Con lo zaino in spalla

Sono forse le mattonelle lucide che decorano le facciate esterne degli edifici, forse i sampietrini di pietra bianca che coprono i marciapiedi e le vie pedonali, forse i saliscendi, forse la presenza del mare. Non so dire cosa costituisca il fascino di Lisbona. Probabilmente una combinazione delle precedenti.

Si vive un ambiente fortemente interculturale, il miscuglio delle città globali. Ho passeggiato tra i vicoli del quartiere bengalese, tra i negozi cinesi, tra i ristorantini economici che offrono il dahl indiano, il kebab turco, il falafel arabo e il taco messicano, simulacri del Sud globale che si affaccia nella privilegiata Europa per mezzo della cultura culinaria. Ho visto gente di ogni colore, ho ascoltato decine di lingue diverse, alcune riconosciute altre no, il portoghese brasiliano, ho osservato un autista di risciò che dominava cinque lingue senza accento mentre parlava ai passanti, e alla fine ha convinto con ottima parlantina una famiglia francofona a fare un giro con lui.

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Arrivo nella seconda città del Portogallo di pomeriggio, con un tipico volo lowcost: vendita a bordo di profumi e gratta & vinci, sedili che non si possono abbassare, aereo al limite della capienza, gente che applaude all'atterraggio, insomma, tutto quello che si addice a un Ryanair.

Giunto a destinazione, l'aeroporto è il non-luogo per eccellenza. Stazione di periferia, forse anche complice il giorno festivo, è un po' tutto chiuso, scarsa segnaletica, nessuno a cui chiedere. Dopo alcuni minuti di perlustrazione (in realtà ci ho messo un po' a capire come uscirne), riesco a trovare la metropolitana, che con calma fiacca mi porta in centro. Pioviggina, vedo la condensa sui miei occhiali appannati, ma nonostante tutto riesco ad arrivare all'ostello.

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“Nuora”, “suocero”, “nipote”, “cognato”, “cugina”: la nostra lingua dispone di una gran quantità di vocaboli per definire accuratamente il grado di parentela che abbiamo con determinate persone. Per gli amici, invece, c'è una sola parola: “amici”, appunto. Eppure i rapporti più intimi li abbiamo proprio con loro, con le persone che conosciamo da una vita e che continuano a stare al nostro fianco, a vivere nella nostra rubrica telefonica anno dopo anno, a cui raccontiamo i nostri segreti, regaliamo il nostro tempo per ascoltarli, a cui elargiamo consigli e a volte conforto.

L'amicizia ha tante sfumature, e per ognuna dovrebbe esistere una parola diversa. C'è l'amica del cuore; c'è la persona conosciuta da poco e con cui il vincolo sta appena sbocciando; l'amico con cui andare al cinema; quello per raccontarci le cose intime; c'è la sintonia per coltivare un progetto comune; c'è l'amicizia con cui ti scambi i baci e magari ci fai pure l'amore; l'amicizia con cui condividi casa, l'affitto e le bollette; l'amicizia per studiare insieme; quella per giocare ai videogiochi, eccetera. Sono tutti tipi diversi, che noi chiamiamo con lo stesso nome. Credo che abbiamo bisogno di un lessico un po' più ampio.

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Qualche giorno prima del mio arrivo in Italia avevo letto con un po' di dispiacere il post su Facebook di una carissima amica che si lamentava delle osservazioni sgradevoli dirette a lei da parte di gente che non ha di meglio da fare che impicciarsi negli affari altrui, osservazioni ricevute durante i pochi giorni passati in Italia. “Ce l'hai il ragazzo? E quando vi sposate? E un bambino non lo fate? E perché non vuoi figli? Sei ingrassata, dovresti metterti a dieta.. eccetera eccetera..” La mia amica giustamente reclamava che non è bello vivere in un contesto in cui ogni cosa che fai non solo è osservata da occhi che giudicano, e bisogna quindi render conto delle proprie azioni di fronte a chiunque; inoltre il “giudizio” è condotto secondo parametri nient'affatto sani come, appunto, invitare a fare figli perché “si devono fare”, oppure esprimere giudizi negativi su di una persona in base alla sua forma fisica. Lessi il post e commentai che ero perfettamente d'accordo con lei.

Pochi giorni dopo arrivai in Italia e sentii ripetutamente lo stesso tipo di commenti, ma questa volta provenienti dai miei familiari. In particolare rispetto alla forma fisica. Qualche esempio? Si parla di una persona e una delle primissime cose che si dice è se è ingrassata, dimagrita, se è in sovrappeso, ecc. Insomma come se questa cosa fosse così determinante che urge specificarla fin dalle prime battute, sembra essere necessario dettagliare il più presto possibile se una persona ha accumulato una quantità di lipidi leggermente sopra o leggermente sotto i loro standard. Mi è sembrato un bombardamento costante, un continuo esprimere giudizi che derivano da una perpetua osservazione del corpo delle persone e dal paragone con quello che vediamo in altri media.

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Qualche giorno fa stavo tornando dal Guatemala, e il mio volo ha fatto scalo ad Amsterdam. Uno scalo mostruoso di 17 ore. Speravo di poter uscire dall'aeroporto, cosa non scontata ai tempi del covid. Per fortuna non ci sono state restrizioni e ho potuto fare un giro per la capitale olandese che, nonostante i miei anni di vagabondaggio, non avevo ancora avuto la fortuna di conoscere.

Ho preso il trenino che va dall'aeroporto al centro, e dopo pochi minuti sono stato scaraventato nel cuore pacifico dell'europa progressista, dove tutto è permesso, “entro un certo margine” come direbbe Rino Gaetano. Le differenze con l'America centrale sono così grandi che l'impatto è stato decisamente sconcertante.

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Qualche giorno fa sono stato a Tuqtuquilal (@tuqtuquilal). Il posto è un'oasi di pace vicino a Lanquin, in Alta Verapaz, Guatemala. Sono tante le cose che mi sono piaciute: la qualità dell'aria, dell'acqua, la bellezza della natura, la valle con il suo pendio che scende sotto i tuoi piedi e risale dall'altro lato del fiume creando così una visuale estremamente gradevole per ogni momento della giornata. Mi sarebbe piaciuto passare lì molto più tempo, ma l'incombere del viaggio di ritorno in Italia mi ha obbligato ad abbandonarlo dopo solo 5 giorni.

Ecco qualche parola su ciò che mi è piaciuto di più stando lì:

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Vivo in Guatemala. Qui, tanto nei piccoli posti turistici, come nelle città più popolose, la gente ha un'immagine stereotipata degli stranieri, che qui sono in maggioranza statunitensi. Qui la gente pensa che gli statunitensi siano bianchi, alti e coi capelli castani. In effetti non hanno tutti i torti, visto che è questo il tipo di persone che arriva qui, da quel paese. Tuttavia sappiamo che questi appartengono alla minoranza privilegiata che domina economicamente il resto delle “razze” in un paese fortemente multietnico. Nella piramide sociale e cromatica degli USA, i bianchi rappresentano il vertice, e la base è costituita da afroamericani, latinos e asiatici; eppure è proprio la classe più ricca quella che viaggia di più, arrivando a confondere gli abitanti dei paesi del Sud circa i tratti somatici dominanti negli States.

I poveri, seppur costituiscano la maggior parte della popolazione (soprattutto nelle americhe, in cui la classe media è ridotta), sono sotto-rappresentati nella comunità dei viaggiatori. Perché viaggiano meno? Perché hanno meno possibilità di farlo, per ragioni economiche e culturali.

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Panta rei, non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume.

Gli ultimi giorni sono stati frenetici. Vivo da anni in Guatemala, in America centrale. Tra pochi giorni sarò in Italia e questi sono i giorni degli addii: alle persone care, alle amicizie degli ultimi anni e agli amori degli ultimi giorni.

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C'è qualcosa che mi ha fatto riflettere, in questi giorni. È il fatto che, a volte, in un viaggio cerchiamo di scoprire mondi migliori di quello in cui viviamo, soprattutto quando questo ci sembra grigio, monotono, insostenibile sotto tanti punti di vista.

Non sono ancora partito, ma esistono altri modi di vivere il viaggio. Una di queste è ospitare viaggiatori a casa. Esistono alcuni siti per farlo: c'è couchsurfing, che è più grande e commerciale, e c'è anche trustroots più piccolo e indipendente. Il meccanismo è semplice: come viaggiatore fai una ricerca nella città in cui vuoi andare, trovi una certa quantità di persone, ognuna con il suo profilo, mandi qualche messaggio e con un po' di fortuna qualcuno ti ospita.

Negli ultimi mesi ho ricevuto un po' di gente proveniente da diversi paesi del mondo: Giappone, Stati Uniti, Cina, Messico, Repubblica Ceca. I viaggiatori erano molto diversi tra di loro, anche a livello umano: dal classico turista in giro per il mondo, ai viaggiatori più accaniti degni del miglior libro di Jack Kerouac. Con alcuni il dialogo è semplice, rimane sul di dove sei cosa fai da dove vieni dove vai com'è quel posto come sono i cibi nel tuo paese qual è il tuo lavoro che musica ascolti eccetera eccetera. Con altri, invece, si crea una connessione più profonda, ci si arriva a confrontare su altre esperienze della vita e ragioni più profonde che ci spingono al viaggio e a fare le cose che facciamo.

In particolare con un paio di persone ho intravisto una tendenza, o una caratteristica, comune, che posso provare a riassumere così: la ricerca nel viaggio di libertà soprattutto come fuga da un contesto di origine caratterizzato da una forte pressione sociale, regole rigide e non adatte al benessere umano. Insomma persone che vanno via perché, se stanno a casa, impazziscono.

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Nei post precedenti ho parlato diverse volte di Cambridge Analytica. Questo nome è comunemente associato al concetto di “vendita di dati degli utenti di Facebook”. In realtà stato molto più di questo: è stato un complesso apparato di propaganda e manipolazione dell'opinione pubblica, che ha fatto leva su rilevazioni psichiche di milioni di utenti per indurli a votare in un modo piuttosto che in un altro per mezzo della paura e dell'odio, e queste operazioni hanno portato a scelte sostanziali i cui esempi più conosciuti – ma non sono gli unici – sono la Brexit e l'elezione di Trump. E lo stesso ex tecnico che ha segnalato queste operazioni dall'interno dell'azienda (il whistleblower Christopher Wylie) ha affermato che operazioni simili sono state condotte anche in Italia, a beneficio di un partito politico non specificato. In questo post desidero entrare un po' più nel dettaglio della vicenda, a partire dal film-documentario “The great hack” e dalle parole dell'ex CEO di Cambridge Analytica, in cui ha descritto per filo e per segno a cosa si dedicasse la sua azienda.

Lungi dal pretendere di essere un'analisi esaustiva, questo post vuole fornire un paio di strumenti per capire il potere persuasivo delle reti ed il ruolo che questo può avere nelle nostre vite.

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