GRIDO muto (podcast)

pontremoli

⚡ Fibromialgia, Artrite e Burnout: la mia battaglia contro l'esaurimento cronico continua! 💪🌟

“[...] Tutti i malati invisibili nel nostro Paese stanno subendo una ENORME INGIUSTIZIA: perché la loro capacità di affrontare la vita è ridotta. Così come per una persona con disabilità può essere ridotta la capacità motoria, per noi è ridotta la capacità di sopportare il peso di qualsiasi cosa, ma sembra un nostro capriccio; sembriamo sfaticati agli occhi degli altri. Niente di più sbagliato!”

Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 8), anziché leggerlo, puoi farlo qui:

Gli anni delle scuole superiori, tra il '91 e il '96, sono stati molto belli da un punto di vista della mia crescita personale e musicale, ma anche molto difficili per tutto il resto. Oggi ho il sospetto che le malattie iniziassero a manifestarsi, ma in quegli anni non potevo neanche immaginarlo. In questo episodio ti racconto dell’esaurimento, una condizione psicofisica che chi soffre di malattie invisibili tende a vivere molto più facilmente.

[...]

Quel periodo lo avevo iniziato in bellezza, di ritorno da un viaggio in Sardegna in cui eravamo stati a trovare i nostri nonni paterni e, naturalmente, anche in visita allo splendido mare della regione. Durante quella vacanza, ero andato a supplicare un vicino di casa dei nonni perché mi prestasse la sua chitarra per un pomeriggio. Non riuscivo a stare senza! Ora, non vorrai fare dei paragoni azzardati; ti dico solo che questo succedeva anche a Jimi Hendrix, a suo tempo, uno dei chitarristi più influenti della storia.

Oggi lo capisco perfettamente: suonare, infatti, è un po' come una droga. E a proposito di droghe, proprio in quel periodo avevo iniziato ad assumere farmaci regolarmente per qualche mese. Avevo dei dolori alle ginocchia, un po' forti. Ero giovanissimo; non poteva essere niente di serio, io mi dicevo. Il medico curante mi aveva dato del Nimesulide, ma i dolori non passavano e continuai a prenderlo a cicli per molte settimane. Quando finalmente il male passò, venne attribuito a “qualcosa di legato allo sviluppo”.

A te sembra normale che un ragazzino di 13 anni debba prendere il Nimesulide a cicli? Non lo era, e già questo, forse, avrebbe dovuto fare scattare qualche campanello d’allarme. Ma poi era tutto normale; si andava a giocare a pallone e al fiume a nuotare nell'acqua gelida, e non ne risentivo più di tanto.

L'idea di iniziare le superiori mi aveva messo un certo fermento addosso, anche se la scuola di ragioneria ad indirizzo informatico non era stata una vera e propria scelta, ma piuttosto un obbligo imposto dalla scarsissima varietà che Pontremoli poteva offrire. Diciamo che per me era la meno peggio e credevo che mi avrebbe aiutato, più avanti, a trovare lavoro facilmente.Nonostante tutto, mi restava un senso di entusiasmo speciale, come mi capitava sempre prima di iniziare qualsiasi cosa.

Le mie aspettative furono deluse molto presto, perché se alle scuole medie avevo avuto sempre voti molto alti, alle superiori mi fu subito evidente che la musica era cambiata. Ci voleva molto più impegno e quando i primi voti pessimi cominciarono ad arrivare, non la presi molto bene. Cominciai a pensare di non essere adeguato e ogni giorno, paradossalmente, anziché dedicare più tempo allo studio, mi buttavo sull'unica cosa che mi dava un po' di gioia: la musica.

Nel '91, io e mio fratello maggiore avevamo messo insieme le forze e acquistato il nostro primo lettore CD, una cosa del tutto nuova che consentiva di ascoltare la musica con una qualità pazzesca, una qualità che oggi non abbiamo più, sostituita dalla bassa qualità dei vari servizi di musica in streaming.

Quando uscivo da scuola, esausto, la corriera impiegava più di un’ora a riportarmi a casa, perché doveva fare il giro di tutti i paesi della valle e il nostro era quello più in alto. Nei giorni peggiori ci impiegava un'ora e tre quarti. Da ottobre in avanti, mi sedevo a tavola per mangiare, da solo, alle 14:35 del pomeriggio, e non facevo in tempo a finire il mio piatto di pasta che il sole calava dietro la montagna del paese. Da noi, la notte arrivava molto presto. Io mi sdraiavo sul letto, con delle cuffie di ottima qualità, ad ascoltare l'unico CD che avevo: il concerto dei Deep Purple a Stoccolma del 1970. Può sembrarti strano, ma tra le urla di Ian Gillan e gli assoli di chitarra strazianti di Ritchie Blackmore, mi addormentavo quasi subito. Mi calmavano; e se conosci quel gruppo capirai quanto sono strano!

Alla fine del disco, il mio cervello percepiva il silenzio e allora mi svegliavo quasi subito, con un senso di smarrimento e solitudine. Dov'era andata quella musica così bella? E poi via, si iniziava a studiare. Facevo tutto in fretta, il più in fretta possibile, per liberarmi da tutte quelle cose che mi interessavano davvero poco e potermi così dedicare finalmente alla musica.

Nel periodo natalizio, per la prima volta io e il mio gruppo andammo a suonare per altri: una festa di Capodanno tra ragazzi, credo non più di un centinaio di persone. Nonostante avessimo solo chitarre, facemmo del nostro meglio e fu davvero emozionante, così tanto da essere sul punto di bloccarmi, ma tutto andò bene.

Al secondo anno di scuola accadde una cosa terribile: i voti stavano prendendo una brutta piega. Fui costretto ad aumentare l'impegno e così, durante l'inverno, oltre a non vedere più il sole e a rinunciare anche alle passeggiate nei boschi con il mio cane, dovetti anche intensificare lo studio, sacrificando la passione musicale.

Verso la fine della primavera, ero completamente scarico. Non riuscivo più a ragionare lucidamente; mi sembrava che il peso di ogni cosa del mondo fosse sulle mie spalle e che la condizione che stavo vivendo, la scuola, non avrebbe mai avuto fine. Pensavo ai duri anni che avevo ancora davanti e poi all’università; ai faticosi viaggi in corriera e alla musica che avrei dovuto sacrificare. Di fronte a una montagna così grande da scalare, mi chiedevo se la ricompensa, sulla cima, sarebbe stata abbastanza da giustificare la scalata. Decisi che...no, non ne valeva la pena.

Volevo abbandonare gli studi.

Fortunatamente, quella Santa donna che è mia madre, dopo discussioni estenuanti anche per lei, mi convinse a non farlo: e meno male, perché con le conseguenze di quel diploma sto mangiando ancora oggi. Mi disse di continuare, di fare quello che potevo e poi avremmo visto.

Non so se tu, che mi stai ascoltando, abbia mai usato audiocassette. Te le ricordi? C'era dentro un nastro che si arrotolava mentre le si ascoltavano, come la nostra vita. Ma alla fine del nastro, la cassetta si poteva riavvolgere e ricominciare, o cambiare lato, mentre per noi il tempo scorre solo in una direzione. In quella cassetta, come in tutte le altre, c’era un foglietto dentro la custodia in plastica. Mio fratello aveva scritto tre parole sul dorso di quel foglietto: “Led Zeppelin” e un 4 in numeri romani.

Ma sì, proviamo a sentire cos'è!

Mi misi sul letto, cuffie addosso, e premetti “Play”. In quel preciso istante, la mia vita musicale cambiò per sempre. La prima canzone della cassetta era qualcosa che non avrei mai immaginato neanche in 100 vite: qualcosa di alieno, possiamo dire. Una canzone assurda, in cui una voce sguaiata introduceva gli strumenti che suonavano una melodia quasi irritante, con il batterista che andava per conto suo, senza seguire il tempo degli altri. “Ma che roba è?” Poi, tutti zitti. Di nuovo quella voce insopportabile, la melodia stranissima di prima e via così fino alla fine.

Sembra assurdo, ma c’era qualcosa di veramente ipnotico in quella melodia, tanto che ci arrivai in fondo. La seconda canzone era orecchiabile, una specie di rock and roll bello carico, la terza di nuovo strana, la quarta un capolavoro: “Stairway to Heaven”. Credo che chiunque l'abbia ascoltata almeno una volta nella vita. Alla fine di quell’album, avevo il cervello un po’ sconvolto, ma dentro di me avevo gli occhi spalancati e la bocca aperta. Evidentemente, quella roba strana era musica; si poteva fare anche così.

Per qualche tempo non ascoltai altro: quella voce sguaiata, la chitarra possente, il basso con i suoi ritmi incalzanti e un batterista che, per la prima volta da che avevo memoria, era un piacere ascoltare e non era solo qualcosa in sottofondo che dava il tempo. Incredibile! Nessuno dei miei conoscenti condivideva con me la passione per questo strano, disturbante gruppo. Dall’esterno sarò sembrato un pazzo, sempre con le cuffie in testa ad ascoltare qualcuno che urla su suoni strazianti. Questa mia nuova passione mi isolava ancora di più dal mio mondo di allora. Scoprii che restare calmo, solo con me stesso a fare qualcosa che amavo, mi aiutava a concentrarmi su qualcosa, dimenticando tutto il resto. Nessuno capiva, ma non mi importava: nel poco tempo libero, scimmiottavo i Led Zeppelin con la chitarra, e questo mi bastava a sentirmi meglio.

Paradossalmente, in questo isolamento, ritrovai me stesso. Piano piano, rifugiandomi in quegli ascolti, il periodo terribile passò e l’estate arrivò nuovamente, carica di novità stimolanti ed eventi fondamentali per la mia evoluzione musicale.

E dal momento che avevo ritrovato un minimo di serenità, con mia sorpresa le cose andarono meglio anche a scuola. Alla fine, non ci fu nessuna conseguenza pesante sul mio curriculum scolastico. Mancavano solo tre anni alla fine; ormai ragionavo così.

Ricordo sempre con tanta emozione quell’anno, perché è stato quello in cui ho incontrato la prima delle situazioni insormontabili della vita. In quel caso, in qualche modo ce l’avevo fatta, come ce l’avrei fatta in futuro. Ma con il passare del tempo avrei notato che ogni botta sarebbe stata più difficile delle precedenti da superare.

Ogniqualvolta mi si presenta una situazione senza via d’uscita, è come rivivere la crisi in corso più tutte le precedenti, a partire da quella in cui i Led Zeppelin e la chitarra mi avevano salvato. Ogni volta è più difficile uscirne, e nemmeno la musica può nulla, oramai.

Oggi, come credo che capiti ad ogni malato invisibile, vivo crisi di fatica ed esaurimento continuamente. A volte, faccio persino fatica a riconoscerne una dalla successiva.

Quando ti alzi terribilmente stanco, e ogni giorno hai meno energie di quando sei andato a letto, è facile che qualsiasi cosa ti sembri una situazione senza via d’uscita: la famiglia, se ne hai una; magari dei figli da mandare a scuola, che vanno seguiti, ma anche un animale domestico. Qualsiasi cosa, anche piccola, ti sembra – ed è – difficilissima da completare. Figuriamoci il lavoro. Eppure è così importante per me, terminare queste cose. C’è già una brutta situazione in corso, della quale non si vede la fine. E così, ogni cosa incompleta o che non si può finire per me diventa un’eco della mia vita da ammalato, situazione che non finirà mai. Almeno ciò che posso, ho bisogno di vederlo chiuso, finito, a posto.

Le cose però possono accumularsi, essere sempre di più, sempre più pesanti. Non completarsi.

Se non hai particolari patologie e pensi che tutte queste cose che ti ho elencato prima siano già pesanti anche per te, figurati com’è la vita per me, e immagina com’è per tutti gli altri malati invisibili.

Sì, perché a noi non vengono fatti sconti. La famiglia la devi comunque gestire. La spesa. I traslochi. I genitori anziani, i suoceri. La cura di te stesso, il mutuo da pagare. Figurati poi com’è lavorare in queste condizioni: scadenze, impegni, ingegno per trovare soluzioni sempre nuovi a problemi sempre diversi, mentre il mal di testa è sempre lì, la tua difficoltà a concentrarti non sembra lasciarti andare, e chiunque ti chiede qualcosa che si aggiunge alla lista di cose da fare, sempre urgenti, che non te ne fanno completare altre. Questo, almeno, in ufficio. Non oso pensare a chi svolge un lavoro fisico: muratori, operai, facchini, agricoltori, eccetera!

Ecco perché dico che tutti i malati invisibili nel nostro Paese stanno subendo una enorme ingiustizia: perché la loro capacità di affrontare la vita è ridotta. Così come per una persona con disabilità può essere ridotta la capacità motoria, per noi è ridotta la capacità di sopportare il peso di qualsiasi cosa, ma sembra un nostro capriccio; sembriamo sfaticati agli occhi degli altri. Niente di più sbagliato!

Ricorda tutto quello che ti ho raccontato finora, e che, se mi hai seguito con attenzione, dovrebbe cominciare a prendere una forma più chiara. Pensa a come dev’essere vivere così, sempre in balia di un problema fisico che, lentamente come il ghiaccio, ti penetra nell’animo. Capisci ora perché si dice che i malati invisibili tendano ad isolarsi? Capisci perché siamo tendenzialmente nervosetti?

Se mi stai ascoltando ma non soffri delle patologie che ti sto raccontando, questo mi rende felice, ma spero di riuscire a trasmetterti la conoscenza su quello che noi invisibili viviamo tutti i giorni.

Se invece ti riconosci in questo eterno ciclo di esaurimento e ripresa, magari anche depressione, sappi che ti capisco benissimo. Non servono patologie croniche per esaurirsi o cadere in depressione, e anche queste, lo so, sono malattie invisibili, per gli altri non esistono.

Fatti coraggio, anche se so che è difficile, trova i tuoi Led Zeppelin.

Per me, almeno allora, è stata essenziale la musica: trova i tuoi Led Zeppelin. Per te, il palo in cui aggrapparsi durante la tempesta può essere qualcos’altro: magari coltivare un fiore, leggere un libro, andare continuamente in un luogo in cui ti senti un po’ meglio. Tutto aiuta, anche se lì per lì ti sembra che sia inutile.

Bisogna continuamente ritornare a fare qualcosa che ci fa stare un po’ meglio, attingere alle scorte della bellezza, della tranquillità senza sentirsi giudicati. Credo che se costruirai queste condizioni, gradualmente potrai stare, se non bene, almeno un po’ meglio.

Stammi bene!

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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La Vista 👁️: perché fibromialgia 🤕 e artrite 🦴 possono comprometterla!

In questo episodio ti parlerò della vista, di come sia difficile il mio rapporto con questo senso fondamentale e di come abbia influenzato la mia vita anche in passato.

Se vuoi ascoltare anziché leggere, puoi ascoltare o seguire qui l'episodio di questo podcast (il n. 4):

[...]

Non so tu, ma una delle applicazioni che io uso più spesso sullo smartphone si chiama lente di ingrandimento. L'applicazione non fa altro che usare la fotocamera dello smartphone per ingrandire quello che si inquadra. Sembra una piccola cosa, ma a 50 anni e con le mie patologie è una cosa fondamentale. Ho due paia d'occhiali, come tutte le talpe dei fumetti e molti dei cinquantenni: uno per vedere da vicino, che mi serve per leggere o guardare gli ingredienti di un prodotto, e l'altro per tutto il resto, incluso il mio lavoro al computer. Gli ottici insistono sempre per farmi dei progressivi, ma per il momento sono riuscito a non cedere. Mi sembrerebbe un segno di sconfitta.

Ci sono però dei giorni in cui il mio malessere è così importante da coinvolgere anche la vista, e lì non ci sono occhiali, app o progressivi che tengano. Sono stati fatti mille controlli, ma le lenti che utilizzo sono già le migliori possibili per me. Quando sto davvero male, la mia vista si offusca, le prestazioni dell'occhio calano e non riesco a leggere niente che non sia scritto molto, molto grande, neppure con gli occhiali giusti. Se dimentico a casa gli occhiali per leggere da vicino, sono menomato. In effetti, certe cose non le posso proprio fare.

All'inizio non lo capivo; non capivo perché la mia vista calasse così all'improvviso e poi, il giorno dopo, magari andasse benissimo. Pensavo che il calo fosse dovuto all'età, anche se era stato improvviso. Solo che poi la vista tornava e mi dicevo: “Ma porco cane, com'è che ci vedo di nuovo così bene? E ieri che è successo?” Ieri non riuscivo a capire quale fosse l'evento che scatenava questo calo della vista. Mi ci è voluto un po' a capire che il calo della vista coincideva con quei giorni maledetti, quelli in cui il dolore non è facilmente gestibile. E ti dirò di più: in quei giorni anche le immagini in movimento e le luci forti aumentano il mio malessere, mi danno un fastidio tremendo, come d'altra parte anche i suoni e i rumori che non cerco volontariamente. Mi ci vuole il silenzio, lo cerco come un naufrago cerca la terra.

Altre volte la vista non cala, ma all'improvviso delle fitte terribili colpiscono gli occhi, partendo dalla base del collo posteriormente e risalendo tutto il cranio, oppure come una scarica che arriva dall'interno attraverso lo zigomo. Anche il calo della vista è una forma di degrado invisibile che non riguarda soltanto me. Una delle più comuni, forse, di cui in generale si tende a non tenere conto. Paradossalmente, il calo della vista è una cosa che non si vede, non se ne tiene conto sul lavoro, ad esempio, e non si immagina che una persona con questi problemi possa impiegare più tempo per svolgere una mansione, specialmente in ufficio o in un laboratorio in cui si lavora sui piccoli dettagli. Non ne teniamo conto neanche guidando, quando l'automobile che ci sta davanti fa una velocità che non è quella che vorremmo noi. “Dai, muoviti!” Non capiamo che quell'autista può fare quella velocità per un motivo ben preciso.

La mia vista non è mai stata al top, per dire così, anche prima che i miei problemi iniziassero. Ricordo che in seconda elementare mi portarono dall'oculista perché dalla prima fila dei banchi non vedevo bene la lavagna. L'oculista mi appioppò un paio di occhiali spessi dalla montatura scura che in varie versioni porto ancora oggi: miopia e astigmatismo, non ci facciamo mancare niente. Però, dopo, era stato molto più facile leggere le parole delle canzoni.

Nel 1985 il mio nonno materno morì. Anche lui aveva avuto problemi di vista, ma gravi. La cecità lo aveva costretto su quel divano antico troppo a lungo e, alla fine, dopo tanti anni, aveva preso a muoversi sempre meno, anche per colpa delle viuzze del paesello che erano fatte interamente di sassi. Gli mettevano molta paura di cadere e così il suo corpo era andato prima del normale, non muovendosi più. Era un uomo che aveva visto la guerra da vicino (la seconda Guerra Mondiale) e ne aveva sopportate tutte le difficoltà, dopo. Con la scomparsa della sua generazione, tutti noi avevamo perso tantissimo, ma io non me ne rendevo conto allora; avevo solo 8 anni.

Questo evento tragico cambiò radicalmente anche la mia vita.

La nonna si era anche lei consumata per l'età e per aver accudito il nonno per molti anni nella sua infermità, fino a rallentare anche lei e a fermarsi senza più riprendere la sua capacità di movimento. Nel frattempo lamentava dolori in tutto il corpo. Si sa come sono i vecchi, mi dicevano un po' tutti. Più tardi avrei capito molto meglio come si sentiva la nonna.

Ora comunque non la si poteva più lasciare sola, specialmente in una casa antica che si sviluppava su tre piani, con scale strette e scalini traballanti. Mio padre pensò a come poter fare, chiese quando sarebbe potuto andare in pensione e, con nostra sorpresa, scoprì che gli mancava poco. Fu così che lasciammo la casa di Livorno nel 1986 per trasferirci nel paesino sulle montagne insieme alla nonna.

A differenza dei miei fratelli più grandi, io ero molto felice in un primo momento, perché per me quel paesello rappresentava il posto in cui potevo giocare liberamente. Nei fine settimana ci trovavo i miei amici speciali: Danilo, Marco, Lorenzo e tutti gli altri. Come me, avevano i loro nonni o altri parenti in paese e tornavano regolarmente a trovarli. L'abbandono della casa di Livorno, però, mi mise addosso comunque un senso di pesantezza. A qualche livello capivo che stavo lasciando per sempre quella casa e tutta la mia vita ne avrebbe risentito. Stava succedendo davvero, e la scelta che avevano fatto i miei genitori sarebbe stata determinante per spingermi a fondo nel mondo della musica, anche se in quel momento non potevo ancora saperlo. Sapevo però che tra tutte le cose più care che non volevo perdere, c'era il mitico mangiadischi e per fortuna lo portai con me.

Come se non fossero abbastanza il cambio di casa, di scuola, di abitudini, la vita in un piccolo paese era molto diversa da quella che conoscevo in città. Pontremoli, già piccola, era a 20 km dal paese e gli amici che conoscevo non c'erano tutti i giorni. Non era come mi ricordavo: loro non erano lì ogni volta che c'ero io. Giustamente, avevano le loro vite da un'altra parte e iniziai a rendermene conto.

Le settimane sembravano interminabili, scandite com'erano soltanto da giorni di scuola, compiti e catechismo. Aspettavo i fine settimana con ansia. A ottobre venne a vivere con noi Jacqueline, un cucciolo di pastore tedesco dai modi aristocratici, che ci avrebbe tenuto compagnia per diversi anni. I compiti e l'amore per il mio cagnolino mi tenevano occupato, ma naturalmente anche la musica. Ascoltavo quello che passava il convento, cioè ancora sigle di cartoni, fiabe registrate su cassette che avevamo portato con noi da Livorno, e tanta, tantissima radio. A volte nei programmi radio si parlava di paesi lontani, di equilibri mondiali, di cose che non capivo bene, ma su cui passavo ore e ore a fantasticare. Ricorda che internet non c'era allora e nei giorni migliori si riusciva al massimo a sintonizzarsi su Italia 1 o a telefonare a qualche amico dal telefono fisso, quello grigio, enorme e pesante, con la ghiera che ruotava per comporre tutti i numeri.

Ogni tanto passava in tv o in radio qualche programma musicale e allora era festa grande, soprattutto quando davano qualcosa degli Europe e i loro assoli di chitarra caotica e acida trattenevano la mia attenzione. Chi non ha mai ascoltato “The Final Countdown” alzi la mano! E poi c'era anche Madonna, il mio idolo pop del momento, insieme a Michael Jackson. In breve tempo, i ritmi delle sue canzoni diventarono una parte della routine quotidiana. Nella mia testa, come ti dicevo, riuscivo e riesco ancora a riprodurre con la mente qualsiasi brano che mi piaccia, e quindi televisione o no, anche Madonna era sempre con me, con i suoi testi scabrosi per l'epoca, come la canzone “Like a Virgin”. Ero ancora nell'età dell'innocenza, ma capivo benissimo che non era una canzone per bambini.

Dopo tanti vocalizzi di Madonna e un disastro di Cernobyl, mi ritrovai alla fine della quinta elementare, come per magia.

Nei giorni successivi al disastro nucleare, ero a giocare nei campi prima che la radio ci avvertisse di non farlo. Ancora oggi mi chiedo se essermi preso la pioggia radioattiva abbia influenzato in qualche modo la mia storia clinica. Ne parlammo anche durante l'esame di quinta nel tema, ma senza capire bene la portata dell'evento. Per noi bambini, era stato poco più di un momento in cui non potevamo stare all'aria aperta nei prati e in cui certe cose non si potevano mangiare, nemmeno se erano quelle dell'orto della nonna.

Fu un'estate speciale e spensierata, tra le gite al fiume e i vari giochi con gli amici, ma come diceva De André nelle sue canzoni:

Come tutte le più belle cose, durasti solo un giorno, come le rose.

Alle medie, all'inizio, tutti mi sembravano più grandi di me, anche se avevamo la medesima età e io stesso cominciavo a irrobustirmi. Non raggiungevo più le tonalità di prima e da quell'evento mi resi conto che ormai ero grandicello. Notavo con un misto di eccitazione e stupore i cambiamenti del mio corpo: diventavo più alto, più robusto, più forte. Senza avvisare, spuntarono anche i primi peli della barba e mi dava fastidio pensare che per tutta la vita avrei dovuto raderla. Per fortuna, successivamente presi la decisione di non farlo mai più.

Le medie furono un momento molto difficile, allo stesso tempo molto importante per me. Ci voleva più sforzo per fare i compiti ed ero impegnato per molto più tempo rispetto a prima. Mio fratello continuava a mettere su dischi, anche nei lunghi pomeriggi d'inverno in cui la luce del sole spariva prestissimo.

Un giorno, tra le cose che faceva passare sul giradischi, notai che c'era qualcosa di estremamente diverso da tutto quello che avevo ascoltato fino a quel momento: un gruppo che suonava quasi esclusivamente le canzoni che piacevano a me. Atmosfere sospese, tristi, minacciose, sognanti e spirituali che si intonavano benissimo con quelle che vedevo fuori, dove le giornate nebbiose e piovose si somigliavano così tanto da sembrare tutte uguali. All'inizio, quella musica era stata qualcosa di disturbante, ma con il tempo mi parve sempre più normale. Era quella che si intonava meglio ai miei pensieri.

Il chitarrista del gruppo mi sembrava qualcosa di divino e ho questa sensazione ancora oggi. Riusciva a far produrre suoni completamente diversi tra di loro. Quella chitarra la faceva sussurrare, urlare; la faceva piangere. Riusciva a farle fare il suono di un animale e a piegare il suono per fare in modo che le transizioni da una nota all'altra fossero più dolci e armoniose. Anche quando la canzone aveva un tono imponente e la chitarra doveva farsi sentire molto bene, il suo nome era David Gilmour e me lo sarei ricordato per sempre. I Pink Floyd iniziarono così a entrare prepotentemente nel flusso dei miei pensieri musicali.

A differenza degli altri gruppi, però, era molto più difficile suonare le loro canzoni, nella mia testa, solo con il mio pensiero. Avevo scoperto una musica molto più complessa, ricca, piena di suoni che non erano neanche musica, ma che inseriti in quei brani li rendevano del tutto interessanti. Non avrei mai immaginato che la musica potesse essere così e in tutto questo, il mio orecchio poté risultare ancora più allenato a riconoscere i suoni, ricordarli e a cercare di riprodurli a piacimento.

Quando ripenso a quegli anni, la musica è l'unica cosa che ricordo con passione. Mi ha letteralmente salvato dalla noia mortale di un luogo in cui l'estate durava solo due mesi e il resto era tutto inverno.

I Pink Floyd li ascolto ancora oggi, a distanza di tanto tempo. Fanno parte del mio terreno musicale, li trovo ancora attuali sia nelle musiche che hanno prodotto che nei testi brillanti e poetici che sono riusciti a trasporre in musica. Quando sono particolarmente giù, sono tra i pochi gruppi che mi piace ancora ascoltare. Le loro note sono confortanti, non tanto perché mi riportano agli anni nel paesello, ma perché mi suonano ancora dentro nell'animo.

Oggi, anzi, è ancora più facile trovarsi in sintonia con le atmosfere cupe e decadenti delle loro armonie. È così che ti senti quando la tua vita e il tuo corpo sono sempre più decadenti, e in tempi rapidi. La rabbia che trasmettono alcuni dei loro brani è del tutto appropriata al momento.

Ci si sente arrabbiati, vittima di un'ingiustizia che non ha un colpevole. Ci si chiede: “Perché a me?”, che poi è la classica domanda senza un senso. Quello che sto passando io, purtroppo, non conosce bontà o cattiveria, ricchezza o povertà. È forse l'unica cosa davvero democratica a questo mondo.

Tranne un'altra, a pensarci bene.

C'è un'altra cosa ancora che mi piacerebbe fosse democratica nel mondo di oggi: la possibilità che, se sei malato, tu possa essere visto, riconosciuto. Come dicevo, le patologie che mi affliggono non si vedono dall'esterno. Ed è proprio questo uno dei grandi problemi miei e delle persone che si trovano in una condizione simile alla mia. Ci sono tante patologie che non si vedono e per le quali la vista non è d'aiuto per riconoscerle. Oltre alle mie, di cui ti parlerò meglio più avanti, ce ne sono tante: la depressione, la cefalea a grappolo, l'endometriosi, il morbo di Crohn, la celiachia. Sono tantissime. Chi ne soffre, all'esterno, appare sanissimo perché la sua malattia non provoca segni visibili. Ed ecco perché io e altri pazienti condividiamo tutti la stessa ingiustizia. Come si fa a capire come stai se chi ti vede non può vederlo e non può capirlo al volo? Sia la vista che l'udito non sono abbastanza. Anzi, sono fuorvianti.

Una persona depressa molto spesso va al lavoro come tutte le altre, può addirittura apparire allegra. Chi soffre di cefalea a grappolo può assumere dei farmaci che attenuano il dolore e può svolgere le sue normali attività con un dolore ridotto, ma pur sempre presente. E chi lo vede non capirà che sta soffrendo. Soprattutto quello che non si può capire è che la stessa sofferenza, anche se non è estrema, lo diventa quando si protrae all'infinito.

Ecco allora uno dei perché di questo podcast che prende forma più chiaramente: noi malati invisibili dobbiamo farci sentire, dobbiamo far sapere agli altri che la nostra sofferenza è reale, perché purtroppo fanno fatica a capire e non ne hanno neanche colpa, diciamocelo. Non è per nulla facile. Però quello che dobbiamo chiedere loro è uno sforzo di immaginazione e se questo podcast può aiutare persone sane a capire come stiamo noi invisibili, beh, allora non dobbiamo perdere questa occasione. Se pensi che il mio messaggio sia importante, allora ti chiedo di condividere questo podcast, di farlo conoscere il più possibile. Facciamo in modo insieme che i miei pensieri possano diffondersi e stimolare un cambiamento di prospettiva nelle persone che ancora non sanno quanto può essere profonda la nostra sofferenza e magari potranno aiutarci a vivere meglio. Te ne sarò davvero molto grato, ed è importante questa presa di coscienza, terribilmente importante per una sana convivenza in questa strana società che ci chiede e, anzi, ci impone che tutti siamo sempre perfetti e performanti, anche se non possiamo più. E già che ci siamo, magari anche sorridenti.

Nel prossimo episodio ti racconterò le prime fasi dell'insorgenza di una delle mie patologie e di come ho iniziato a suonare uno strumento, lo scopo della mia vita. Nel frattempo, stammi bene, ci sentiamo martedì.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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