D͏i͏-s͏p͏e͏n͏s͏a͏

Divita

Dispensa

Liberi come farfalle, come il vento, come un pensiero. È così grande il desiderio di sentirsi liberi da essere a volte addirittura paragonato alla felicità o da diventare un obiettivo, un ideale o persino un mito.

Intesa come possibilità di agire e di scegliere senza costrizioni né condizionamenti o come mancanza di vincoli e confini estesa all’infinito, per alcuni la massima affermazione della propria volontà e della individualità, la libertà è sempre stato uno dei principi universali a cui tendono tutti gli esseri umani. Tutti vogliono sentirsi liberi: liberi di fare ciò che si vuole, liberi dalle preoccupazioni, dai ruoli sociali, dalla sofferenza, liberi di non faticare, di avere ogni cosa, di andare dove si vuole, di poter dire tutto ciò che passa per la testa. Uno dei più grandi paradossi, tuttavia, è quello di legare la libertà all’avverarsi di specifici obiettivi o alla realizzazione di determinate condizioni.

Pensare, ad esempio, di essere liberi quando non si dovranno più pagare le tasse, non ci renderebbe forse schiavi del denaro che vorremmo poter tenere per noi? O concepire la libertà come la mancanza di orari e di regole, non ci priverebbe inesorabilmente della possibilità di organizzare e di coordinare la nostra vita all’interno di una comunità? Sembra paradossale ma la ricerca della libertà può rischiare di diventare una schiavitù. Cercare di togliere barriere e limitazioni, ci obbliga a porre in atto dei meccanismi di eliminazione che ci legano al loro esito, incatenandoci all’oggetto che ci impedisce di sentirci liberi. Affermare la propria libertà all’interno di una comunità, come il mondo in cui viviamo, è inevitabilmente legato alla scelta di mettere liberamente in condivisione con gli altri una parte della propria libertà per poter costruire la libertà collettiva. Per questo sono nate le regole, gli accordi e addirittura le società, luoghi dove lo spazio di incontro tra diverse libertà individuali diventa un arricchimento reciproco trasformandosi in quella che viene chiamata collettività.

Siamo nati liberi, come frutto di una emanazione libera di amore della vita, incontenibile e potente e ogni volta che nasce una persona, il mondo si trova ad affrontare il modo di creare nuovo spazio, costruire una nuova libertà, all’interno delle libertà già esistenti. Tutto è connesso e si espande grazie all’arbitrio che liberamente agisce allargando le possibilità e la condivisione sociale, mettendo in connessione tante libertà e diverse capacità, costruendo così nuove opportunità liberanti. Essere liberi non vuol dire volare come un uccello, una possibilità che non fa parte del patrimonio umano, ma significa poter cercare il modo di elevarsi in cielo grazie alla libertà di ingegnarsi e di utilizzare gli strumenti offerti dall’ambiente e dal mutuo concorso nella ricerca di modi diversi per volare. La libertà è definibile solo all’interno delle nostre possibilità, oltre queste si tratta di capacità che possiamo acquisire con l’impegno e la collaborazione di cui siamo liberi di disporre. Non è la fantasia a stabilire i limiti alla nostra libertà ma la capacità, e siccome le capacità sono presenti sotto forma di doti, di apprendimento o di condivisione, la libertà è uno stato che tutti possediamo ma in maniera diversa e che si può ampliare soprattutto all’interno di una dimensione collettiva.

L’errore più grave che si possa fare è di confondere la libertà con il desiderio. Il desiderio slegato dalla possibilità diventa illusione, schiavitù e aspettativa, presupposti dell’infelicità. La vera libertà che tutti abbiamo è quella di poter partecipare alla costruzione della libertà del mondo, del nostro cerchio di vita, del nostro vicino, una libertà che ci permette di elevare il nostro ruolo nella storia, come costruttori sempre più liberi e liberatori di compiere atti gratuiti e vivificanti, dopo aver riconosciuto in ognuno di noi la libertà di prendere parte alla costruzione del cammino del mondo.

Non possiamo camminare sull’acqua ma siamo liberi di costruire una barca per farlo. Non sappiamo parlare tutte le lingue del mondo ma abbiamo la libertà di impararle. Non possiamo cambiare il futuro ma possiamo decidere come viverlo. La libertà è un punto di partenza, non di arrivo. Dal momento in cui ci sentiamo liberi apriamo il nostro mondo ad un’infinità di possibilità e ci liberiamo dai condizionamenti che vorrebbero imporre dei modelli di libertà che invece rischiano di diventare catene. Liberi di avere ogni cosa, di non avere regole, di fare ciò che ci va, di non soffrire: non sono queste libertà ma dipendenze ad una idea di felicità che non esiste. La libertà non è che una possibilità di essere migliori, un’autonomia di pensiero che ci permette di non desiderare ciò che non ci è possibile avere, una consapevole presa di coscienza dell’infinita essenza del nostro essere e delle sue potenzialità. Essere liberi ha molto di più a che fare con uno stato mentale che con delle condizioni o dei compromessi.

Tutti, presto o tardi, abbiamo avuto la sensazione che qualcosa ci chiamasse a percorrere una certa strada nella vita: questo è il richiamo della libertà. Ogni atto compiuto liberamente si incastra nel mosaico che costruisce l’armonia universale.

Assaporiamo una parte minuscola di questa vita ma sappiamo che c’è molto di più: è ciò che ci lasciamo sfuggire a determinare la nostra capacità di sentirci liberi. La libertà non è il volo della farfalla, è la farfalla.

Luca Streri #Divita

HomeIdentità Digitale Sono su: Mastodon.uno - Pixelfed - Feddit

Dispensa

Questo è il testo della lettera che il cosmonauta russo Yuri Gagarin scrisse alla moglie Valentina ed alle sue due figlie, alla vigilia del primo viaggio dell’uomo nello spazio. Sapeva che stava per affrontare una prova molto rischiosa.

«Salve, mie care ed amatissime Valečka, Lenočka e Galočka! () Ho deciso di scrivervi qualche riga, per condividere con voi la gioia e la felicità che ho provato oggi. Oggi la commissione governativa ha deciso che sarò io il primo uomo ad andare nello spazio. Sapessi, cara Valjuša (), come ne sono felice, e vorrei che anche voi lo foste insieme con me. Hanno affidato ad una persona comune come me un compito di così grande importanza per il nostro Paese: tracciare la prima strada nello spazio! Si può sognare qualcosa di più grande? Questo rappresenta una nuova era!

Devo partire tra un giorno. Durante questo periodo voi starete facendo le vostre cose di sempre. Ho un grosso fardello sulle spalle. Avrei voluto restare prima un po’ con voi, parlare un po’ con te, ma ahimè è tardi. Tuttavia, io vi sento sempre vicini, qui con me. Ho piena fiducia nella tecnica: la navetta è ben collaudata, sicuramente non succederà nulla. Però capita a volte che l’uomo scivoli su una strada liscia e si rompa l’osso del collo. Può essere che anche nel mio caso possa accadermi qualcosa, ma io non credo che succederà. Se però dovesse accadere, vi chiedo, e soprattutto lo chiedo a te, Valjuša, di non farvi sopraffare dal dolore. Fa parte della vita, e nessuno può essere sicuro che domani non sarà investito per strada da una macchina. Prenditi cura delle nostre bambine, amale come le amo io. Educale in modo che non diventino delle scansafatiche o delle viziate, ma delle persone vere che non abbiano paura di affrontare i momenti duri della vita. Fai di loro delle persone degne di questo nuovo sistema sociale, il comunismo. In questo ti aiuterà lo Stato. Vivi la tua vita secondo coscienza, ed agisci come riterrai opportuno fare.

Non ti lascio alcun obbligo, e non ho il diritto di farlo. La lettera sta assumendo un tono un po’ troppo triste, quasi da lutto… ma no, dai, non andrà così. Spero che non vedrai mai questa lettera, e che mi vergognerò con me stesso per questo momento di debolezza passeggera. Ma se dovesse succedermi qualcosa, tu devi sapere tutto, fino alla fine. Ho vissuto la mia vita onestamente, sono sempre stato sincero ed ho fatto del bene alle persone, anche se non è stato tanto. Una volta, da piccolo, lessi le parole di V. P. Čkalov: “Se devo esserci, devo essere il primo”. Ecco, cercherò di pensarla come lui, e lo farò fino alla fine. Valečka, voglio dedicare questo volo a tutte le persone che fanno parte di questo nuovo sistema sociale, il comunismo, a cui noi abbiamo già aderito, e voglio dedicarlo anche alla nostra grande Patria ed alla nostra scienza. Spero che tra qualche giorno saremo ancora insieme e saremo felici.

Valečka, non dimenticare i miei genitori; se ne avrai la possibilità, aiutali. Manda loro un grande saluto da parte mia. Che mi perdonino per il fatto che non sanno di tutto questo, non ho potuto farglielo sapere. Beh, è tutto. Arrivederci, miei cari. Vi abbraccio forte forte e vi mando un bacio.

Un caro saluto. Il vostro papà, Yura» 10/04/1961

Valentina Ivanovna lesse questa lettera solo 7 anni dopo, alla scomparsa del marito avvenuta nell’incidente aereo del 27 marzo 1968.

(*) Valečka, Lenočka e Galočka sono dei diminutivi dei nomi russi Valentina, Elena e Galina. Valjuša è un altro diminutivo di Valentina. Yura è il diminuitivo di Yuri (N.d.T.)

Traduzione di Marco Massacesi #Divita

HomeIdentità Digitale Sono su: Mastodon.uno - Pixelfed - Feddit

Dispensa In Colorado c’è un uomo che è a dir poco infastidito dal rumore degli aerei che arrivano e partono dall’aeroporto di Denver, a una cinquantina di chilometri da casa sua. Fino a che punto lo irritano, esattamente? Secondo un recente studio, nel 2015 ha mandato 3.555 dei 4.870 reclami ricevuti dall’aeroporto. E non è un caso unico. Cinque persone hanno mandato il 61 per cento dei reclami all’aeroporto di Portland, e a Washington “due persone che abitano nella stessa casa” in un anno hanno inviato 6.852 lettere di protesta all’aeroporto nazionale Ronald Reagan (a proposito del rumore, intendo. Lo studio non fa parola di quanti si sono lamentati perché è stato dedicato a Reagan).

Essendo io stesso un habitué dei reclami ufficiali, confesso di provare una certa ammirazione per queste persone. Sì, lo so che una delle caratteristiche fondamentali della follia è ripetere sempre la stessa cosa aspettandosi un risultato diverso. Però rispetto la loro sfida cosmica. Il mondo è assurdo e irritante, ma almeno qualcuno ha abbastanza rispetto per se stesso per continuare a protestare contro questa realtà.

Non che questo lo renda più felice. I risultati della ricerca dimostrano che l’irritazione e le lamentele si autoalimentano. Obiettare a qualcosa che non possiamo controllare provoca una momentanea sensazione di catarsi, ma in genere peggiora le cose, aumentando l’attenzione che dedichiamo a quel problema, il che lo rende ancora più invadente. Finiamo per avere una percezione più acuta del rumore successivo e per irritarci ancora di più quando arriva.

La vita può essere meravigliosa, orribile o una via di mezzo, ma in sottofondo c’è sempre qualcosa che non va

Siamo stressati anche quando il rumore non c’è, perché rimaniamo in tensione, aspettando che il silenzio sia interrotto. A quel punto è comprensibile che i reclami diventino centinaia: lamentarsi alimenta l’irritazione. È più facile rendercene conto se pensiamo a questi piccoli fastidi come difficoltà che incontriamo in un rapporto, in questo caso si tratta del nostro rapporto con l’ambiente. Inveire contro queste cose è come disamorarsi del proprio partner e continuare a litigare senza scopo. È mai servito a qualcosa?

Come al solito, i buddisti l’hanno capito prima di noi. La “prima nobile verità” del buddismo spesso è resa con l’espressione “la vita è sofferenza”, ma questa traduzione è un po’ troppo melodrammatica, fa pensare a una continua agonia, mentre in realtà per la maggior parte di noi, grazie al cielo, non è sempre così. La parola usata nella lingua originale, dukka, significa qualcosa che si avvicina di più a “non appagamento”. La vita può essere meravigliosa, orribile o una via di mezzo, ma in sottofondo c’è sempre qualcosa che non va: o quello che sta succedendo è spiacevole oppure è piacevole ma sappiamo che prima o poi finirà. Quelli che si lamentano del rumore degli aerei sono immersi fino al collo nel dukka, sono infelici quando passa un aereo e infelici quando non passa, perché sanno che quel silenzio non durerà.

Una delle grandi intuizioni del buddismo è che l’insoddisfazione non deriva dalle situazioni stesse, ma dal modo in cui pensiamo di raggiungere la felicità: cercando le situazioni giuste e sperando che durino per sempre. È una ricerca destinata a fallire, perché niente dura per sempre. Gli aerei vanno e vengono, e si può essere felici solo non facendoci caso. Anche se penso che Budda deve aver fatto un’eccezione per “l’allegro cinguettio” della suoneria del Samsung. Quello è veramente insopportabile.

di Oliver Burkeman, The Guardian, Regno Unito – (Traduzione di Bruna Tortorella) #Divita

HomeIdentità Digitale Sono su: Mastodon.uno - Pixelfed - Feddit

Dispensa “Se non possiamo cambiare il mondo, possiamo far sì che la nostra condotta umana possa navigare oltre l’egoismo, riservando un pezzo di felicità. Non è un’utopia inarrivabile, ma una cosa possibile”. Jose ‘Pepe’ Mujica, presidente emerito dell’Uruguay torna in Italia per promuovere il libro “Una pecora nera arriva al potere” e incanta tutti con il suo discorso da “rivoluzionario tranquillo”.

“Non sprecate la vita nel consumismo, trovate il tempo di vivere per essere felici. Si è liberi quando si fa qualcosa che piace e che dà soddisfazione”, ha detto agli studenti che l’hanno incontrato a Roma nei giorni scorsi.

Ottantuno anni, personalità apprezzata in tutto il mondo anche per aver rinunciato all’epoca della presidenza, al 90% del suo stipendio continuando a vivere nella sua fattoria, da anni viene definito come il teorico della felicità che ha cambiato il paese uruguayano.

Un lungo discorso sul capitalismo, sulla cultura e sulla libertà ma non “un’apologia della povertà o del vivere sotto una capanna, ma un monito al non essere così stupidi da trasformare il tempo della nostra vita in un inutile mercatino e a riservarci lo spazio per la disperata lotta per la felicità umana”.

#Divita

HomeIdentità Digitale Sono su: Mastodon.uno - Pixelfed - Feddit