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Recensioni musicali di Silvano Bottaro

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Il coraggio è una virtù di pochi e i Wilco sono tra questi.

I fan di vecchia data, dopo un primo ascolto rimarranno molto probabilmente spiazzati. The Whole Love abbandonando la strada di Sky Blue Sky (2007) e dell’ultimo Wilco (2011), dimenticando i suoni di Yankee Hotel Foxtrot (2002) e A Ghost Is Born (2004), si inerpica in nuovi territori e, questo, non può che far bene. Si perchè, al di la che il disco possa piacere o meno, quello che conta per un gruppo ormai sulla breccia dal 1995 (senza contare la parenesi “Uncle Tupelo” dei primi anni novanta) è il saper rinnovarsi, evitando così la noia del ripetersi.

The Whole Love è un ponte, l’inizio probabilmente di un nuovo corso dei Wilco. Non che Jeff Tweedy non sia stato incline a sperimentazioni e a ricerche sonore, anzi, fatto sta che questo ultimo lavoro suona come un manifesto di cambiamento. Un cambiamento che sa di abbandono ai vecchi cliché e di abbraccio a nuove esperienze musicali senza preclusioni di ordine commerciale, non a caso l’album è prodotto proprio da Tweedy.

In The Whole Love suonano una serie di buone canzoni, alcune ottime altre meno, nel complesso però, quello che risalta è lo spaziare nell’intero panorama rock. Si sentono echi che vanno dagli anni ’60 agli anni ’90 passando per gli anni ’70. Una piccola enciclopedia rock con dentro suoni che vanno dal country al simple jazz, con dosi di psichedelia, folk e musica elettronica, tutto meravigliosamente condito in salsa Wilco.

E’ un disco assai ispirato, non c’è dubbio, quello che è da affinare in futuro sarà di coniugare “il verbo” nei “modi” e nei “tempi” giusti, dove alla voce “verbo” s’intende essenza o “anima”, si perchè, anche se il disco è di buona fattura quello che si sente mancare è un “marchio di fabbrica”, quel “non so cosa” che faccia esaltare.

#duemilaundici

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A parte la parentesi Traveling Wilburys, gli anni ottanta non sono stati i suoi anni migliori, un Dylan stanco e privo di creatività si è trascinato in tour e dischi non entusiasmanti e alcuni addirittura inutili. Proprio alla fine di questi, quasi come un’ancora si salvezza, a New Orleans, fra i profumi del voodoo e l’aria frizzante di Bourbon Street, Bob Dylan si decide a fare finalmente il Bob Dylan. In studio, con l’umidità che si aggrappa alle finestre, con pochi musicisti ma di cuore, incide il suo ventiseiesimo disco e le canzoni sono quelle di una volta.

Il gioco-forza si chiama Daniel Lanois, un giovane e grande produttore che, grazie alla sua maestria, riesce ad dare il suo imprinting con notevole personalità e pregevole fattura.

Oh Mercy diventa così un album attualissimo e allo stesso modo un disco senza tempo. Anche se non tutto il disco “naviga” in acque limpidissime, nel complesso, grazie ad alcune grandi canzoni; The Man In The Long Black Coat, Political World, Everything Is Broken e la bellissima Most Of The Time riescono a colpire emotivamente, in maniera profonda.

Non eravamo più abituati a questi canzoni, il Dylan ci aveva fatto assopire nelle sue ultime opere, ora invece, la bella voce, le sonorità delicate e spigolose, intense e rarefatte, fanno di questo Oh Mercy un disco completo, piacevole e per niente banale, una rinascita musicale dopo anni di stasi.

Avremmo tutto il tempo di ascoltarlo e di farlo nostro questo album, ci vorranno infatti, ancora altri otto anni prima che il nostro Dylan sforni un’altro ottimo disco, si chiamerà “Time Out Of Time”, sarà il 1997 è il produttore si chiamerà ancora una volta, guarda caso, Daniel Lanois.

#millenovecentoottantanove

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Il musicologo Ry Cooder ritorna con un nuovo lavoro a distanza di tre anni dalla trilogia formata dal bellissimo ‘progetto’ Chavez Ravine del 2005, dalla storia del gatto Buddy di My name is Buddy del 2007 e dal non tanto entusiasmante I, Flathead del 2008.

Per metà dei suoi quarant’anni di attività musicale, Ry si è prodigato a riscoprire i suoni di diverse culture del mondo, famosissima è quella cubana dei Buena Vista Social Club, dell’Africa con Ali Farka Toure, del soul/gospel con Mavis Staples e l’ultima irlandese con i Chieftains.

Pull Up Some Dust And Sit Down è un lavoro essenzialmente di matrice sociale/politica dove i testi marcatamente di protesta, prendono di mira soprattutto i banchieri, Wall Street e il disastro economico che ha messo in ginocchio gli Stati Uniti. Altro argomento preso in evidenza sono le leggi varate contro l’immigrazione, storie di povera gente in cerca di un futuro migliore e che invece a volte, purtroppo, incontra solo alla morte.

Se questo è l’aspetto essenzialmente testuale, il disco è di pura matrice “Cooderiana” suoni quindi praticamente a lui cari; rock, folk, blues, influenze messicane e irlandesi. Quattordici canzoni per quasi un’ora di musica nel quale il nostro ha saputo creare intense ballate acustiche, cariche di pathos ed estremamente profonde.

Forse tra i dischi più completi che abbia mai inciso, Pull Up Some Dust And Sit Down non è un lavoro ‘facile’ e come tale ha bisogno di molti ascolti. Tutte le grandi opere hanno questa peculiarità.

Essenzialmente non c’è molto da aggiungere se non il solo consiglio di procurarvelo. In fondo, parlare di questo disco risulta più difficile che ascoltarlo.

Non svetterà le classifiche di vendita ma Pull Up Some Dust And Sit Down rimarrà senz’altro un’opera coraggiosa, ricca di valore testuale e musicale che, ancora una volta, dimostra che Ry Cooder è un grandissimo uomo e musicista.

#duemilaundici

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Nera, ventitreenne, americana di Boston, una laurea in antropologia e una facilità compositiva che è di pochi, Tracy Chapman si inserisce nel panorama musicale con un album d’esordio dal forte impatto testuale-sonoro.

Fra i cantautori di colore in aria folk solo Richie Havens e la Armatrading battono il suo terreno ma, il primo è un uomo da cover poco in confidenza con le classifiche e la seconda ha appesantito le sue belle canzoni. La Chapman, ‘spostandosi’ dal ‘vecchio’ folk cantautorale, apre un nuovo ‘filone’ sonoro, estremamente personale e immediato, di forte presa emozionale con dei connotati politico-sociali, incidendo un disco di impegno e di protesta, con un suono solare e spontaneo che fa di lei una vera rivelazione musicale.

Nel disco, pluridecorato e prodotto con garbo (D.Kershenbaum), undici meravigliose ballate che parlano di violenza sulle donne, razzismo e amore con la determinazione di un Dylan giovane e la grazia della migliore Joni Mithell.

Probabilmente uno dei migliori esordi discografici che il mondo musicale abbia sfornato (la rivista Rolling Stone lo ha inserito al 261º dei migliori album), un disco che per la sua freschezza e immediatezza compositiva non può mancare nella nostra collezione discografica.

#millenovecentoottantotto

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Personaggio geniale e inquietante, provocatorio e imprevedibile Nick Cave, australiano di Melbourne ma cittadino Londinese è stato presente più volte in questo blog con ‘The Good Son’ del ’90, nove canzoni di una bellezza disarmante, con il progetto ‘Grinderman del 2007’ e del 2010 e ancora con i Bad Seeds in ‘Dig Lazarus, Dig!’ del 2008.

Kicking Against The Pricks è un album interamente composto di cover che percorre i sentieri della musica americana in modo quasi malato e angosciante. Il blues di John Lee Hooker (“I’m Gonna Kill That Woman”), il country di Johnny Cash (“The Singer”), l’hit hendrixiano (“Hey Joe”), il soul di Cooke (“Something’s Gotten Hold Of My Heart”), il canto urbano di Lou Reed (“All Tomorrow’s Parties”) sono qui rimasticati e stravolti, quasi irriconoscibili.

Con voce profonda e da brividi Cave conduce le sue personalissime rivisitazioni con grande perizia e abilità. E’ maestro in un’arte difficile: aggiungere senza togliere all’originale. Facendo in modo che, alla fine, tutti sembrino figli suoi.

#millenovecentoottantasei

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Si sta confermando come uno degli album più belli del 2011 questo ‘The Rip Tide’, terzo album dei Beirut, band statunitense capitanata da Zach Condon, giovane venticinquenne nato a Santa Fe nel Nuovo Messico.

Fin dal primo disco ‘Gulag Orkestar’ del 2006, Condon (infatti il gruppo ‘Beirut’ si formò successivamente per l’incisione del disco) si dimostrò un grande talento oltre a una gran bella voce ma fu con il secondo, ‘The Flying Club Cup’ del 2007, che i Beirut si fecero conoscere oltre continente.

Lasciando da parte certe influenze inevitabilmente tratte da ispirazioni ‘altrui’, con ‘The Rip Tide’ i Beirut fanno il grande salto di qualità, facendo emergere un suono completamente personale che li distinguono dalla ‘massa’ musicale odierna. Anche se orientativamente verso un sound più pop, i Beirut ci regalano trentatre minuti di intrecci musicali di notevole profondità. Le nove canzoni che compongono il disco hanno la forza di creare un flusso sonoro particolarmente sensibile ed elegante.

‘The Rip Tide’ è uno di quei dischi dove non c’è un solo secondo sprecato, che si ascoltano dall’inizio alla fine, senza nessuna interruzione e in continuazione per diversi giorni, per poi riprenderlo e trovare ancora delle ‘pieghe’ nascoste a riconferma della sua bellezza.

Un piccolo capolavoro di classe, godibile e intelligente, musicalmente ispirato alla grande tradizione folk della canzone americana e suonato da bravi musicisti.

‘The Rip Tide’ è un disco maturo, concentrato e accessibile ma soprattutto non banale. La musica di Condon è raffinata, gli strumenti sono ben amalgamati tanto da formare un ‘tappeto’ sonoro dove la voce, la sua bella voce, riesce a farlo ‘volare’.

Tra gli album dell’anno.

#duemilaundici

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(or What We Did On Our Summer Vacation)

A quattro anni dal loro ultimo disco “Saturday Nights and Sunday Mornings”, i Counting Crows ritornano con un nuovo lavoro e questa volta è un disco di cover, spiazzando ancora una volta i loro fan. Ad Adam Duritz & co. infatti, una cosa su cui non si discute è la libertà di “scelta”, in poche parole fanno quello che gli pare senza filtri e costrizioni di sorta. Questa loro “scelta” gli permette di spaziare non solo con dischi variegati; dal vivo, in studio, di cover ma soprattutto con i tempi da loro scelti in base alle loro esigenze e non quelli dettati dalle Majors di turno. Dimostrazione è la scelta dei quindici brani che non appartengono ad un repertorio di canzoni famose o di facile ascolto ma scelte tra quelle che più piacevano a loro. Come risponde Duritz in una intervista: “Io sono un grande credente di una semplice regola, che qui non ci sono regole”. Insomma un gruppo “indipendente” nelle scelte e nelle esecuzioni della serie “prendere o lasciare”.

Underwater Sunshine miscela quindici brani di artisti del calibro di The Byrds, Fairport Convention, Big Star e altri meno conosciuti. La bella voce di Duritz e il suono dei compagni, estremamente compatto e pulito, rendono impossibile la scelta delle migliori, tutte sono di buon livello con una manciata di ottime, comunque tutte ben riuscite.

In sostanza, Sunshine Underwater è un’omaggio alla musica degli altri e soprattutto alla musica in generale, un omaggio che, visto che la “personalizzazione” e la maestria con cui è suonato e arrangiato, lo rende uno dei lavori più belli della loro discografia.

#duemiladodici

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Neil Young è un artista imprevedibile, poliedrico, eclettico, dalle mille personalità. Un musicista che non finirà mai di stupire.

Così come alle sue produzioni più celebri degli anni settanta, dense di sapori e climi californiani, fece seguire musica sperimentale, uscendo poi con un disco di country nashvilliano e subito dopo con un episodio di hard rock, ora (siamo nel 1992) dopo “Freedom” (quasi interamente acustico) spiazza tutti con un doppio album dal vivo con il suo gruppo storico, i Crazy Horse, di tagliente, violento, sudatissimo rock americano.

Da subito ci si accorge che il sound è tirato, tostissimo, con chitarre elettriche lancinanti accompagnate da una asciutta ma potentissima ritmica. Questa immediatezza comunicativa, questo mostrarsi nelle intenzioni fin dalle prime note, questo stravolgimento dei vecchi hits, questa personalissima interpretazione dei brani lo fa accostare in maniera inequivocabile al miglior Bob Dylan, dal quale il “nostro” canadese ha preso molto e non solo dal punto di vista musicale; non a caso, tra i pezzi di questo “Weld” compare una versione davvero strana, ma non per questo poco affascinante, di “Blowing In The Wind”. Semplice omaggio al vecchio maestro o qualcosa di più?

L’album offre quasi due ore di grande musica, in cui Neil Young propone sedici brani tratti dal repertorio presente e passato. Accompagnato dai fidi “Crazy Horse”, Young riesce a creare un lavoro dal sapore agrodolce di grande fascino ed efficacia.

La bellezza delle composizioni è comunque così assoluta che anche chi avrebbe per istinto gusti musicali tesi verso sonorità più morbide o maggiormente sofisticate si fa trascinare dalla forza e dall’impatto dei Crazy Horse.

L’album si fa amare sin dal primo ascolto e riconferma il talento artistico di un personaggio che persegue, con cocciutaggine, la sua strada al di fuori dei classici compromessi e dei pasticci tipici del mercato discografico.

Il più bel album dal vivo di Mr. Neil Youg (& Crazy Horse), uno dei più bei album dal vivo della storia della musica rock. Rendiamo dunque onore e gloria al vecchio Neil.

#millenovecentonovantuno

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Live Dead è il primo album dal vivo della band che più di ogni altra ha costruito la propria immagine sui “live”. Nella loro discografia i dischi dal vivo hanno raggiunto quelli in studio e senza dubbio sono destinati ancora a crescere. Live Dead è un live un po’ speciale non solo perché è stato registrato con una platea di amici e non con un pubblico pagante ma soprattutto perché è un disco di passaggio, “il” disco di passaggio dagli Acid Tests e dalla San Francisco “sixties” verso il mondo nuovo, verso i settanta, anni più complicati e grigi.

Nel ’69 i Dead avevano appena abbandonato il quartier generale di Haight Ashbury e si erano spostati a nord, in campagna, alla ricerca della quiete e delle “buone vibrazioni” che nella città della baia, ormai sconsacrata, non poteva più dare. Con loro, anche la musica aveva cambiato domicilio, spostandosi dallo spazio astrale e psichico ai prati e alle colline di casa, dalle improvvisazioni elettriche alle semplici melodie country folk.

Nella sua magrezza assai poco Dead (settantacinque minuti su due LP, quando un “normale” show durava già allora più di tre ore), il Live rende la ricchezza e l’eccitazione del periodo, il “questo” e “quello” che Garcia e i suoi si stanno impegnando a fare. Ci sono schegge del passato prossimo (Saint Stephen) e folgoranti novità (Dark Star), ruminazioni sonore a oltranza (Feedback) e puntigliose rivisitazioni blues (Death Don’t Have No Mercy), in colorati “fili” sonori grossi e lunghi, brani di otto, dieci, venti minuti. C’è il classico suono Dead, sottile e sfuggente, tanto che non si ha mai capito perché il gruppo si dotasse di amplificazioni enormi e d’avanguardia se poi la musica era così pallida e spettrale: e c’è il gusto del gioco, del dilungamento, della piccola avventura da inventare sul momento, che è un po’ il segreto della storia Dead e la molla che anima tanti loro eredi, a cominciare dai Phish.

Due sono i brani che più hanno contribuito a insediare Live/Dead nella Hall Of Fame del rock. Uno è Turn On Your Love Light, uno swingante Bobby Pland subito tra i preferiti del pubblico. Dal vivo era la passerella di “Pigpen” McKernan, il percussionista che rappresentava l’anima spontaneista e “freak” del gruppo: che non solo cantava, ma la usava come spazio personale per improvvisati rap e storie di vita. L’altro clou è Dark Star, il lungo volo chitarristico di Garcia e Weir dove in gioco è più il sudore e swing di Love Light ma un “sballo” più sottile, un viaggio magico e profondo.

Registrato nel ’69, il 26 gennaio all’Avalon Ballroom e il 27 febbraio al Fillmore West a San Francisco, il disco dai quattro lati (del vinile s’intende) “colorati” come tavolozze, ci offre un flusso sonoro di blues, psichedelia, improvvisazione, sperimentazione o meglio una combinazione di tutti questi elementi, amalgamati come solo loro riescono a fare. Un grande progetto riuscito, e non a caso quella Stella Scura ha continuato a mandare la sua luce nei concerti Dead sino alla fine, ogni sera abbagliante e sempre diversa.

#millenovecentosessantanove

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A sei anni dall’ottimo Well never turn back e a tre dal buon You are not alone, ritorna Mavis Staples con “One True Vine”, quattordicesima incisione della sua ultra quarantennale carriera.

Da cantante gospel qual’è, è ancora la fede il comune denominatore dei suoi testi, ma è sempre la sua meravigliosa voce a renderli superlativi. A fronte dei suoi settantaquattro anni, la Mavis non mostra segni di decadimento ma anzi, come i migliori vini rossi, migliora col tempo.

Continuando la collaborazione artistica con Jeff Tweedy leader dei Wilco, iniziata con “You Are Not Alone” nel 2010, di cui è produttore, anche questa volta la Staples riesce a dare il meglio di sé. Fin dalle prime note è palpabile la passione religiosa per il Vangelo e il suo credo incrollabile ma è poi la sua voce e il feeling che riesce a creare che sanno rendere grandi le canzoni e farle apprezzare anche ai più atei ed agnostici. E’ proprio questa la grandezza dell’artista, una donna che sa esattamente come trovare l’anima di ogni lirica e consegnarla con estrema naturalezza, sincera ed onesta.

L’album cresce di ascolto dopo ascolto, ha un effetto magico che riesce a trasportare e soprattutto ad elevare anche lo spirito meno sensibile… che poi è quello che la buona musica dovrebbe fare, e (anche) in questo disco, la Grande Mavis Staples colpisce in pieno. One True Vine è un ottimo disco ed è soprattutto consigliato alle anime in cerca di pace.

#duemilatredici

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