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A due anni dall’ottimo I’ll Never Get Out of This World Alive, Steve Earle ritorna con una altro bel disco “The Low Higway”.

Quindicesimo lavoro in studio, l’album si mantiene nella sua collaudata sfera folk/country/rock, senza particolari peccati ne virtù. Niente di marcatamente nuovo quindi, ma dodici brani firmati da grande autore.

Da scrittore qual’è, (è uscito da pochi mesi un romanzo dal titolo “Non uscirò vivo da questo mondo”) il cinquantottenne cantautore statunitense, non ha difficoltà ad esprimere attraverso la forma artistica della “canzone” versi, pensieri e idee soprattutto sociali.

Da sempre impegnato politicamente Earle, attraverso i testi, sottolinea disagi e invia segnali di protesta, facendosi portavoce anche di chi voce non ha.

C’è in questo album tutto il succo dell’arte del musicista, il suo muoversi e il suo cantar vigorosamente accoppiando spunti ritmici a momenti melodici. Il banale avvicendarsi degli strumenti e l’incanto semplice e inatteso di una voce e una chitarra.

Non è difficile per certi aspetti portare alla mente il Springsteen di Devils & Dust o di Streets of Philadelphia e Cooder dell’ultimo “politico” Election Special, le similitudini non mancano. Se l’ispirazione è questa già risaputa, lungi dal copiare semplicemente, lungi dall’adagiarsi sul “già detto” e sullo stile “fatto e finito”. Steve Earle sa dipingere tutto di tinte personalissime, giungendo a una fusione strana di cento soluzioni che portano ad un mondo affascinante e soprattutto reale. Proprio per queste motivazioni qualcuno dice che sia il suo miglior lavoro dell’ultimo decennio, personalmente invece, nonostante l’incontestabile maturazione vocale, testuale e sonora, nonostante una serie di buone canzoni, profonde e di grande scrittura sociale e personale, nonostante tutto questo “alzi” qualitativamente il suo valore “cantautorale”, manca di quella fiera godibilità che, per esempio, caratterizzava il suo lavoro precedente.

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Come già in parte è avvenuto con Mr. Love and Justice, anche in Tooth and Nai, Billy Bragg abbandona il suo “essere” cantautore militante politico e sociale in favore di un suono e quindi di un risultato molto più riflessivo e intimo.

E’ evidente che in questi cinque anni di silenzio ha maturato esperienze personali, uno sguardo, un vissuto e un riequilibrio interiore che probabilmente negli anni passati aveva lasciato in stand-by.

Una sfera “bragghiana” mi si passi il termine, non nuova quindi ma sicuramente più profonda e matura. Lo si sente subito fin dai primi brani a cominciare dalla voce che, come non mai, raggiunge vertici di espressione notevoli.

Metà delle dodici canzoni sono musicalmente di ottimo livello, grazie alla poesia e ad un suono chiaro; sono tutte costruite su un’armonia dolce ed estremamente espressiva. Le restanti sono ascoltabili senza aggiungere e raggiungere nulla di particolarmente nuovo ed emozionante al Bragg che conosciamo.

E’ un racconto solitario “Tooth & Nail”, un’espressione che avvolge in punta di piedi senza colpo ferire: cullando dolcemente gli strumenti, lasciando che l’armonia venga da sola, sospinta unicamente dalla voce, grande saggia maestra.

Ancora una volta un disco che mostra palesemente lo sforzo di volersi ritagliare uno spazio di immagini interiori, luminose o scure. Una descrizione “testuale/sonora” della personalità, dell’umanità indicata da un semplice sorriso. Una comunicazione vera, mai banale.

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Anche col titolo del disco, Devendra, non smentisce il suo stile; il saper “giocare” con i doppi sensi. Mala infatti, soprannome della sua fidanzata serba Ana Kras, significa “tenera” in serbo e “cattiva” in spagnolo, lingua usata spesso dal cantautore.

L’atmosfera di questo suo nono disco, non si discosta di molto da quella a cui ci ha abituato in questo decennio; una base folk con varie escursioni psichedeliche, latinoamericane e soprattutto in quest’ultimo, un abbondante uso del suono elettronico.

Considerato il cantautore più freak ed hippie in circolazione, Mala è stato registrato a Los Angeles e, come nei precedenti lavori, ha usato uno studio familiare, con attrezzature che di fedeltà ne hanno ben poca. Basti ricordare che in passato usò (anche) la segreteria telefonica come registratore… sigh!

Disco fedele al suo “essere”, Mala è prodotto da lui stesso insieme al suo chitarrista Noah Georgeson. “La voce tremante” del folk, incide dodici brani che variano, testualmente e quindi umoralmente a trecentosessantagradi. I brani sono superficiali e profondi, allegri e tristi, seri e ironici. A volte calmi e sereni, a volte tesi ed inquieti. Tutti comunque quasi mai banali.

Sicuramente il suo album più facile da ascoltare, il cantautore venezuelano-americano, strizza l’occhio a un pubblico più vasto, usando di base un suono più “leggero” e meno “tortuso” dei precedenti.

Senza confini e sfuggendo a logiche sonore, il disco si fa ascoltare senza particolari difficoltà. Abbastanza carico di “particolari” nascosti, si deve ascoltarlo diverse volte per poterlo apprezzare e scoprirlo a fondo.

Mala (ancora una volta) racchiude tutta la sua filosofia, tutto il suo universo sonoro. E’ un disco coerente quindi, con il suo pensiero e con la sua vita. Un album sincero che a tutti, purtroppo, non è dato essere.

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“In tutte le cose c’è un ritmo che è parte del nostro universo. Ha simmetria, eleganza e grazia: le qualità in cui si coglie il vero artista. E’ il ritmo delle stagioni, il modo in cui la sabbia modella una cresta, sono i rovi e il profilo delle foglie. Noi crediamo di copiare questi disegni, di trasferirli nelle nostre vite e nella nostra società, di farne rivivere il ritmo, la danza che ci riconfortano. E tuttavia, un pericolo si nasconde nella perfezione finale. E’ chiaro che lo schema ultimo contiene la sua fissità. In questa perfezione ogni cosa procede verso la morte”. (da “Dune” di Frank Herbert)

Il nome del gruppo “Atoms For Peace” è preso da uno dei brani presenti in “The Eraser”, primo disco solista di Thom Yorke pubblicato nel 2006. “Amok” prima incisione degli Atoms è per meglio dire, il secondo disco solista del leader dei Radiohead.

Va detto innanzitutto che questo gruppo è formato, oltre al sopradetto Thom York, da Flea, bassista dei Red Hot Chili Peppers, da Nigel Godrich, produttore discografico considerato il sesto membro dei Radiohead e dalla sezione ritmica di Joey Waronker e Mauro Refosco.

La formazione è l’insieme di un’idea di un suono elettronico che sa di tecnologia, di danza, di terra. Un malgama perfetto.

Maggiormente monolitico ed ossessivo, meno spaziale e raffinato dei lavori precedenti (mi riferisco ai Radiohead), Amok, affronta la materia “suono” in chiave strettamente ritmica, cioè studiando nell’elettronica, le possibili evoluzioni del rock libero, svitato, iconoclasta: il punto di partenza può dirsi il generatore di onde sinosoidali, l’oscillatore stesso, cioè un apparato in grado di ripetere all’infinito una determinata armonia, la cui successione ossessiva costituisca la fonte sonora assieme alle percussioni. La tecnologia sfruttata in ogni sua possibilità, questa è la consapevolezza degli Atoms For Peace.

Nove composizioni elettroniche che conservano il ritmo come “parte del nostro mondo”, come il senso immutabile di un divenire: il suono nasce, pulsa e va ad imputridire per poi rinascere ed avere altro corso, per sé e per gli altri, con una limpidezza che lascia sbalorditi.

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Nick cave è un Grande musicista, questo va detto subito, ad onor del vero. Va detto soprattutto come riparo da pareri contrastanti e come salvaguardia di un “patrimonio” musicale tra i più interessanti degli ultimi trent’anni. Bisogna ricordare infatti che il nostro Nick, tra “Boys Next Door”, “Bad Seeds”, “Grinderman”, “Warren Ellis” e alcune colonne sonore, ha inciso ventisei dischi, quasi uno all’anno, mica bazzecole.

Quindicesimo con i Bad Seeds, a cinque anni dall’ottimo Dig!!! Lazarus, Dig!!! (2008), Push the Sky Away è un disco tranquillo e riflessivo con una manciata di brani di ottimo livello. Se per certi aspetti (personalmente) mi ricorda quel capolavoro mai superato di The Good Son (1990), l’album vive di propria luce, di personale autonomia. Nelle nove canzoni che compongono il disco, Cave, indossando i panni del songwriter, riesce a trasmettere sensazioni intense, cariche di atmosfere, a volte orchestrali, a volte rarefatte, tutte comunque dettate dalla peculiarità vocale, la sua.

Un disco rilassato quindi, disteso e soprattutto distaccato da quei suoni che ci aveva fatto conoscere con la prima ottima prova dei Grinderman del 2007 e l’ultima meno brillante del 2010 sempre targata Grinderman.

Le melodie dolci e pacate, con alcuni brani quasi folk, “confine” sonoro a cui Cave non si è mai particolarmente legato, non piacerà molto, senz’altro, agli amanti del Cave “elettrico” dove rabbia, energia e furore prevalgono nei padiglioni auricolari. Questo è un Cave ordinato e sereno, dove la liricità ha il sopravvento… un disco “fratello” di Murder Ballads, di Nocturama e del sopracitato The Good Son.

Bisogna ascoltarlo diverse volte per farsi coinvolgere dalle tonalità oniriche, commoventi e intense, di cui Cave è maestro, solo così ci si renderà conto della profondità di questo lavoro.

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“Il classico non tramonta mai”, questo è il sottotitolo che più calza a questo “Coming Out Of The Fog”, quinto lavoro dei Arbouretum, band di quattro elementi provenienti da Baltimora. La struttura del disco infatti, è di un classico “suono” rock degli anni ’70, nulla di avanguardistico, rivoluzionario quindi, ma solo blues, folk, rock e psichedelia, niente di più, semplicemente. Un “semplicemente” però di classe, suonato con stile e coraggio, con un occhio rivolto al passato e uno al futuro. Un perfetto equilibrio che genera un “gioco” sonoro particolarmente autentico.

Gli otto brani che si succedono nel disco creano una atmosfera intensa e, a parte qualche momento di noia, nel complesso l’album risulta piacevole. Se il suono delle ballate portano inevitabilmente a un “parallelo” con Neil Young e i suoi Crazy Horse, ascolto dopo ascolto gli Arbouretum riescono a convincere, ritagliandosi un angolo, una sfumatura originale nel panorama odierno della musica.

Una buona prova quindi, un disco umile suonato con sincerità e con grande amore e rispetto verso quella colonna portante della musica che porta il nome di “rock”.

Ascolta: https://songwhip.com/arbouretum/coming-out-of-the-fog

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Lady From Shangai titolo di un famoso film di Orson Welles del 1947 è l’ultima fatica dei Pere Ubu. Numero quindici della loro discografia, esce a trentacinque anni di distanza da quello che rimane il loro capolavoro, fondamentale, primo disco pubblicato “The Moder Dance”, targato 1978.

Un’altra opera difficile e complessa uscita da quell’eclettico creativo sessantenne David Thomas, mente e voce del gruppo, unico membro originale della band che, in questi trent’anni ha “danzato” su un tappeto musicalmente tecnologico, “moderno” e rumoreggiante di un suono d’avanguardia.

Asciutto, astringente, essiccato, spoglio, sono gli aggettivi che più si sprecano nel cercar di dare una connotazione “scritta” a questo album che Thomas dichiara come “musica da ballo”. Sia chiaro, qui di suoni ballabili non c’è n’è nemmeno l’ombra. Sono undici brani di rock sperimentale dove “deformazione & disarmonia” vanno per la maggiore. Un intreccio di suoni elettronici che si inerpicano in un percorso sinuoso e dissonante che difficilmente l’”orecchio” non abituato e preparato riesce ad affrontare. Un disco di intricata comunicabilità ma che a differenza di altri da loro incisi, è possibile individuare la sottile linea di demarcazione, e nel contempo di unione, esistente tra musica colta (o ritenuta tale) e quella maggiormente popolare ed in ciò dinamica, più facilmente godibile e allo stesso tempo attraente. Il coraggio di mantenere intatto il carattere di una non falsa avanguardia e di non dare nulla per ovvio e scontato, è la peculiarità di quel geniaccio di David Thomas e i suoi Pere Ubu.

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Di tanto in tanto capita di ascoltare un album di cui non si ha voglia di parlare temendo un confronto tra di esso e le proprie parole. Questo succede quando un disco comunica qualcosa non appena comincia a suonare e subito uno si sente partecipe delle emozioni dell’artista e gli regala candidamente le proprie, e anche dopo aver ascoltato un solo brano hai la certezza che tutto il resto sarà buono. Questo è uno di questi.

Vicini al trentesimo anno di attività (si sono formati nel 1984), i Yo La tengo pubblicano il loro sedicesimo album in studio che porta il bel titolo di Fade ovvero “dissolvenza”.

Il trio composto da Ira Kaplan (chitarra, piano, voce), Georgia Hubley (batteria, pianoforte, voce) e James McNew (basso, voce), non ha mai amato la luce dei riflettori dello show business e proprio per questo non hanno mai avuto un grande successo commerciale diventando quindi una band di culto.

Tra le band più interessanti degli ultimi vent’anni, i Yo La Tengo hanno la peculiarità di avere creato un “sound” personale frutto di vari stili. Una sommatoria sonora intensa e colorita, carica di riffs strumentali e vocali. Una musica che appare spazializzata in seno ad un discorso netto e curato con particolare abilità specialmente nel fondere l’acustico con l’elettrico. Relegate in parte le chitarre in favore ad una sezione di archi e fiati, il suono è più omogeneo, delicato e romantico. I brani, in tutto dieci, sono sempre piuttosto centrati in questa ottica e l’assenza di “pecore nere” è un altro punto a favore del collaudato e acquisito professionismo della band.

Un album fluido, piacevole, coeso, ricco di dettagli, tra i più completi e riusciti che la band abbia registrato.

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Devo sinceramente ammettere che i Phosphorescent sono stati la più bella scoperta di questo duemilatredici, anche se questa band statunitense originaria di Athens in Georgia è attiva da un decennio e questo Muchacho è il loro sesto album. Ascoltati per caso in una radio on-line, fin dalle prime note ho capito di aver trovato uno di quei gruppi che ti rimangono dentro, e così sono andato alla scoperta dell’intero album di questo ennesimo gruppo. Traccia dopo traccia erano sempre più soddisfacenti, non chiedetemi perché le ballate di Matthew Houck colpiscano la mia emotività in maniera così forte e lascino un segno che decine di altri musicisti non hanno capacità di incidere nel profondo neppure dopo decine d canzoni. Chiamatelo “colpo di fulmine” se volete.

I Phosphorescent se la cavano proprio bene sia dal punto di vista musicale che vocale: riescono ad imprimere ai loro pezzi pathos e sensibilità e l’ascolto è stimolato da diverse contaminazioni: rock, folk, elettronica con l’uso di fiati, archi, percussioni, chitarre ed elettronica.

E’ francamente difficile citare qualche pezzo che si elevi decisamente tra gli altri, probabilmente solo “A Charm/A Blade” e “The Quotidians Beasts” sono i più “orecchiabili”, la produzione è molto omogenea e ben caratterizzata su buoni livelli. Insomma, dieci ballate che confezionano un album piacevole e importante, da ascoltare con attenzione perché suggestivo e di notevole valore artistico.

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A sei anni dall’ottimo Well never turn back e a tre dal buon You are not alone, ritorna Mavis Staples con “One True Vine”, quattordicesima incisione della sua ultra quarantennale carriera.

Da cantante gospel qual’è, è ancora la fede il comune denominatore dei suoi testi, ma è sempre la sua meravigliosa voce a renderli superlativi. A fronte dei suoi settantaquattro anni, la Mavis non mostra segni di decadimento ma anzi, come i migliori vini rossi, migliora col tempo.

Continuando la collaborazione artistica con Jeff Tweedy leader dei Wilco, iniziata con “You Are Not Alone” nel 2010, di cui è produttore, anche questa volta la Staples riesce a dare il meglio di sé. Fin dalle prime note è palpabile la passione religiosa per il Vangelo e il suo credo incrollabile ma è poi la sua voce e il feeling che riesce a creare che sanno rendere grandi le canzoni e farle apprezzare anche ai più atei ed agnostici. E’ proprio questa la grandezza dell’artista, una donna che sa esattamente come trovare l’anima di ogni lirica e consegnarla con estrema naturalezza, sincera ed onesta.

L’album cresce di ascolto dopo ascolto, ha un effetto magico che riesce a trasportare e soprattutto ad elevare anche lo spirito meno sensibile… che poi è quello che la buona musica dovrebbe fare, e (anche) in questo disco, la Grande Mavis Staples colpisce in pieno. One True Vine è un ottimo disco ed è soprattutto consigliato alle anime in cerca di pace.

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