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Recensioni musicali di Silvano Bottaro

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A sette anni dall’ultima sua pubblicazione “The Traveller”, Baaba Maal ritorna con “Being”, un disco ritmicamente potente e liricamente premuroso, una delle uscite più emozionanti della sua lunga discografia.

A 70 anni Maal sembra un uomo sulla quarantina. È invecchiato incredibilmente bene. Così come la sua musica. Dal 1989, album dopo album, ne ha pubblicato una ventina, una quindicina come solista e una manciata in collaborazione. Quasi tutti i suoi dischi non solo si basano sulle sue radici senegalesi, ma aggiungono suoni e vibrazioni occidentali, creando così un sound totalmente personale.

In questo “Being” Maal ci offre un qualcosa in più, che supera le sue uscite precedenti. La voce di Maal è sublime e le melodie sono ipnotiche. Si alzano e cadono con grazia, ma sono anche in grado di ruggire quando necessario. Le armonie sono squisite e, abbinate alla voce di Maal, diventano un bene prezioso che fanno il suo marchio di fabbrica.

Being è un’esplorazione delle radici africane di Maal in Senegal. Il disco attraversa i generi a lui consoni, mettendo in evidenza gli strumenti africani tradizionali insieme a suoni elettronici futuristici. Being mette in evidenza le problematiche di un mondo che cambia e si modernizza sottolineando soprattutto il cambiamento climatico che minaccia il suo territorio, la sua gente, il suo vivere.

#duemilaventitre

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Les Égarés è un gruppo formato da due coppie di musicisti che da anni eccellono nell’arte di incrociare i suoni e trascendere i generi, e sono: Ballaké Sissoko (kora) e Vincent Segal (violoncello) da un lato e Vincent Peirani (fisarmonica) ed Émile Parisien (sax) dall’altro. La grandezza di questi “maghi” sta sicuramente un’unità di spirito, un suono unico e fluido che disdegna ogni forma di competizione egoistica e mette ogni partecipante al servizio di un bene musicale comune. Né jazz, né tradizione, né cameristica, né avant-garde, ma un po’ tutti insieme, Les Egarés è quel tipo di album che fa dell’orecchio il re di tutti gli strumenti, un album dove il virtuosismo si esprime in arte della complicità, dove l’idea semplice e grandiosa di ascoltarsi l’un l’altro porta alla nascita di una splendida raccolta sonora.

I quattro si sono conosciuti nel giugno del 2019, al Festival Les Nuits de Fourvière, mentre si stavano preparando per celebrare l’anniversario dell’etichetta “No Format”. Quel pomeriggio, sotto un pergolato che li riparava dal sole cocente, iniziarono a suonare, solo per il gusto e il piacere di farlo, e la musica scorreva come una sorgente, fresca e limpida. È stato il ricordo di questa session spontanea che ha fatto nascere l’idea di formare un quartetto di Egarés (“coloro che si sono smarriti”), e successivamente anche il progetto di registrare un’album, questo, per l’appunto.

Fin dalle prime note del disco, traspare una rara bellezza sonora, vibrante e volatile. A nessuno di questi quattro “free styler” piace essere imprigionato, che sia in un ruolo particolare, o in uno stile o suono particolare a cui il loro strumento potrebbe essere così facilmente confinato. Ognuno estrae i diamanti dal proprio zaino e li presenta al gruppo fornendo materiale per un autentico e comune tesoro di musica, oro musicale appunto, fuso in una singolare lega di toni, tocchi, respiri e fraseggi.

Un universo sonoro che parte da melodie africane a base di kora per passare in Armenia e scivolare in direzione della Transilvania attraverso la Turchia. Respiri intrecciati di fisarmonica e sax. Una mescolanza di melodie con echi jazz e di blues ancestrale, che conferiscono l’inebriante sensazione di maestosità e mistero. Un camminare senza sapere dove si sta andando, lasciandosi andare alla deriva e cedendo al piacere di perdersi, un piacere che, da solo, riassume bene la filosofia di questo disco.

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Kimi Djabaté ha vissuto un’infanzia piuttosto impegnativa e travagliata. Nato e cresciuto in una famiglia povera ma “musicale” a Tabato, Guinea-Bissau, un villaggio rinomato per i suoi griot, cantanti-poeti ereditari le cui canzoni, musiche, racconti e leggende svolgono un ruolo essenziale nella vita culturale dell’Africa occidentale, gli è stato dato il suo primo balafon, uno xilofono africano, all’età di tre anni. Riconosciuto fin da subito come un bambino prodigio, il suo modo di suonare è stato fonte di reddito per la sua famiglia. Ha suonato regolarmente a matrimoni e battesimi dall’età di otto anni, a costo di perdere molte altre attività dell’infanzia, come giocare con gli amici.

Il suo talento gli ha permesso di imparare a suonare la Kora e di padroneggiare sia con la chitarra che una serie di strumenti a percussione. Da giovane, grazie a un programma radiofonico, è stato in grado di assorbire Afrobeat nigeriano e Capo Verdean Morna, oltre a Western Jazz and Blues, suoni che si riverberano nel suo ultimo album. A 19 anni faceva parte del National Music and Dance Ensemble della Guinea-Bissau, che gli ha dato modo di visitare l’Europa. Successivamente, si stabilì a Lisbona, in Portogallo, dove vive e lavora. Dindin, è stato registrato in Almada (Portogallo) nel 2021. Come per le incisioni precedenti, è un omaggio alla sua eredità griot, il suo modo di esprimere artisticamente la complessità della vita contemporanea in Africa, sia le gioie e sia gli ostacoli. Il titolo dell’album e la lingua in cui è cantato è Mandinga, la lingua parlata dal popolo Mandinka della Guinea-Bissau settentrionale. Tradotto in inglese come “bambini”, Dindin è intensamente personale, con canzoni dedicate ai familiari e agli amici, con riferimenti a materie sociali e politiche come l’educazione, i diritti dei bambini e delle donne, la povertà, la comunicazione, la religione e le molte forme di Amore. Dindin è un album ottimista che mette davvero in evidenza il potere della musica per aiutare a creare un mondo migliore, specialmente per gli africani. La musica di Kimi su Dindin è sia edificante che molto divertente, e allo stesso tempo è un nobile tributo sia alle sue radici di Griot che al suo patrimonio africano.

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Sun Ra salì a bordo dell’Arkestra per la prima volta negli anni Cinquanta, e rimase nella nave per i suoi viaggi spaziali esplorativi e pionieristici nella musica jazz fino alla sua morte avvenuta nel 1993.

Da lì in poi, il collettivo Arkestra continuò con i vecchi membri. Sono stati in grado di farlo perché per decenni l’Arkestra si è evoluta in una nave spaziale in continua evoluzione, viva e respirante di forte unità, come poche nella storia della musica.

Tutto questo è nato dall’approccio Jazz dello stesso Sun Ra, che poteva plasmare un suono che aveva echi di jazz tradizionale, New Orleans, progressioni classiche, fusione elettronica e sperimentazione varia, lontano e oltre il regno dell’immaginazione, raggiungendo un’altra dimensione, presentandosi spesso vestito con abiti futuristici.

Che i Sun Ra Arkestra siano stati un progetto impenetrabile, radicale, impossibile da definire è un eufemismo e di conseguenza, per l’ascoltatore distratto, ha gravato loro la reputazione di musica difficile e complessa.

Se si da tempo e attenzione, tuttavia, nulla potrebbe essere più lontano dalla verità.

Spesso perso tra il travolgente assalto di immagini, stili musicali intrecciati e innovazioni sonore, gli Arkestra hanno in molte occasioni prodotto alcune delle più belle musiche jazz della nostra vita e Living Sky è in prima linea in questa modalità.

Living Sky è un lavoro spirituale, ipnotico e, in tal senso, melodico e groove. In sintesi una musica accessibile e curativa nell’era del Covid.

Al fine di realizzare questa visione, l’Arkestra ha messo insieme una raccolta completamente coesa di un’ora di musica unificata che comprende sia composizioni originali, gli standard, e pezzi di Sun Ra riarrangiati con evoluzioni classiche e familiari al suo canone.

Questo è uno di quegli album ricchi di bellezza propria, che sanno placare gli affanni del mondo.

Un vero piacere per le nostre orecchie.

#duemilaventidue

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A nove mesi dall’uscita del disco e dopo ascolti su ascolti viene confermata la regola generale applicata ai dischi e quindi quella di ascoltare più volte le tracce prima di esprimere un giudizio.“La mia patria attuale” ha bisogno di serenità d’animo, di silenzio e di un ascolto attento. E poi dopo, quando la musica tace, di una riflessione silenziosa. Più e più volte. “La mia patria attuale” è un disco intellettuale, quasi letterario.

La scelta di pubblicato il 21 gennaio non è casuale: il 21 gennaio (1921) è nato il Partito Comunista d’Italia e il 21 gennaio (1924) è morto Lenin. Due riferimenti importanti per l’artista, ancora fedele alla linea dei CCCP e CSI, di cui coltiva la memoria collettiva.

Se ci si ferma un attimo a riflettere non stupisce questa scelta. Zamboni è di Reggio Emilia, dove è nato il Tricolore e soprattutto terra resistente e partigiana. E i partigiani si definivano patrioti, senza vergogna: perché con il loro sacrificio hanno provato a lavare l’onta del fascismo e ridare dignità all’Italia.

“La mia patria attuale” traccia una visione approfondita sulle correnti incapacità di un’Italia che non sembra più in grado di valorizzare il proprio immenso passato culturale e sociale, lasciato ormai quasi all’abbandono e dove l’importante termine “Patria”, la terra dei padri, viene sempre più utilizzato con faciloneria per interazioni persino irrispettose di quell’aureo significato.

Esiste davvero l’Italia o è solamente una mera espressione geografica? Esistono davvero gli italiani? Ha senso cercare la nostra coscienza comune? Riusciremo ad andare oltre questo sciagurato “mare nostrum” di delusioni brucianti e promesse mancate? Sapremo svincolarci e liberarci dal disordine, dal cinismo, dalla paura e dall’ignoranza che sembrano condannarci a restare, per sempre, proni e piegati, in balia dei peggiori governi e di una classe politica che è incapace di guardare con fiducia costruttiva al futuro, incapace di offrire prospettive alternative, incapace di uscire dai soliti schemi mentali e dai soliti luoghi comuni, ma si ostina a vivere nella menzogna di uno sterile, paranoico e frustrante eterno presente, pur di conservare i propri privilegi e la propria posizione?

Per la prima volta in carriera l’ex-Cccp e Csi si lascia trascinare pienamente nel mondo cantautorale, un territorio che non è mai stato tra i suoi preferiti, ma nel quale sembra finalmente accedere con attenta curiosità e assoluta padronanza. La capacità compositiva è sempre stata una delle sue doti più spiccate, non solo in musica – è pregiata la sua carriera parallela di scrittore – e in questo progetto il cuore pulsante del pensiero dello Zamboni cittadino italiano prende il sopravvento su tutto il resto.

I dieci brani di “La Mia Patria Attuale”, ricchi di combattive sonorità di matrice folkeggiante, di una narrazione cantautoriale cruda e malinconica, di una vibrante e accattivante poesia, di chitarre e pianoforte, organo e mellotron, offrono al pubblico quello che, ad un primo ascolto, potrebbe apparire solamente un ingannevole e insensato conforto, un dolente susseguirsi di invocazioni a Dei inesistenti che si mostrano sordi alle nostre preghiere, ciechi e insensibili dinanzi alle dolorose tragedie che sconvolgono il mondo. In realtà, però, queste invocazioni sono rivolte soprattutto a noi stessi – agli sciagurati, ai reietti, ai diversi, agli emarginati, agli esclusi – spronandoli, attraverso quelle ritmiche e quelle percussioni che appartengono alla nostra storia comune, a rivoltarsi contro questa delirante e brutale visione della società.

A dominare non sono le chitarre distorte, l’elettronica ma è la voce, la sua voce. Che canta, racconta, sussurra sulla musica, creando dei momenti profondi e di forte impatto emotivo.

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La musica come forma di protesta e resistenza è un fenomeno che esiste da tempo immemorabile. In tempi di disordini politici e sociali, è diventato un rifugio vitale per i musicisti. Agisce come una valvola di sfogo per le loro lamentele e convinzioni e un appello clamoroso per il loro pubblico. I risultati sono migliorati se si stabilisce un senso di connessione emotiva tra i due. Questo potere simbiotico è stato particolarmente potente dove gli indigeni sono stati oppressi. Beja Power!, Electric Soul & Brass From Sudan’s Red Sea Coast, è un disco che perpetua questa nobile forma di espressione e dissenso. I Beja (pronunciato Bee-Jah) sono un gruppo etnico di circa 1,2 milioni di persone che abitano in Sudan, Egitto ed Eritrea. Scolpiti in geroglifici, sono un’antica comunità, che fa risalire i loro antenati a millenni. Alcuni etnografi credono che siano tra i discendenti viventi dell’antico Egitto e del regno nubiano di Kush. Nella storia recente, hanno vissuto principalmente nel deserto orientale, ed è sulla costa sudanese del Mar Rosso che questo album ci trasporta.

Nonostante la sua giovane età, Noori, desidera mantenere viva e contemporanea la musica di Beja. Della stessa cultura Beja, si sa poco; una politica deliberata. La loro terra a est, vicino al Mar Rosso, è ricca d’oro e i successivi governi sudanesi hanno ignorato le pretese di Beja per il riconoscimento e l’accesso alla ricchezza all’interno del loro suolo. In particolare, sono stati completamente emarginati sotto il duro governo di oltre 30 anni dell’ex uomo forte Omar al-Bashir. In effetti, Bashir ha condotto una campagna per cancellare la cultura, la lingua e la musica dei Beja e negare loro il diritto a un sostentamento dignitoso.

È in questo contesto che la sua banda Dorpa si è formata nel 2006 e, sebbene le condizioni per i Beja siano cambiate poco dalla cacciata di Bashir nel 2019, sono stati in prima linea nel cambiamento politico in Sudan; ad esempio, manifestano regolarmente e chiudendo il porto più grande del paese. Noori crede fermamente che scatenare la musica Beja integri pienamente tali atti di protesta.

Registrato in Omdurman, oltre al leader Noori con la chitarra histambo, gli altri musicisti che compaiono nell’album sono Danash (tabla), Fox (chitarra ritmica), Gaido (basso), Naji (sax tenore) e Tariq (chitarra ritmica ). In qualche modo paradossalmente, la musica stessa, provocatoriamente afro-jazz sottolineata da ipnotizzanti ritmi sudanesi, suona genuinamente globale. Elementi di assouf, blues, jazz, rock, soul elettrico, psichedelia e surf permeano queste melodie storiche aggiornate, forse non influenzate, ma evocative, del Sud-est asiatico, del Nord America, delle Ande sudamericane e del Sahara.

Ognuna delle sei tracce strumentali rappresenta un aspetto della vita di Beja e c’è una netta differenza nell’arrangiamento, nella forma, nell’umore, nella sensazione e nella melodia di ciascuna. Figure increspate di chitarra da surf che duellano con il soulful sax tenore e linee di basso sonore, i ritmi funky incrociati di tabla e congo costruiscono tutti irresistibilmente sia in slancio che in volume, e proprio mentre pensi che il clima sia stato raggiunto, un assolo di chitarra vertiginoso eleva il accordare ancora più alto.

Beja Power! riesce eminentemente ad essere un potente atto di sfida, un’acclamazione e una testimonianza di devozione per la cultura Beja e un’esperienza musicale assolutamente piacevole.

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Figlio del compianto Ali Farka Touré, ampiamente acclamato come il più grande chitarrista africano di sempre, Vieux Farka Touré incarna l’interpretazione moderna dell’anima del blues in Africa. Le sue melodie urbane ed elaborate e il modo di suonare la chitarra da virtuoso gli sono valsi il soprannome di “Hendrix del Sahara”. Vieux si è affermato, nei suoi cinque album da solista fino ad oggi, come un illustre musicista che ha enfaticamente ampliato i confini della musica dell’Africa occidentale. Con questa sua ultima uscita, Les Racines, che si traduce come “Le Radici”, il titolo dice tutto, Vieux ritorna con un suono che si ricollega con la musica tradizionale Songhai settentrionale del Mali, introdotta nel mondo intero da suo padre e assegnata all’etichetta occidentale “Blues del deserto”.

Ali, disapprovava il desiderio di suo figlio di diventare un musicista, anche se lui stesso aveva sfidato i suoi stessi genitori nel farlo. Ignorando questo consiglio, Vieux inizia la sua carriera di musicista come batterista e suonatore di calabash (una zucca) all’Institut National des Arts del Mali, per poi iniziare segretamente a suonare la chitarra nel 2001. Poco prima della morte di Ali, e grazie all’aiuto dell’amico di famiglia Toumani Diabaté, il maestro di kora, Vieux ha ricevuto la benedizione di suo padre per diventare musicista, infatti ha contribuito all’omonimo album di debutto di Vieux.

Quando la pandemia di Covid ha colpito nel 2020, la mancanza di opportunità di tournée ha colpito duramente questo prolifico artista di performance dal vivo, ma allo stesso tempo gli ha dato l’opportunità di allacciarsi le cinture e lavorare instancabilmente per due anni su un progetto che in realtà era in cantiere da molto tempo. Come spiega, “Ho avuto il desiderio di fare un album più tradizionale per molto, molto tempo. È importante per me e per il popolo maliano rimanere in contatto con le nostre radici e la nostra storia… Tornare alle radici di questa musica è una nuova partenza per me e non ho mai trascorso così tanto tempo o lavorato così duramente su un album… molto tempo per riflettere su come farlo e metterlo insieme”.

Vieux è affiancato nell’album da una serie di musicisti ospiti tra cui Moussa Dembel alle percussioni, il fratello minore di Toumani Diabate, Madou Sidiki Diabaté alla kora nella title track e su Lahidou, Kandia Fa con l’ n’goni, Marshall Henry al basso, Souleymane Kane con la calabash, Modibo Mariko anch’esso al basso, Cheick Tidiane Seck alle tastiere e Madou Traoré al flauto. Inoltre, si può sentire Amadou Bagayoko, di Amadou & Miriam, suonare la chitarra in Gabou Ni Tie .

Le dieci canzoni dell’album sono tutte composizioni originali e trattano una vasta gamma di argomenti, comprese riflessioni personali sull’amore, la famiglia, i ricordi, insieme a questioni sociali contemporanee come il rispetto, l’unità e la compassione, temi importantissimi in un paese in cui alti tassi di analfabetismo significano che la musica è il principale metodo di diffusione della conoscenza e dell’informazione.

Nonostante avere un padre famoso può essere un’eredità difficile, Vieux è diventato un impressionante rappresentante del blues africano, ha rivendicato per se stesso le luci della ribalta e ha suscitato scalpore con un’idea radicale: sposare le sue radici musicali, fortemente influenzate dalla regione del Sahara occidentale. La sua musica riflette l’Africa contemporanea: urbana, sofisticata, globalmente connessa senza trascurare l’orgoglio del patrimonio culturale. La sua musica è moderna e rock, ma lascia comunque che i cammelli passino tranquillamente davanti all’occhio interiore.

Vieux ha affermato che “L’album è un omaggio a mio padre ma, altrettanto importante, a tutto ciò che ha rappresentato e per cui ha rappresentato”. Les Racines non è solo un album di cui Ali Farka Toure sarebbe stato orgoglioso di assistere alla perpetuazione delle tradizioni e delle credenze che ha sposato e abbracciato, ma conferma anche che musicalmente Vieux è ora il legittimo erede del suo illustre padre.

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Quattro anni dopo il loro ottimo disco Transparent Water, ecco il secondo – altrettanto superbo album – del cubano Sosa e del senegalese Keita. Sebbene condividano un legame ancestrale con l’Africa, i rispettivi luoghi di nascita del virtuoso del pianoforte Omar Sosa e del maestro kora Seckou Keita, Cuba e Senegal, sono separati dall’Oceano Atlantico. Quando la coppia si è incontrata nel 2012, Seckou ammirava Omar per la sua spiritualità musicale, mentre Omar vedeva in Seckou una rara capacità di collaborare pur mantenendo la sua identità musicale.

Suba significa “alba” in Mandinka, la lingua nativa di Keita, che rappresenta il suo momento preferito della giornata e un momento di freschezza e speranza.

Attenti consapevoli della politica delle tante spaventose tragedie provocate oggi dal fenomeno delle migrazioni mondiali, Sosa e Keita scelgono di concentrarsi invece sul potenziale redentore o trasformativo della poetica, nella musica dove, come dice Sosa, il principio guida è il “minimalismo” – o less is more.

Nelle note di copertina Sosa commenta che è in un punto della vita in cui “fare assoli pezzi mi ha reso… non voglio dire infelice… ma quasi infelice. Perché per me la musica deve essere una conversazione, deve essere umile, deve respirare, deve fare spazio. Penso che il mondo abbia bisogno di musica gentile e bella, non arrogante, veloce e folle“.

Suba, è un inno alla speranza, a una nuova alba di compassione e vero cambiamento in un mondo post-pandemia. Il concetto del disco è pace, speranza e unità. In questo momento che stiamo vivendo, quando tutto va a pezzi a poco a poco, l’ultima cosa che abbiamo dentro di noi è una connessione sacra con la nostra voce interiore, con il nostro spirito e luce e con i nostri antenati. Cerchiamo di dare speranza attraverso la musica e dire alle persone che possiamo stare insieme. Anche se stai affrontando alcune difficoltà, riporti il tuo cervello alla normalità. Vedi l’alba come un nuovo giorno, una nuova pace, un nuovo qualcosa, buono o cattivo, un qualcosa di eccitante.

Durante tutto l’album, la musicalità mostra una grande maestria composita, sintetizzando un colore armonico giudizioso e una squisita prontezza dinamica, aspetti sia intricati che espressi apertamente di melodia, ritmo e atmosfera da Cuba e dall’Africa, dal Venezuela, dal Brasile e dall’Europa.

Una musica di respiro mondiale di visione archetipica e profondamente incoraggiante.

#duemilaventuno

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Come il venerato connazionale Salif Keita, il musicista maliano Sidi Touré condivide la particolarità di discendere da una stirpe reale in una famiglia che lo ha poi rinnegato. Nato a Gao, nella regione di Singhai nel nord del Mali, per inciso anche la casa del defunto Ali Farka Touré, (nessuna parentela), situato tra il fiume Niger e il deserto del Sahara, è un paio di centinaia di miglia a est di Timbuktu e la regione dei nomadi Tuareg di fama “desert blues”, un suono che può essere immediatamente riconosciuto nella sua musica. Prima della sua carriera solista, ha diretto The Songhaï Stars di Goa e nel 1984, quando ha vinto il concorso per il miglior cantante alla Biennale nazionale del Mali, un risultato ripetuto due anni dopo. Anche se immerso nella tradizione musicale del Mali settentrionale, il suo lavoro ha avuto una predominante influenza blues e rock che gli è valso un seguito entusiasta non solo nel suo paese d’origine, ma anche altrove, tra cui Nord America ed Europa.

Mentre la sua precedente uscita del 2018, Toubalbero, ha visto un cambiamento radicale verso un approccio elettroacustico, Afrik Toun Mé, vede un ritorno all’acustica pura e essenziale delle registrazioni precedenti, in particolare quella del suo primo disco del 2011 Sahel Folk, un album di sessioni informali registrato con gli amici a casa di sua sorella.

Come per Sahel Folk, l’obiettivo di questa registrazione non è una performance musicale, ma è la conseguenza che crea, la conseguenza del piacere che può essere condiviso da musicisti che si incontrano in studio per dialogare musicalmente, la gioia di divertirsi e l’orgoglio di suonare musica con le sue radici che affondano profondamente nella cultura maliana e nella cultura Songhaï.

Le otto canzoni risultanti di Afrik Toun Mé, che si traduce come ‘Africa Must Unite’ sono sparse, ma alla fine coinvolgenti, cose di grande bellezza, che “mescolano parabole e racconti di ispirazione che onorano il coraggio e la resilienza di fronte a prove e tragedie”. Le note fornite danno dai brevi indizi sul contenuto lirico, ma la barriera linguistica, (per coloro che non hanno dimestichezza con la lingua Songhaï), non è vista come problematica. I sentimenti e le emozioni che emana la stessa musica e i suoni creati, trasmettono più che adeguatamente significato.

Il calore della musica, (caratterizzato dalla scala pentatonica a cinque note che designa la secolare tradizione Songhaï), viene espresso in uno stile di esecuzione che è simultaneamente sia pizzicato che strimpellato, con un risultato inebriante di melodia e ritmo, doppiamente efficace quando le due chitarre suonano l’una con l’altra.

#duemilaventi

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Questo ultimo album, di Mary Chapin Carpenter, The Dirt and the Stars, registrato nel Real World Studio di Peter Gabriel, può sicuramente unirsi alla lista dei dischi del 2020 che funzionano perfettamente per la nostra comune crisi “mentale” dovuta ai fatti epidemici mondiali.

Il disco della Carpenter funziona particolarmente bene come balsamo calmante, con le sue parole di saggezza scelte con cura che si fanno strada verso di te attraverso una musica assolutamente priva di ansia. Con un sacco di esperienza di vita e di carriera alle spalle: quindici dischi, quindici milioni di copie vendute, 5 Grammy Award, di cui ben quattro consecutivi, su un totale di 15 nomination, Mary Chapin Carpenter è adeguatamente attrezzata per dispensare lezioni di vita e, in un certo senso, è quello che fa in The Dirt and the Stars.

Infatti, questo album caldo e pieno di cuore, la vede spesso invocare l’idea del tempo che passa; e come quel tempo possa sia darti prospettiva e saggezza, sia confortarti dimostrando che non tutte le cose durano per sempre.

In generale, The Dirt and the Stars è un album di brani rilassanti, folkeggianti e scritti in modo eccellente. Le canzoni lente, i ritocchi ambientali, i spigoli rock, non appaiono sicuramente originali ma fanno di questo album fin al primo ascolto, un disco senza tempo, appartenente a qualsiasi epoca.

L’attenzione è sulla voce della Carpenter e sulla strumentazione relativamente scarsa che crea un’atmosfera calda e avvolgente intorno a lei. Oltre alle sue canzoni che abbracciano i sentimenti e l’empatia per gli altri, ne include alcune che esplorano il potere della nostalgia. Qui, il concetto del tempo viene rivisitato non come strumento di apprendimento ma come forza potente.

È un album nel complesso solido, uno di quei dischi che lasciano il segno, che probabilmente non saltano subito alle orecchie ma che con il tempo lascerà un’impressione memorabile nel cuore. Forse un giorno, in un futuro più luminoso, potremo tornare a questo album e ricordare come ci si sentiva ad ascoltarlo durante i mari torbidi del duemilaventi.

Tra i più belli di quest’anno.

#duemilaventi

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