perché ci sembrano normali. << Studia, trovati un buon lavoro, pensa ai soldi, metti su famiglia, fai figli, se sei femmina devi essere magra alta e bella, se sei maschio devi scopare come un toro, se sei madre devi avere pazienza e farti carico della casa e dei figli, se sei padre devi guadagnare più di tua moglie, se sei single sei incompleto, se hai un account sui social network devi avere tanti follower e tanti likes, se vuoi avere tanti likes devi sembrare cool, intelligente nel tuo campo o mostrare una tetta, se lavori devi essere contento del tuo lavoro ed essere produttivo, e devi anche ringraziare la tua azienda per darti denaro a cambio delle tue energie, in un contesto sociale devi essere sempre positivo/a allegro/a brillante, se sei maschio devi nascondere i tuoi problemi perché parlarne ti rende vulnerabile, ti fa meno uomo, eccetera eccetera eccetera >>
Non è umano vivere così. Queste regole sono, semplicemente, insostenibili. La costrizione sotto la quale viviamo, a seguirle tutte, crea una forte pressione psicologica, una tensione tra quello che vogliamo, quello che ci farebbe stare bene, quello di cui abbiamo bisogno e quello che ci viene richiesto dalla società. Siamo esseri umani creativi ed è un insulto alla natura sciuparci pensando a “che diranno gli altri”.
Nella mia esperienza con i viaggiatori ho incontrato diverse persone che hanno vissuto una sofferenza psicologica derivante dalle regole assurde del contesto da cui provenivano. In maggioranza venivano da paesi “sviluppati”, ma non solo. Mi hanno raccontato che finché erano a casa stavano male: storie di depressione, ansia, insoddisfazione, terapie, farmaci e tanto dolore.
Penso che la medicina occidentale abbia inventato macchine portentose capaci di osservare dentro il corpo senza aprirlo, di ingrandire cose infinitamente piccole e decifrare catene di molecole attribuendo loro un significato. Però, quando si tratta della psiche, ha delle profonde mancanze perché mette in discussione solamente il paziente e non la società. Analizzare la depressione come un problema individuale, senza osservare il contesto di competitività, senza osservare cosa significa sopravvivere in un sistema capitalista basato sul profitto e sull'egoismo mi sembra, semplicemente, incompleto. Per me è ovvio che se ti propongono di vivere facendo cose che non ti interessano, al servizio di un'entità che non sei tu, per il resto della tua vita con una miseria di momenti di tempo libero, potresti non starci. E se sei circondato/a da persone che sono già addomesticate e non fanno che ripeterti “così è la vita”, potresti sentirti solo/a, inadeguato/a. È ovvio che se la misura dell'accettazione sociale è essere fighi, facendo cose difficili o innaturali o inutili o superficiali, è sano che ti fai delle domande, che dubiti che sia l'unico o il miglior sistema possibile. E tuttavia quella continua ad essere la tua gabbia, perché tutto intorno a te funziona così: le persone, le strutture, le istituzioni. Fino a quando decidi di evadere dalla gabbia. E lì è il viaggio.
Quanto sarebbe bello il mondo se parte dello sforzo che si fa per innovare la tecnologia fosse destinato a prenderci cura delle nostre ferite. Se qualche anno fa, quando avevamo ancora i telefoni senza schermo grande, e si viveva tranquillamente, anziché investire miliardi in sviluppare la tecnologia degli smartphone si fossero spesi in terapie per conoscersi meglio e diventare persone migliori. Nel prossimo futuro avremo macchine che si guidano da sole, ma siamo incapaci di sentirci felici. Avremo sistemi di intelligenza artificiale negli apparati domestici ma continueremo ad avere profonde divisioni di classe, razzismo, attacchi d'ansia. Avremo un futuro profondamente tecnologico mentre lottiamo ancora con le nostre miserie umane da secoli. Chi è malato? Chi deve prendere le medicine: l'individuo o il sistema?
Il viaggio ti permette di vedere la cultura in cui sei nato/a da un punto di vista esterno. Comincia con la voglia di andar via, di evadere dalla gabbia. Comincia con il sogno di qualcos'altro, qualsiasi altra cosa che non sia la palude stagnante che conosci già. Il desiderio di ricominciare da zero in un contesto nuovo, ideale, dove non ti conosce nessuno e puoi proporti così come ti senti, così come vorresti essere. Poi vabbè, la tua ombra viaggia con te e ti porti dietro un po' dei tuoi mostri, ma per fortuna non tutti. Qualcuno sei riuscito a lasciarlo a casa. E intanto scopri mondi nuovi, altre culture, altre persone. Altri modi di vivere la vita, persone che finalmente la pensano come te. E allora scopri di non essere solo/a in questa resistenza. Sì: resistenza. Come i partigiani durante l'occupazione nazista, come le reti clandestine sotto ogni dittatura: chi non si rassegna, chi non accetta, chi si ribella anche prima di capire esattamente cosa vuole, prima di avere un'analisi perfetta della situazione, prima di poter strutturare coerentemente e compiutamente una teoria del tutto, in base all'innato istinto che ti dice che qualcosa non va. Dubiti per un tempo interminabile se il problema sei tu o qualcos'altro fuori di te. Molti non ce la fanno e rimangono “a casa”. Molti si rassegnano e si spengono. Ma ogni tanto qualcuno ce la fa a bucare la coltre di nubi e scoprire che al di là c'è il sole.
E poi.. poi c'è la complicata operazione di far quadrare il cerchio. Rimettere insieme tutti i pezzi e fare qualcosa che sta insieme. Qualche tempo fa parlavo con alcuni viaggiatori di alcune droghe sintetiche, tipo LSD o DMT. Loro, entusiasti, ma anche saggiamente, dicevano che creano uno squarcio, aprono una finestra che per mezz'ora ti fa vedere come [il mondo] potrebbe essere. Poi la richiudono. E sta a te trovare il modo di ritrovare la strada tra la tua realtà quotidiana e quella cosa che ti è stata prospettata in un momento di -forse- illuminazione. Non mi interessa entrare qui nel dibattito sulle droghe (“evasione o terapia?”); l'unica cosa che voglio recuperare da quest'aneddoto è la sensazione di quando, con le droghe o con il viaggio, dopo aver vissuto un'esperienza che ti ha portato fuori dalla tua realtà abituale, devi fare in modo che questa sia sostenibile. Insomma che l'evasione si trasformi in un'alternativa. Devi ritagliarti il tuo spazio vitale fuori dalle convenzioni per abitarlo in modo permanente. E anche che “il viaggio” qualunque esso sia stato, sia servito per trovare degli spazi di innovazione tra l'essere e il possibile, tra il qui e il lì, insomma che abbia fatto circolare delle idee provenienti da altri luoghi in cui si vive meglio e che questo possa contribuire a migliorare la realtà in cui ti trovi o da cui sei partito.
Sì, forse il viaggio è proprio questo: una medicina degli individui e dei popoli, perché è da sempre stato così come sono circolate le idee, soprattutto quelle buone. Rimedio contro l'ottusità tradizionalista, via di fuga dal consumismo schiavista e dal ticchettio degli orologi che ci inquadrano nei loro ingranaggi.
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