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A sei anni dall’ottimo Well never turn back e a tre dal buon You are not alone, ritorna Mavis Staples con “One True Vine”, quattordicesima incisione della sua ultra quarantennale carriera.

Da cantante gospel qual’è, è ancora la fede il comune denominatore dei suoi testi, ma è sempre la sua meravigliosa voce a renderli superlativi. A fronte dei suoi settantaquattro anni, la Mavis non mostra segni di decadimento ma anzi, come i migliori vini rossi, migliora col tempo.

Continuando la collaborazione artistica con Jeff Tweedy leader dei Wilco, iniziata con “You Are Not Alone” nel 2010, di cui è produttore, anche questa volta la Staples riesce a dare il meglio di sé. Fin dalle prime note è palpabile la passione religiosa per il Vangelo e il suo credo incrollabile ma è poi la sua voce e il feeling che riesce a creare che sanno rendere grandi le canzoni e farle apprezzare anche ai più atei ed agnostici. E’ proprio questa la grandezza dell’artista, una donna che sa esattamente come trovare l’anima di ogni lirica e consegnarla con estrema naturalezza, sincera ed onesta.

L’album cresce di ascolto dopo ascolto, ha un effetto magico che riesce a trasportare e soprattutto ad elevare anche lo spirito meno sensibile… che poi è quello che la buona musica dovrebbe fare, e (anche) in questo disco, la Grande Mavis Staples colpisce in pieno. One True Vine è un ottimo disco ed è soprattutto consigliato alle anime in cerca di pace.

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Notevole prova di maturità e sfoggio di evoluzione espressiva da parte degli Okkervil River, band statunitense formatasi nel 1998 è attiva discograficamente dal 2002. The Silver Gymnasium settimo album in studio, è un album intenso e gradevolissimo, che sicuramente farà aumentare il pubblico di ascoltatori.

La facilità di scrittura che The Silver Gymnasium evidenzia non può che colpire favorevolmente, tutte le canzoni scorrono senza forzature o momenti di noia, dando l’impressione che il lavoro di selezione sia stato piuttosto rigoroso. E’ indiscusso “il filo” marcatamente autobiografico del leader Will Sheff, i testi, dal canto loro, riflettono da varie argomentazioni tutte legate da un comune denominatore: l’adolescenza.

Suonato con eleganza e professionalità da musicisti di buon livello, l’album è prodotto e arrangiato da John Agnello che con gusto ha sottolineato la sua presenza, rendendo il disco quasi sicuramente il più fruibile di tutti. Quello che soprattutto colpisce e rende il lavoro “di ottima fattura” è l’ottima forza compositiva e la buona interpretazione. Difficile, ad esempio, scegliere il più bello degli undici brani del disco, tutti a modo loro coinvolgenti. O giudicare se sia meglio un brano invece che un altro. E’ l’album nella sua globalità a travolgere l’ascoltatore, a coinvolgerlo nei cinquanta minuti della sua durata. The Silver Gymnasium è un po’ nostalgico ma certamente suonato in modo impeccabile da un gruppo che reclama giustamente il suo posto nel “gotha” della musica dei nostri giorni.

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Negli ultimi cinque anni, la musicista inglese Laura Marling ha inciso quattro album, nulla di straordinario si potrà pensare, ebbene, questa cantautrice ha 23 anni e il suo primo lavoro l’ha pubblicato a soli 18 anni.

Se nei primi dischi era inevitabilmente espressa una certa ingenuità, con questo quarto album, la Marling affina la sua musica in modo sottile e discreto. Once I Was an Eagle è un album molto intimo, dove anche i momenti più profondi e le sensazioni personali vengono espresse in maniera semplice, con un senso elegante, consapevole ed intenso.

Il suono è tipicamente folk, principalmente chitarre acustiche, pianoforti, archi e percussioni, tutti estremamente misurati con uno stile molto sommesso e silenzioso.

Sicuramente dotata, vista l’età, la usa forza è la voce che riesce a comandare sia nelle canzoni lente, sia in quelle energiche. Il raffronto con la giovane Joni Mitchell degli anni settanta è inevitabile ma, a onor del vero, riesce a fronteggiare a testa alta.

E’ un disco da ascoltare nei momenti di quiete Once I Was an Eagle, le sue canzoni sono una ricca miscela di suoni che nascono dalle radici folk, country, con delle spolverate rock, flamenco e influenze jazz. La Marling riesce a fondere in un tutt’uno musica e parole magnificamente, fornendoci un chiaro esempio di profonda musicalità.

Da incredibilmente giovane, questo album mostra una maestria artigianale di grande valore, il suo talento avrà spazio per crescere e splendere, visto che il mestiere della folk-singer lo fa dannatamente bene.

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I Donna the Buffalo nati nel 1987, hanno dieci album al loro attivo e con questo Tonight, Tomorrow and Yesterday festeggiano il loro quarto di secolo. In questi venticinque anni hanno preferito perfezionare il loro stile, renderlo più solido e maturo piuttosto che cambiare “spostandosi” in aree musicali adiacenti al loro consolidato sound, come dire “mai cambiare la strada vecchia per una nuova”. Il loro suono è un mix di cajun, zydeco, folk, con spruzzatine di ritmi reggae in salsa roots americana.

Tonight, Tomorrow and Yesterday e quanto sopra detto e conferma la loro coerenza musicale. Grazie a dei buoni riff chitarristici e un buon uso del violino e della fisarmonica, il risultato finale è che probabilmente questa è la loro migliore incisione. Ci sono dei brani solidi a dimostrazione di una sana maturazione, nulla di eclatante ma grazie ad una consapevolezza sonora, sicuramente sincera, riescono a convincere. Non scaleranno le classifiche, non faranno impazzire i fan ai loro concerti, non verranno ricordati per un’innovazione sonora, non brilleranno quindi nel firmamento musicale, ma alla fine tutto questo poco conta se in qualche modo riescono ad emozionare.

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Là, da qualche parte nella sconfinata metropoli chiamata New York City, incontriamo la musica di “Caveman”, secondo disco del quintetto omonimo, bellissimo intreccio fra voce di intensità emozionale e un tappeto sonoro le cui trame sono tese dagli efficaci e raffinati interventi delle chitarre e dal resto degli strumenti.

A differenza del loro primo sottovalutato album “Coco Beware” del 2011, disco con sfumature “folkeggianti”, “Caveman” si sposta verso sonorità più indie-rock convincendo e dimostrando una maturità, per quanto ancora in fase di ossatura, molto più marcata.

Gli uomini delle caverne non si sono ancora costruiti un vero e proprio “marchio estetico” ma la buona volontà è evidente nelle undici canzoni che compongono il disco. I brani sono ricchi di armonie chitarristiche a volte lente e caratterizzate da atmosfere malinconiche, a volte forti in un crescere lucido e lamentoso.

L’album è sicuramente assai riuscito con delle piacevolissime ballate, basti ascoltare: “In The City”, “Shut You Down”, “Never Want To Know” e “The Big Push”, per rendersene conto, quattro brani di grande spessore, che alzano il valore del disco di una spanna rispetto alla media dalle uscite di questo duemilatredici.

Un disco consigliato e che sicuramente entrerà nel podio della mia classifica annuale.

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Dopo il non troppo brillante Valtari, album in certi momenti soporifero, i Sigur Ròs ritornano con una veste rinnovata e questa volta convincono.

Kveikur, il settimo album in studio della band islandese attiva dal 1994, si muove su strade più dinamiche ed effervescenti, evidenziando subito la diversità dai lavori precedenti, infatti, Kveikur è forse l’album più avventuroso dei Sigur Rós e può davvero essere visto come un nuovo inizio per la band. Kveikur è un album coraggioso con suoni a volte aggressivi, a volte dolci malinconici, ma che, in entrambi i casi, fa respirare un’aria di innovazione. Questo è da attribuirsi soprattutto alla partenza del membro fondatore Kjartan Sveinsson, il tastierista e polistrumentista di formazione classica che ha “fornito” quel suono particolarmente concentrato e profondo che gli ha finora caratterizzati. E’ difficile comprendere dove porti questo “spostamento” repentino, capire quindi quale direzione intraprenderanno, visto che, tante idee diverse, elaborate in così poco tempo, possono lasciare spaesati. Quello che conta comunque è che l’album si fa ascoltare, le nove composizioni del disco lasciano poco spazio alla monotonia e sono invece un susseguirsi di variazioni umorali. Dopo alcuni ascolti il giudizio e sicuramente più che positivo. I Sigur sembrano usciti dalla loro “gabbia” sonora che per certi aspetti li stava racchiudendo senza via d’uscita, ora è importante che chiariscano quale percorso artistico coltivare e su quello lavorare senza farsi prendere dai tentacoli del music-business.

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Abbandonando una strada per certi aspetti sperimentale e originale, gli Editors con questo quarto album ne imboccano una più facile e meno rischiosa. La band britannica all’attivo da una decade, più che arrampicarsi, preferiscono discendere in sonorità già conosciute e di facile presa, non a caso, i riferimenti musicali a gruppi come i Depeche Mode e gli U2 non mancano. Probabilmente il gruppo sta vivendo un periodo un po’ confuso dove ancora non ha chiarito il suo percorso artistico, è da sperare solo che non imbocchi questa strada, potrebbe essere uno dei tanti modi per scomparire. “Io spero che mi sbaglio”.

In virtù di questo fatto, le undici canzoni che compongono il disco sono orecchiabili e di facile presa, strizzando così l’occhio ad un pubblico nuovo e più vasto. Molto piacevole ma privo di veri spunti eccitanti o degni di nota, le composizioni risultano tutt’altro che banali, con soluzioni armoniche raramente scontate ma, di nuovo, l’impatto è modesto. I brani pregevoli e gradevoli, scorrono senza lasciare segno, senza muovere il desiderio di ritrovare il pezzo preferito, semplicemente perché tutto suona così “perfettino”. Ottimo da ascoltare in auto o in momenti “easy”, sicuramente farà la gioia a molti nuovi fan ma lascerà il palato amaro ai più vecchi.

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Dopo l’ottimo Hight Violet e lasciati per il momento i loro progetti personali, ritorna una delle mie band preferite: The National.

Attivi dal 2001 con il disco Omonimo e successivamente con Sad Songs for Dirty Lovers, è con Alligator che cominciano la scalata verso la notorietà. Con i successivi Boxer e il sopra citato Hight Violet e grazie ai consensi di critica e pubblico, i The National vengono definitivamente consacrati nell’olimpo della musica degli anni duemila. Le due coppie di gemelli: Dessner & Devendorf, la voce bellissima e inconfondibile di Matt Berninger, riescono ancora una volta a farsi apprezzare con i tredici brani che compongono l’album.

Per paradossale che vi possa apparire, gruppi come questo sono i più difficili da ‘inquadrare’ e ‘giudicare’ (ahi, che parolaccie). Perchè? Perché sono più scivolosi delle saponette, quando credi di esserti lavato davvero la schiuma dalle mani ti trovi sul palmo un segno profondo. E allora devi rifare tutto da capo.

Al primo ascolto di Trouble Will Find Me dà subito l’esatta misura del carisma posseduto dalla band di Cincinnati, che mostra di aver definitivamente affilato le proprie sonorità. Almeno un paio di composizioni sono da considerare capolavori, un’altra manciata sono di ottimo livello e le restanti non sono in nessun caso di serie B, e questo solo al primo ascolto, poi man mano che lo si approfondisce, ci si rende conto che si ha a che fare con un grande disco.

L’intero album scorre vellutato con l’attenzione concentrata sull’elemento melodico, sulla stesura di riff solidi e lineari e sulle sonorità delle chitarre elettriche, nobiliato dall’interpretazione vocale di grande pregio di Berninger.

Nella inspiegabile logica dei corsi e ricorsi, i The National sembrano voler ritornar con un passo alle radici del loro percorso musicale, recuperando quel modo di essere, spontaneo un po’ sanguigno, da giovani universitari, che segnò il loro esordio e allo stesso tempo, sembrano voler mettere un passo in avanti a mo’ di ‘rigenero’, come linfa vitale di rinnovamento.

E’ una mostra di quadri Trouble Will Find Me, è musica colorata, con alcune pennellate gioiose e altre meno, un’esposizione di arte pittorica con l’intento di raccontare la realtà attraverso i quadri/canzoni.

Un nuovo ottimo lavoro, robusto e affiatato, molto curato nel suono e nella lirica, un buon concentrato di tutti i dischi finora pubblicati, in poche parole un ‘the best’.

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Heart of Nowhere è il quarto album pubblicato in cinque anni di attività dalla band inglese Noah And The Whale.

Se dovessimo identificare la nostra quotidianità con delle canzoni “pop” è molto probabile che i suoni e soprattutto i testi potrebbero risultare frenetici se non addirittura volgari. La principale caratteristica dei Noah and the Whale invece, è quella di una “colonna sonora” tranquilla, semplice, umile, ma non per questo poco interessante, al contrario, i testi affrontano argomenti toccanti e a volte dolorosi e comunque mai banali. Una premessa necessaria perché ad un semplice e frettoloso ascolto è molto facile cadere in un giudizio di superficialità sonora che invece non meritano.

La prima impressione che colpisce è l’equilibrio, la componente umanistica con i testi che ben si amalgamano con i suoni. Testi che raccontano la quotidianità, cambiano umore all’improvviso, imprevedibilmente come succede nella vita di tutti i giorni. Suonato bene, cantato altrettanto bene, Heart of Nowhere è un buon album, uno di quei dischi che non hanno bisogno di stravaganza per distinguersi, ma che fanno proprio di questo il loro punto di forza. Un lavoro piacevole, pulito e sincero dove “testi & musiche” s’intrecciano come gli aspetti della vita e del vivere, con l’umiltà di farci riflettere sulla ricchezza e la profondità dei pensieri e delle azioni che esistono in noi e in quel che ci circonda. Questo è il loro modo di esprimersi: un buon sano folk-rock.

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Gli anni ottanta oltre ad essere ricordati per le grandi kermesse di beneficenza e per i riti del rock da stadio, sono ricordati per il sottobosco del rock statunitense che affonda le proprie radici nell’era del movimento punk che, nel corso del tempo si estremizzò in hardcore. Era un rock orgogliosamente minoritario, forte e indipendente. Gli artisti, le band fuori dagli schemi che avevano fecondato la scena americana di nuove idee, ponendo inconsciamente le basi per la sua rinascita furono parecchi, fra questi ci furono i Meat Puppets.

Questa è una doverosa premessa nei confronti di un gruppo che in quella decade ha sfornato una manciata di dischi uno più bello dell’altro, nei successivi anni ’90 si è mantenuta su un buon livello per poi sciogliersi nel duemila. Riformatosi nel 2007, il gruppo si è arrancato per rimanere a galla senza prendersi grandi lodi ne dalla critica ne dai fan.

A due anni dal buon Lollipop, Rat Farm, quattordicesimo album in studio, si mantiene allo stesso livello. E’ chiaro, dopo aver smesso quel loro vestito “punk-hardcore”, dopo quel viaggio e quella apoteosi che gli ha visti protagonisti in prima linea è difficile individuare motivi ispiratori sempre ammesso che esistano. E’ proprio questo il punto per cui i “veri” critici affondano il disco: “l’ispirazione”. In sostanza, checche ne dicano, il disco è piacevole e nella generalità dei brani ci sono una manciata di buone canzoni, dove tecnica strumentale e una certa creatività a livello di composizione non mancano. Insomma i Meat Puppets offrono con questo album l’ennesima dimostrazione, giustamente ambiziosa, di non sopravvivere sui propri allori.

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