GRIDO muto (podcast)

dolorecronico

🌿 Esiste una “cura” per l'artrite? 💡 Ecco cosa faccio io. 🌟

Ecco, ecco tutto quello che faccio per farmi passare l'artrite.

In questo episodio ti racconto cosa si può fare concretamente per risolvere una volta per tutte l'artrite.

Se preferisci ascoltare anziché leggere la trascrizione del podcast, puoi trovare l’episodio, il n. 19, in tutte queste piattaforme (e in tutte le altre gratuite).

-Castopod (fediverso): https://castopod.it/@gridomuto/episodes/quali-farmaci-per-l-artrite-scopri-la-cura-che-funziona-per-me-m1tip – Youtube: https://www.youtube.com/@gridomuto (dalle ore 18:00 dell'11/3). – Spotify: https://open.spotify.com/episode/6g0VZX6gfaxXIZf5e1muJS

Beh, se dovessi dirti cosa si può fare concretamente per risolvere l'artrite, potremmo già chiudere qui la puntata, perché non c'è niente che si possa fare per risolvere definitivamente questo problema.

“Ma come!”, mi dirai tu, “Non esiste una cura? Ti stai sbagliando, Simone, le cure ci sono!”.

A mio avviso, questo è un grande equivoco e, se mi segui attentamente, ti spiego il perché. Per farlo, però, dobbiamo vedere insieme alcune informazioni sui diversi farmaci. Sarà un po' tecnica questa puntata, ma credo che ne valga la pena, perché alla fine ti darò quelle che ritengo le mie soluzioni.

Come sempre, è importante partire dalle parole, perché le parole codificano i nostri pensieri e i concetti e, su certi temi, occorre procedere con la precisione che solo le parole giuste riescono a darci. Se cerco la parola “cura” sul dizionario Treccani, trovo diversi significati, ma per quanto riguarda l'ambito medico, la definizione di cura è “il complesso dei mezzi terapeutici e delle prescrizioni mediche che hanno il fine di guarire una malattia”. Prendiamo questa definizione e mettiamola un attimo da parte e andiamo a vedere quali sono oggi i farmaci che si possono usare per il trattamento dei pazienti che soffrono di artrite e vediamo alla fine se è vero che esiste una cura. Va detto che non sono un medico e quindi cercherò di semplificare al massimo in base alle ricerche che ho fatto e al mio grado di comprensione. Se qualcuno all'ascolto è più esperto di me e desidera correggermi, ben venga. Scrivetemi le vostre osservazioni nei commenti sotto questo episodio.

Il trattamento più semplice per i pazienti che soffrono di artrite è quello che abbiamo ampiamente visto, di cui abbiamo ampiamente parlato: gli antiinfiammatori. Questi farmaci, di solito, vengono chiamati FANS, ossia antiinfiammatori non steroidei. Sono quelli che si possono trovare in farmacia e non c'è bisogno di ricetta per acquistarli. Risolvono per sempre l'artrite? No. Tolgono l'infiammazione al corpo per un po' di tempo e il dolore naturalmente, che viene di pari passo con l'infiammazione. Ma visto che i nostri corpi si infiammano da soli a causa del sistema immunitario che non funziona bene, una volta finito l'effetto dell'antinfiammatorio, l'infiammazione e il dolore torneranno. Infatti, il nostro sistema immunitario continuerà a funzionare male come sempre e ricomincerà ad infiammare le articolazioni e il corpo. Gli antiinfiammatori sono una cura per l'artrite, dunque? No.

Gli effetti collaterali più comuni di queste sostanze, come l'Ibuprofene ad esempio, sono ulcere a livello dello stomaco e sanguinamento dell'intestino o anche gravi problemi a carico del fegato e del cuore. Insomma, non sono una passeggiata. Come dicevo nelle puntate precedenti, non sempre sono sufficienti per togliere il dolore e, non essendo risolutivi, avremmo bisogno di prenderli troppo spesso per stare bene sempre.

Salendo di livello, c'è il cortisone e tutti i farmaci conosciuti come corticosteroidi. Occorre parlarne con il proprio medico o reumatologo, ovviamente, prima di assumerli, che valuterà se è il caso e li prescriverà. Anche in questo caso, non si possono prendere in eterno. Sono abbastanza efficaci nel ridurre l'infiammazione, ma ci possono essere effetti collaterali anche gravi. Alcuni di questi sono l'aumento del peso, il diabete, cambiamenti di umore repentini, maggiore esposizione ad alcuni tipi di infezioni fungine, ad esempio, e altre cose.

Con la progressione della malattia, però, arriva un momento in cui questi farmaci non bastano più. L'infiammazione è così forte! E continua ad avanzare e a danneggiare le articolazioni tutti i giorni. I

n questi casi, i farmaci da banco non sono sufficienti per i pazienti che si trovano ad avere un dolore costante e incapacità di fare alcune cose. Allora si va o si torna dal reumatologo che, dopo avere prescritto tante analisi ed esami che si spera portino a una diagnosi accurata, se non esiste già, si può passare alla fase successiva.

In passato si usavano farmaci immunosoppressori. Come dice la parola stessa, sono medicinali che vanno a inibire alcune delle attività del sistema immunitario, che sono quelle che vanno a causare l'infiammazione. Nonostante abbiano ormai una certa età, questi farmaci si usano ancora, ma si è visto che non si limitano ad agire soltanto sul sistema immunitario: possono provocare effetti e problemi anche in altre funzioni del corpo umano. Nei casi più gravi, si parla di danni al fegato, polmoni, nausea e anche a una maggiore facilità per i pazienti di contrarre le infezioni più comuni, virali o batteriche. Con il tempo, si è cercato di trovare altre soluzioni, per così dire, più accurate per il trattamento dei pazienti e sono nati i farmaci biotecnologici o, più semplicemente, biologici. Si chiamano così perché non sono sintetizzati, ma vengono prodotti da organismi cellulari appositamente selezionati. Parliamo anche degli inibitori del TNF alfa.

È come se i biologici fossero una grande famiglia di farmaci e gli inibitori del TNF alfa fossero un ramo specifico di questa famiglia.

Ognuno di questi farmaci agisce in modo mirato su uno dei meccanismi che generano l'infiammazione nelle articolazioni del corpo. Gli effetti indesiderati più gravi vanno dall'aumento del rischio di infezioni all'aumento del rischio di sviluppare alcuni tipi di cancro, ma anche problemi cardiaci, neurologici e di altro tipo.

Per queste ragioni, sia i biologici che gli immunosoppressori classici non sono in vendita in farmacia come molti altri farmaci, ma vanno somministrati dal reparto di reumatologia, che provvede anche a monitorare il paziente nel tempo per verificare sia l'insorgenza di problemi collaterali che l'effettiva efficacia del farmaco. Certamente, perché oltre a tutti i rischi, il fatto è che questi farmaci non sono immediatamente efficaci su tutti i pazienti. Basta cercare un qualsiasi gruppo di pazienti con l'artrite su qualsiasi social e verificare di persona le esperienze riportate da chi assume questi farmaci. Alcuni riportano di non avere più infiammazione e dolore e questo è fantastico, oggettivamente, mentre per altri l'esperienza è un po' diversa e, dopo anni di tentativi, non riescono ancora a trovare il prodotto giusto e continuano, diciamo, a cambiare un farmaco dopo l'altro, sperimentarlo per un lungo periodo e poi cambiare ancora. Sia gli immunosoppressori che i farmaci biologici vanno assunti a tempo indefinito, perché non appena si smette, il nostro sistema immunitario impazzito ricomincia a fare il suo lavoro. Sì, ci sono casi in cui le persone che hanno assunto i biologici smettono di prenderli e non hanno più alcun problema, ma sono casi davvero rari. In questo caso si parla di remissione della malattia, che, tra l'altro, può non essere una condizione definitiva, la malattia può rimanifestarsi di nuovo e in quel caso bisogna ricominciare tutto da capo. Ti lascio qualche studio linkato in descrizione, se sei interessato o interessata ad approfondire questi numeri maggiormente. T

orniamo quindi al punto di partenza: esiste una cura per l'artrite oppure no? Anche basandoci soltanto su quanto abbiamo detto finora, a me viene da dire di no, perché una cura è qualcosa, come abbiamo visto dal dizionario Treccani, di risolutivo, di definitivo. Un farmaco che va assunto tutti i giorni o tutte le settimane o tutti i mesi affinché il paziente stia meglio non è una cura, è una terapia. Siamo d'accordo su questo? Io lo definirei più una terapia o un trattamento e la definizione della Treccani, in effetti, sembrerebbe darmi ragione, ma anche qui sono pronto ad accettare critiche costruttive e poi, diciamo, non siamo qui a fare questioni di lana caprina. Però, effettivamente, questi farmaci, diciamo così, non risolvono per l'eternità. Nella vita e nel linguaggio di tutti i giorni, nel linguaggio parlato, siamo abituati a parlare di cure per l'artrite come se parlassimo di terapie, ma non sono la stessa cosa. Non diciamo che la cura per il diabete è l'insulina, siamo d'accordo? Questi sono soltanto farmaci che migliorano i sintomi o, al massimo, riducono temporaneamente gli effetti della malattia. Chi soffre di artrite deve prepararsi a fare dei trattamenti, ma una vera e propria cura definitiva, risolutiva, non c'è, secondo me. Quelle poche persone a cui capita di stare bene anche senza assumere più nessun farmaco biologico,secondo me, possono ritenersi davvero molto, molto fortunate. E poi tutto questo riguarda l'artrite. Ma per chi, come me, soffre anche di fibromialgia, non c'è soluzione.

Per quanto mi riguarda, sono stato costretto a meditare su tutto questo già nel 2023. Già all'inizio dell'anno avevo ormai capito che una buona parte del dolore che non mi dava tregua non veniva dall'artrite; non poteva essere l'artrite a provocare quel dolore simile ad una nevralgia che era in tutto il corpo. Avevo la sensazione che tutto il mio corpo fosse percorso da una specie di scossa elettrica dolorosa. Non sarei neanche riuscito ad indicare un punto preciso in cui stavo provando il dolore. Nei muscoli grandi come quelli delle cosce o della schiena, oppure vicino alle spalle, era qualcosa di insopportabile, da non riuscire a dormire. Nei polpacci, anche, c'erano e ci sono ancora dei momenti in cui mi sembrava che qualcuno mi stesse piantando dei chiodi nei muscoli, come delle coltellate; così, senza motivo. Mi capita ancora di provare delle sensazioni così dolorose e improvvise e mi è impossibile non urlare o esclamare. Provo a contenermi perché, per esempio, in ufficio non è il massimo, magari durante una riunione o al cinema, ad esempio. Però succede. Oltre questo, una perenne sensazione di stanchezza e mancanza di forza nei muscoli, in particolare per i movimenti di precisione. Non so se ti ricordi, ma ti ho raccontato che ero un chitarrista e quindi io credo che la mia progressiva incapacità a suonare fosse dipesa proprio...come dire, dall'avvento della fibromialgia. Dicevamo, una perenne sensazione di stanchezza, quasi come in quel periodo in cui non riuscivo neanche ad alzarmi dal letto quando avevo 30 anni. Mi capita di non riuscire a ragionare lucidamente, di non ricordare il nome di alcuni colleghi o il cognome di colleghi che vedo ogni giorno. Tutto questo è stato anche aggravato dalla COVID quando l'ho presa. Prova tu a trovare un'email tra un milione di altre senza ricordare come si chiama chi te l'ha mandata. Dimentico tutto e per questo cerco di scrivermi tutto. Il mio cellulare è pieno di promemoria e appuntamenti.

Nel 2023 ero messo così male da questo punto di vista che non mi rendevo neanche conto di essere in quello stato. Era come se le mie capacità mentali si fossero ridotte di 10 volte e come se fosse così da sempre. Alle Canarie, come ti raccontavo, invece, continuavo a stare benissimo. Praticamente ero una persona diversa, mi sembrava incredibile, avevo la sensazione che tutti i ricordi che avevo della mia condizione quando ero a casa riguardassero un'altra persona. Era così forte la differenza che mi sembrava di essere due persone diverse. E poi c'è la rigidità: la rigidità muscolare, tutto il corpo costantemente teso, anche quando non lo vuoi, anche se non c'è motivo, anche se non sei preoccupato.

Ogni movimento è doloroso, specie al mattino. La sensazione di gonfiore dappertutto è molto fastidiosa; non sai più cosa dipende da una patologia e cosa dall'altra.

È stato proprio nel 2023 che, per la prima volta, anche il reumatologo mi disse che poteva trattarsi di fibromialgia. Poteva, sì...poteva. Anzi, dai sintomi che descrivevo, era molto probabile che fosse così, ma lui non poteva diagnosticarla, perché per diagnosticare la fibromialgia non esiste un esame. Si valuta se il paziente provi dolore in alcuni punti e, nel mio caso, in quei punti anche l'artrite provoca forte dolore. Come si distingue, allora, il dolore dell'artrite da quello che potrebbe dare la fibromialgia? Non si può! Ed ecco perché la fibromialgia non mi è mai stata diagnosticata, neanche nel 2024 quando tentai di avere un secondo parere. Di nuovo la stessa risposta: “Probabilmente c'è, ma non è rilevabile con certezza, perché non c'è un esame oggettivo che possa rilevarla, come un prelievo del sangue, e quindi non è diagnosticabile”.

Oltre il danno, la beffa. Non so se ti sei accorto, tra l'altro, che nel corso di questo podcast a volte ho difficoltà ad articolare le parole, ma non posso farci niente, perché dipende dai muscoli della faccia. Questo è la fibromialgia.

Comunque, fu proprio in quelle due occasioni, nel 2023 e nel 2024, che mi proposero di assumere farmaci biologici come terapia, almeno per contrastare l'artrite, ma c'è un problema: anzi, più di uno.

Devi sapere che da sempre sono ipersensibile ai farmaci. Mi fanno effetto, sì, ma mi vengono sempre anche degli effetti collaterali previsti sul foglietto illustrativo, moltissimi effetti collaterali; e non pensare che io sia ipocondriaco: non è che leggo il foglietto e poi mi convinco anch'io di avere quelle cose. È l'esatto contrario; prendo le medicine, comincio ad avere le cose più strane e, puntualmente, le ritrovo sul foglietto che leggo soltanto dopo per andare a vedere se i sintomi che ho possono essere ricondotti a degli effetti collaterali.

E non sono neanche una persona che rifiuta i farmaci a prescindere! Ho fatto tutte le vaccinazioni possibili, anche più volte; non ne ho paura e sono davvero convinto che siano molto utili. Come reagirebbe il mio corpo ad un farmaco così pesante come il biologico, ad un farmaco che presenta quegli effetti collaterali anche così gravi che ti ho detto prima? Ci ho pensato tantissimo, sono stato combattuto per tantissimo tempo, ma...non è per me. Ho pensato tanto se farlo oppure no, ma davvero non è per me. Vivrei continuamente nel terrore che qualcuno di quegli effetti potrebbe saltare fuori e alcuni di questi effetti sono...come dire...definitivi.

Io sono un codardo, forse, ma il coraggio di provare e vedere come va non ce l'ho.

Anche se il peggio non succedesse, ci sono degli aspetti pratici che non riesco proprio ad ignorare. Per prima cosa, ho paura degli aghi, anzi, diciamo pure una fobia e questi farmaci me li dovrei iniettare da solo, forse anche una volta alla settimana. Non ce la farei mai. Oltre a tutto questo, sarebbe complicatissimo portarli con me in viaggio e, se mi hai seguito sul mio canale principale, che è “Simone viaggiatore” (vallo a vedere se non l'hai ancora visto), sai quanto tengo alla possibilità di viaggiare.

In base al tipo di farmaco che il reumatologo prescriverebbe, ci sarebbero anche altre difficoltà.

Non dovrei espormi al sole (e torniamo al discorso del viaggiare). Ancora: ci vogliono molte precauzioni nel caso in cui si debba fare un intervento chirurgico, ad esempio, nel caso in cui ci si ammalasse. Io, negli ultimi anni, ho fatto, ad esempio, un impianto dentale all'anno, tanto per capirci. Come farei? Sarebbe una continua gestione di questi due mondi. In queste situazioni, i farmaci biologici andrebbero sospesi per poi ricominciare successivamente, quindi perdendo magari gli eventuali effetti positivi. Ricorda cosa ti ho detto prima: con i biologici o gli immunosoppressori ci si può ammalare più facilmente. Se ti ricordi bene, dall'inizio di questo podcast, io ti ho sempre raccontato quanto sia facile per me ammalarmi di qualsiasi cosa o di prendere anche malattie dell'infanzia più volte, intendo. Proprio mentre stavo creando questo podcast, ad esempio, ho preso qualcosa di molto simile alla pertosse che è durato più di due mesi e mi ha costretto a rimandare la registrazione di queste puntate della seconda parte del podcast, mi ha lasciato senza voce e con una tosse continua giorno e notte che era impossibile da fermare.

Se sono già così suscettibile alle malattie senza prendere gli immunosoppressori, te lo immagini cosa mi succederebbe se prendessi un biologico che solitamente abbassa le difese? Io non sono pronto a tutto questo.

Ma allora, mi dice qualcuno, non ti curi?

No, per il momento non prenderò il biologico e nemmeno gli immunosoppressori. Questa è la scelta che ho fatto e sono pronto a cambiare idea in qualsiasi momento se non avessi un'altra via d'uscita. Anche se ho rifiutato questi trattamenti, però, non significa che io non stia facendo nulla. Anzitutto, l'attività fisica è importantissima. Ad aprile del 2024 ho smesso di andare in palestra dopo 25 anni e gli effetti si sono visti dopo poche settimane, come dal giorno alla notte. Non ce la facevo più a mantenere un ritmo regolare degli allenamenti e il costo era anche molto alto (della palestra), visto che ci andavo pochissimo, ma sarebbe stato meglio continuare anche senza essere regolari. Voglio riprendere quest'anno anche per aiutarmi con la gestione del peso. Ho comunque cercato di andare in bici il più possibile e, anche se ne uso una bici elettrica, cerco di regolarla in modo che io faccia almeno metà dello sforzo, a volte di più. Cerco di camminare e, in viaggio, faccio sentieri facili ed esploro le città a piedi. Ogni volta che rientro da un viaggio mi sento molto più vitale e allenato, e viaggio abbastanza spesso. Cerco di curare l'alimentazione integrando la vitamina D e, soprattutto, prendendo tanti Omega3 con l'olio di lino ad esempio e i semi di chia che sono una sorta di antinfiammatorio naturale. È proprio grazie all'olio di lino che, dopo tanti anni, le mie dita hanno finalmente smesso di spaccarsi e la psoriasi è molto meno marcata di prima, anche se ogni tanto rialza la testa, ma si riesce a tenere abbastanza a bada. Provare per credere!

Ma bisogna assumerne tanto durante il giorno. Così ho rimosso dalla dieta l'olio di oliva e il burro per evitare di assumere nel complesso troppi grassi. Ora i grassi che assumo sono principalmente Omega3.

La cosa più importante di tutte, che ha dato una svolta alla gestione della mia malattia, sono stati i farmaci ayurvedici che ho iniziato a prendere tanti anni fa e finalmente sono pronto a darti qualche dettaglio in più, compresi gli effetti collaterali e i rischi di questa soluzione. Acquisto questi prodotti su eBay e mi arrivano direttamente dall'India, ma ci si può rivolgere anche direttamente ai produttori tramite i loro siti. Il rimedio ayurvedico di cui sto parlando si chiama Trayodashang Guggulu; ha un nome un po' particolare e a volte si trova anche come Triyodashang Guggulu e dipende dal produttore, dall'area geografica, suppongo. Comunque, nella descrizione di questa puntata ti lascio tutti i riferimenti con la scritta precisa di come si chiama questo rimedio.

È composto di piante e radici e, con l'aiuto dell'intelligenza artificiale, ho tradotto i nomi delle piante utilizzate, che sono scritte in hindi, e ho potuto capire meglio di cosa si trattasse. Te le lascio anche queste nella descrizione dell'episodio. Ma ad esempio, per farti capire, c'è lo zenzero, c'è del pepe, ci sono i semi di finocchio, la curcuma e altre cose che conosciamo molto bene anche in Occidente. Poi ci sono invece alcune piante che qui da noi non esistono, come ad esempio la Pluchea lanceolata, la cui radice è un immunomodulante. C'è la Withania somnifera, una pianta che troviamo anche qui da noi in erboristeria e che dà la lucidità mentale che mi serve e mi fa tornare la voglia di fare, ma che allo stesso tempo favorisce il rilassamento e il sonno. La componente principale del farmaco è il guggulu, che è la resina di una pianta della famiglia della mirra che qui da noi non cresce, però il suo odore di queste compresse è simile a quello che si sente molto quando si va in chiesa e si sente l'odore della mirra che noi usiamo come incenso. Queste compresse di cui ti parlo hanno il potere di ridurre il dolore dell'artrite anche dell'80%, a volte anche del 90%, specialmente nelle mani e nei piedi. Mi danno energia, voglia di fare, lucidità mentale. Ovviamente, perché arrivino tutti questi benefici, bisogna prenderle per un po', diciamo almeno un mese, pranzo e cena. Per onestà, devo dirti che questi prodotti fanno molto bene per chi soffre di artrite, ma hanno anche loro dei rischi. A mio avviso, sono rischi ridotti rispetto a quelli del biologico, ma i rischi ci sono eccome, così come anche degli effetti collaterali.

Il primo appunto è che sono prodotti in India; non è un pregiudizio il mio, sono stato in India tre volte, però non posso dire se la produzione è rigorosa come per i farmaci che produciamo in Occidente oppure no. Sono preparati, diciamo, erboristici, quindi, in sostanza, bisogna fidarsi di chi li produce. Svolgono un effetto fluidificante sul sangue e quindi chi ha problemi di coagulazione, ad esempio, non può assumerli. Anche chi soffre di ulcera, gastrite o disturbi gastrici potrebbe vedere il suo bruciore aumentare o provare nausea e diarrea. Insomma, ci vogliono comunque un po' di precauzioni. Quanto costano? Beh, sicuramente più del biologico, perché il biologico viene passato dal Servizio Sanitario Nazionale, ma diciamo che se una dose di biologico può arrivare a costare anche €1000 al Servizio Sanitario Nazionale, una confezione di queste compresse che dura all'incirca 20-25 giorni costa €15 al mese. Non ringraziatemi per fare risparmiare il Servizio Sanitario Nazionale!

L'effetto più sgradevole che riscontro io di queste compresse, però, è un altro: è che fanno venire una fame terrificante, ti mangeresti anche il tavolo, praticamente non si avverte più il senso di sazietà, si ha sempre fame.

Diciamo che si riesce al contempo a sentirsi pieni, ma ad avere ancora fame, cosa che a lungo andare può essere molto pericolosa, soprattutto perché il peso in questo modo tende ad aumentare. Nel 2023, ti dicevo, dopo avere rifiutato il biologico, mi sono accorto che stavo prendendo questo Trayodashang in maniera irregolare, ma soprattutto alla metà del dosaggio possibile giornaliero che è scritto sopra la confezione. Ho iniziato a prenderlo, quindi, alla dose massima e da allora la mia vita è migliorata molto. Riesco a muovere bene le dita molto più spesso rispetto a prima. Poi certo, le giornate di brutto tempo si fanno sentire. Ci sono dei giorni abbastanza frequenti, a dire il vero, in cui tutti i rimedi che ti ho elencato non sono comunque sufficienti e allora un buon antiinfiammatorio non me lo toglie nessuno; il Brufen, l'Oki, dipende che cosa ho in casa. Ma parliamo di solito di 5, 6, 7 giorni al mese, non di più. Ora, ad esempio, è febbraio del 2025 e l'ultimo antinfiammatorio l'ho preso poco dopo Natale, quindi non male. Quando posso, poi prendo il paracetamolo. Intendo dire, se il dolore non è troppo forte e capita, il paracetamolo non toglie l'infiammazione e quando finisce l'effetto si sta peggio di prima, ma se non c'è altro e per limitare gli effetti degli antiinfiammatori, va benissimo anche quello. Quando posso, come ti dicevo, faccio le terme, quelle di Ischia sono miracolose. Poi ci sono le Isole Canarie, anche quelle mi aiutano molto. Con il tempo e continuando a viaggiare, come ti ho fatto vedere sul canale del “Simone viaggiatore” (vallo a vedere se non l'hai ancora visto), sai quanto tengo alla possibilità di viaggiare. Ho capito che lo stesso effetto benefico delle isole lo sento anche in altri posti, come la Sardegna a nord o la provincia di Murcia in Spagna. Anche l'isola di Krk in Croazia ha avuto un effetto istantaneo e miracoloso per me quando ci sono stato, era il 2024 ed era fine settembre, pioveva a dirotto in quei giorni e c'era un vento umido e fresco, ma a quanto pare l'effetto positivo inspiegabilmente c'era lo stesso. Riuscivo a sollevare pesi anche importanti, come valigie e confezioni d'acqua anche pesanti e nelle mie dita, oltre a non esserci più il dolore, era anche ritornata la forza di un tempo. Come alle Canarie o a Murcia, riuscivo a camminare in posizione eretta senza dolore e senza stancarmi.

Insomma, un'altra vita.

Ecco, ecco tutto quello che faccio per farmi passare l'artrite.

Io non so se sia la soluzione giusta per tutti, questo non lo so e non voglio neanche che tu prenda questi miei suggerimenti come vangelo. Anzi, ti invito proprio a non fidarti, fai tutte le ricerche del caso, documentati su questi rimedi, parlane con il tuo medico, parlane con chi vuoi. Io non sono un medico e quindi non posso darti consigli sulla tua salute. Come dico sempre in questo podcast, l'obiettivo è raccontarti la mia esperienza in modo che tu possa, come dire, valutare e eventualmente approfondire per conto tuo, però mi sembrava giusto e doveroso, prima della fine del podcast, parlarne. Ti do quindi appuntamento alla prossima settimana, sempre di martedì, per l'ultima puntata del podcast che sarà davvero un po' particolare, un po' diversa dal solito.

Io spero di averti aiutato con questi consigli e ci sentiamo presto.

Ciao!

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🎸 L'Incontro con Steve Vai 💫 e la Rabbia che Ancora Non Passa ⚡ Dopo Tanti Anni 🔥

So che non sarei mai stato il migliore chitarrista del mondo; difficile superare Steve Vai, d'altra parte, e tutti gli altri. Ma sono arrabbiato, sono tremendamente arrabbiato! La vita mi ha strappato il diritto di provarci, la possibilità di entrare in quel mondo ogni volta che volevo, collegando lo spinotto dell'amplificatore. Chissà cosa sarebbe successo; non lo scoprirò mai.

Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 13), anziché leggerlo, puoi farlo qui:

In questo episodio ti racconto della difficile gestione delle energie di molti malati invisibili e di un incontro speciale che mi ha cambiato la vita.

Da quando soffro di artrite e fibromialgia, ho imparato che la fatica e la stanchezza sono sempre presenti, sempre. Purtroppo, però, anche se sono stanchissimo, non riesco a dormire meglio. Si può essere stanchi morti, ma non riuscire comunque a dormire. Anzi, è proprio quello che succede spesso con le mie patologie. Perché c'è sempre qualcosa a tenerti sveglio o a svegliarti a metà notte: il dolore cervicale, una sciatalgia terribile o la sensazione pruriginosa di mille insetti che ti stiano mordendo ovunque.

È una fatica tirare avanti; si fa fatica ancora prima di alzarsi dal letto, si fa fatica durante il lavoro, si fa fatica ad andare al lavoro.

Quasi ogni giorno il dolore e il senso di confusione sono così forti e così difficili da mandare via che diventa una fatica persino ascoltare gli altri parlare. C'è così tanto da fare, e così poche energie che il nostro istinto è quello di reagire in maniera forte contro quell'elemento di disturbo, l'interazione, che ci porta via anche quelle poche energie che abbiamo. Mi rendo conto spesso di apparire molto sgarbato in molti casi, ma è qualcosa che faccio davvero fatica a controllare; non posso farci niente. L'effetto è quello di una mosca che continua a posarsi addosso. Impiego tutte le energie che ho per restare sveglio o vigile, e c'è sempre qualcosa che cerca di portarmi via altra energia: una domanda, uno scherzo, una telefonata, un messaggino su WhatsApp; tutte cose a cui si deve rispondere, e la consapevolezza che la risposta porterà via altre energie è sfiancante.

Ti dirò di più: la mia non è fatica, è spossatezza.

Nei prossimi episodi ti racconterò nel dettaglio cosa faccio per cercare di contrastarla. L'effetto è quello di una forte influenza che sta per arrivare quando ciascun muscolo ti fa male e stai bene al caldo.

Ma...a pensarci bene, io non lo so cosa significhi per una persona normale avere un'influenza. È possibile che io abbia sempre vissuto le influenze con una reazione immunitaria esagerata, proprio come tutto il resto, in una maniera tutta mia, diversa da quella di una persona che non ha i miei stessi problemi. Può darsi che io non sappia cosa sia un'influenza per una persona normale, magari una persona come te, che mi stai ascoltando. Fammi sapere, se non hai i miei problemi, come reagisci a un'influenza. Mi sarebbe davvero molto utile capirlo per sapere se reagiamo allo stesso modo. Anche tu senti subito freddo e diventi tutto rigido? Ti fanno male tutti i muscoli? Senti immediatamente una gran voglia di metterti a letto? Leggerò con piacere il tuo punto di vista e la tua risposta.

Nel mio caso, le influenze sono come ti ho descritto, ma non soltanto quelle: la COVID-19, ad esempio, mi ha provocato una reazione decisamente più intensa.

Mi sono sempre ammalato molto spesso nella vita, tutte le malattie infettive del catalogo, più tutte quelle bonus come la mononucleosi o la quarta malattia. A poco più di 30 anni, mi ero preso anche quella, o forse era rosolia, chissà. Mi ero ricoperto di puntini rossi che prudevano, con una febbre e una grande spossatezza, tanto per cambiare.

Di nuovo, non riuscivo ad alzarmi dal letto. Il medico mi disse che era rosolia; non c'erano dubbi. Per forza di cose, quindi, quella che avevo avuto da ragazzo a 18 anni era stata la quarta malattia, o forse il contrario. In famiglia, però, ricordavamo che io l'avessi presa anche a 4 anni, quindi...l'ho avuta tre volte? Tutto è possibile; a questo punto, può accadere anche questo

Tornando ai 30 anni, però, ancora non mi conoscevo bene quanto mi conosco oggi. L'arrivo di questa malattia, la mononucleosi, era altra benzina da gettare sul fuoco della mia teoria secondo cui il mio sistema immunitario era debole e non riusciva a tenere a bada neanche le malattie infettive. E così me le riprendevo una seconda volta. Ci avevo messo tantissimo a riprendermi: quasi due mesi per tornare quello di prima, all'incirca. Così come mi accadde diversi anni più tardi con la COVID-19 o altre malattie: mesi per recuperare. Iniziai a pensare che il mio sistema immunitario fosse pesantemente indebolito, magari proprio da quei denti del giudizio che dovevo ancora finire di togliere.

Iniziai così a stimolare il mio sistema immunitario con tutto quello che il database di Google aveva da offrire: echinacea, preparati a base di batteri inattivati, di nuovo echinacea, argento colloidale, echinacea, echinacea. Ho menzionato l'echinacea, vero? Ormai la mettevo anche nel caffè latte. Niente di tutto questo sembrava funzionare; continuavo ad ammalarmi e, anzi, i miei problemi di pelle aumentavano sempre di più. Alternavo intere giornate a letto con qualche sessione di studio della chitarra, ma non avevo la spinta per mettermi a suonare lo strumento.

Per la prima volta, non avevo più voglia di suonare.

Se hai ascoltato con attenzione le puntate precedenti, questo ti dirà quanto era grave il problema. Tuttavia, l'incontro con Steve Vai si stava avvicinando e questo mi gasava moltissimo; per nulla al mondo me lo sarei perso. Conservavo il mio biglietto sul comodino e anche soltanto guardarlo mi dava la carica per suonare. In quel periodo ho concepito tantissime nuove canzoni, nonostante la stanchezza: motivetti, combinazioni di note particolari che mi piacevano moltissimo. D'altra parte, avevo molto tempo per pensarci, restando spesso a letto intere giornate.

Li ho salvati tutti in una bella libreria musicale: pezzi di 10-20 secondi, tanto per fissare l'idea da qualche parte. Purtroppo, oggi questa libreria è andata persa, ma i pezzi me li ricordo ancora. Non appena mi sentivo meglio, non facevo altro che suonare. Avevo scoperto che esistevano delle corde per la chitarra ricoperte di uno strato di oro puro; costavano un po', ma avevo l'impressione che le mie mani si spaccassero un pochino meno. A volte mi capitava di suonare chitarre o bassi di qualche amico e le dita si aprivano di nuovo. Anche per queste ragioni, ero davvero convinto che il mio problema fosse di tipo allergico.

Ascoltavo così tanto la musica di Steve Vai che me la sognavo di notte. Riuscivo a scomporre ogni singola nota: un secondo della sua musica ne conteneva decine, ma il mio orecchio non si perdeva nemmeno una sfumatura. Nonostante tutti questi sforzi, però, ero ben lontano dal riuscire a suonare decentemente i suoi pezzi. Se non qualche breve stacco, qualche nota o poco più, oppure proprio le basi su cui poi lui sviluppava la sua arte e le sue tecniche.

Alla fine, il giorno che avevo tanto atteso arrivò.

In un piovoso sabato pomeriggio mi avviai da solo verso la Bassa Reggiana, la zona tra la città e il Po. È così che noi abitanti della pianura chiamiamo quelle terre. Non ricordo neanche se l'incontro fosse a Guastalla o a Novellara o qualcosa del genere, ma ricordo benissimo quel pomeriggio. La gioia e l'eccitazione erano tante che mi sembrava di guardare passare la mia vita a distanza: io ero io, ma le sensazioni e le emozioni erano come se fossero qualcosa di separato da me.

Dopo il controllo dei biglietti, un addetto distribuì dei numeri su un pezzo di carta; lì per lì, il mio istinto fu quello di rifiutarlo. Cosa voleva questo ragazzo? Non avevo neanche capito a cosa servissero quei numeri.

“È per un'estrazione a premi”, mi disse il ragazzo. “Sicuro che non lo vuoi? Dai, prendilo!”. “Ma chi se ne importa”, pensai. “Va bene, dammi questo numero; io sono qui per Steve Vai.” Però lo presi e dissi “Grazie”.

Il mio cervellino ingenuo, a volte quando serve, non riesce a fare uno più uno. Mi toccò il numero 19; un numero anonimo, senz'anima, che per me non voleva dire niente.

Grido muto nasce per far conoscere le esperienze di chi vive le malattie invisibili, una realtà troppo spesso ignorata. Creare questo podcast è stata una sfida in termini di tempo, energie e competenze da acquisire, e anche un impegno economico, specialmente nelle condizioni di vita che ti ho raccontato. Se il mio lavoro ti ha colpito, considera di supportarmi su Patreon; anche un piccolo contributo può fare la differenza e aiutarmi a continuare a dare voce a chi spesso non ne ha. Il link lo trovi proprio lì, nella descrizione di questa puntata del podcast, in quel posto dove nessuno guarda mai.

L'attesa non fu lunghissima: come avevo immaginato, non trattandosi di un vero e proprio concerto di un artista decisamente di nicchia, forse non si arrivava a 100 persone. I posti davanti al piccolo palco erano già tutti occupati, ma riuscii a trovarne uno molto valido a 10 metri dal palco, centrale. Vidi che molte persone avevano portato con sé la propria chitarra. “A che pro?” pensai. “Non basta già quella di Steve Vai?” L'avrei capito dopo. Il mio cervellino...uno più uno...

Quando Steve si presentò sul palco, fu una visione soprannaturale per me. Dico sul serio; se mi fosse apparsa la Vergine Maria, avrei avuto forse la stessa reazione. In un solo istante, riuscii a sperimentare tante sensazioni contrastanti: paura, eccitazione, gioia, incredulità, smarrimento. Non mi sembrava vero; eppure ce l'avevo lì, a 10 metri, finalmente.

Era come se una parte di me non credesse che le sue prodezze musicali potessero essere davvero umane. Invece, la mia vista e il mio udito lo confermavano. Non appena fece partire una base e iniziò a suonare, pensai che non avevo mai capito chi fosse davvero quell'uomo. Vederlo dal vivo era un'esperienza completamente diversa: la sicurezza con cui si muoveva sullo strumento, la velocità, il suono che riusciva a tirare fuori da quel pezzo di legno amplificato erano qualcosa che dai dischi non si coglieva minimamente.

Sembrava di avere davanti una bestia inferocita, l'urlo di un grande mostro che in un microsecondo poteva diventare un sussurro dolcissimo. Vedendolo suonare, finalmente capivo come faceva a fare certe cose; finalmente tutti i pezzi del puzzle andavano al loro posto. Avevo sempre pensato che una buona dose di quello che si ascoltava nei suoi dischi fosse frutto dell'elettronica, ma mi sbagliavo completamente. L'elettronica era solo un altro strumento al servizio di quel meraviglioso mondo di suoni che solo lui sa produrre.

Nelle tre ore successive ci furono altri momenti stupefacenti in cui il maestro suonò le canzoni sue più famose. Tra un brano e l'altro, ci parlava in un italiano un po' difficoltoso, ma comprensibile, con l'ausilio di un auricolare. Lui non sa l'italiano così bene, ma il risultato era molto buono; un altro talento che non sapevo avesse. Io parlo cinque lingue, ma non riuscirei mai a parlarne una soltanto con l'ausilio di un auricolare che mi fa sentire i suoni che devo ripetere; lui invece ce la faceva.

Ci fece capire che il suo approccio alla musica era qualcosa di profondamente diverso da quello che potremmo avere noi normali spettatori. Ci disse molte cose, ci raccontò come concepire lo strumento e ci rivelò tre cose che successivamente avrei trovato anche nel suo canale YouTube, ma diversi anni dopo; allora non le avevo mai sentite. Questi tre consigli stravolsero completamente il mio concetto... non solo del suonare la chitarra, ma della musica! I suoni della chitarra non nascono dalle dita, come credevo; nascono nella mente. Le note e gli accordi vanno pensati come se fossero dei colori da tirare fuori in base a quello che vogliamo esprimere; combinandoli, otteniamo toni diversi che specchiano lo stato d'animo che vogliamo comunicare sSullo strumento; anzi, attraverso lo strumento Ogni individuo è unico e ha un suo modo speciale di suonare. Non dovevamo a tutti i costi imparare a suonare ogni sua nota, a imparare come suona Steve Vai, ma dovevamo piuttosto trovare il nostro stile unico e portarlo avanti con convinzione. Magari noi non dovevamo suonare come lui, ma neppure lui avrebbe mai potuto suonare esattamente con il nostro stile.

Tutto acquisiva un senso; i primi due consigli in particolare mi lasciarono di sale. Ecco come faceva a produrre quei mondi sonori: li creava nella sua mente prima e poi li realizzava.

Arrivò, purtroppo, la fine dell'incontro. Il maestro ci disse che per salutarci avrebbe suonato il suo pezzo più famoso e, per farlo, afferrò una chitarra diversa da quella con cui aveva suonato fino a quel momento. Si trattava di un'altra Ibanez, marchio che preferisce. Ibanez ha creato per lui apposta alcuni strumenti che, tra le altre cose, sono molto belli da vedere. E ora, lì sul palco, ce n'erano due. Al termine della canzone, prese un bussolotto e ci disse che uno dei fortunati spettatori sarebbe tornato a casa con la chitarra che lui stava stringendo in mano.

“Nineteen”, disse.

“Guardai il mio numero ed era proprio il 19.” Lo stavo stringendo nella mia mano sudata.

“No, non può essere; non può essere”, pensai. “Devo aver capito male. Sarà “ninety”, che è 90 in inglese; suona più o meno simile, senz'altro è il 90.” Eppure, Steve lo ripete nuovamente, vedendo che nessuno si faceva avanti.

Era proprio il mio.

Mi avvicinai al palco, così emozionato da non riuscire neanche a tremare o dire qualcosa. Steve Vai era davvero alto!

Salii e strinsi la grande mano del mio idolo, quella che aveva creato il mondo sonoro in cui mi immergevo in tutti i giorni. Ora capivo un po' meglio come facesse a giungere posizioni così distanti tra loro sul manico dello strumento.

Mi chiese se volevo suonare con lui e andai completamente nel panico.

Andai completamente nel panico. Guardai quella chitarra con le corde in nickel, belle ossidate. Mi trovai costretto a dire di no, spiegando che ero allergico e che prima avrei dovuto sostituirle o le conseguenze sarebbero state molto gravi. “Sei sicuro?” mi disse. Ogni giorno rimpiango di non avergli detto: “Sì, lo voglio”, come in una specie di matrimonio di 5 minuti.

Il maestro allora aprì la possibilità ad altri, come da programma, e il mio cervellino fece uno più uno in quel momento. Ecco perché altri si erano portati lo strumento: perché nella vita non si sa mai, perché è meglio essere pronti per una situazione del genere. Ringraziai in tutti i modi in cui potevo farlo e, volando a un metro da terra, tornai al mio posto con quella chitarra tutta per me, che lui aveva suonato per una sera.

Più tardi, come prevedeva la scaletta della serata, dopo una lunga fila ci fecero incontrare di nuovo Steve Vai, questa volta a tu per tu per un rapido autografo. Conservo ancora la fotografia di quel momento che mi fecero quelli dell'organizzazione. Stringo nelle mani la mia nuova chitarra Ibanez Jem 777, modello “Steve Vai”. Nella foto si vede bene la firma del maestro, che gli chiesi di apporre proprio sullo strumento. La mia faccia nella foto è quella di un bambino che apre i regali il giorno di Natale. Questa parte forse fu un po' deludente; gli dissi che ero molto felice di incontrarlo e mi rispose un semplice: “Anch'io”, educato e sorridente, ma forse un po' distaccato.

Chissà quanti “Simone” ha visto Steve Vai. Va bene così; lo salutai sperando di rivederlo e ringraziandolo per tutto quello che aveva fatto per me nella sua vita. Tornato a casa, quella notte non riuscii a dormire. L'adrenalina era tantissima, come la fatica che avevo fatto, perché comunque era stato faticoso e, probabilmente, proprio per questo non riuscivo a prendere sonno. Rimasi in piedi provando la nuova chitarra, ovviamente.

Ha una voce grossa, molto diversa dagli altri strumenti che avevo; una cosa completamente diversa: una chitarra da corsa, da battaglia, per gridare al mondo quello che si vuole, a condizione di poterla suonare, ovviamente.

Io oggi ho dovuto trovare un altro modo di gridare. La sfortuna ha voluto che io non abbia potuto usare quella chitarra per far sentire il mio grido di rabbia, ed è per questo che fino ad ora questo grido è rimasto muto. Perché i mezzi che sapevo usare per esprimerlo non potevo più usarli.

Urlavo quindi dentro di me, senza che nessuno potesse ascoltarmi. Mi tenevo tutto dentro, come fanno molti malati invisibili, per vergogna, per sfinimento, per disillusione.

Ho deciso di riprendere a gridare adesso e posso farlo solo con questo podcast. Voglio gridare a tutti il mio disagio, la mia rabbia per tutta la mia situazione, la frustrazione che provo per non potere più percorrere quei binari che mi sembrano i più adatti a me. Se potessi aiutarmi, te ne sarei davvero molto grato. Se il mio grido verrà ascoltato o meno, ora dipende solo da te.

Parlane con le persone che conosci, diffondilo sui social più che puoi, perché questo grido non rappresenta solo me, ma tante persone nella mia situazione.

So che non sarei mai stato il migliore chitarrista del mondo; difficile superare Steve, d'altra parte, e tutti gli altri. Ma sono arrabbiato, sono tremendamente arrabbiato; la vita mi ha strappato il diritto di provarci, la possibilità di entrare in quel mondo ogni volta che volevo, collegando lo spinotto della chitarra all'amplificatore. Chissà cosa sarebbe successo; non lo scoprirò mai.

Credo che questa sia una caratteristica che ci accomuna, noi malati invisibili. Tutti abbiamo perso molto, tanto, tantissimo. Quella che ti ho raccontato fino ad ora è stata solo una parte della mia storia, ma quante storie ci saranno là fuori?

Si stimano 2 milioni di malati di fibromialgia nel nostro Paese, secondo alcune fonti; forse sono un po' eccessive, ma supponiamo che la verità stia anche solo nel mezzo. Quante vite, quante cose perse. Qualcuno avrà perso il lavoro, qualcun altro il suo sogno, come è capitato a me. Qualcuno avrà perso entrambi e molte altre cose ancora che io non riesco neanche a immaginare.

Non ti sembra normale che proviamo questo astio nei confronti della vita?

Anzi, a ben pensarci, mi chiedo come sarebbe possibile il contrario. Abbiamo perso i nostri sogni, abbiamo perso le speranze. Niente di più facile che perdiamo anche la pazienza, no?

Perdonami, ma mi è molto difficile andare avanti.

Ti aspetto martedì prossimo in un nuovo episodio in cui ti racconterò come ho fatto a sopravvivere al mondo del lavoro fino ad ora.

Stammi bene!

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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Doppio Shock: Dalle Vacanze in Kenya 🌍✈️ all'Ospedale in 24 Ore 🏥

“All'uscita dal villaggio turistico, un uomo armato di coltello mi minacciò per avere 2 dollari”

[...]

Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 11), anziché leggerlo, puoi farlo qui:

L'anno scorso mi sono ritrovato al pronto soccorso per un piccolo incidente. È successo tutto in un attimo: in palestra, un peso è caduto dall'alto e io non sono stato abbastanza veloce per ritirare la mano. La mano comunque non avrebbe dovuto essere lì, ma mi sentivo troppo sicuro di me e ho fatto una manovra sbagliata e azzardata, pagandone poi le conseguenze. Insomma, una cosa che può capitare a tutti.”

Quando questa cosa, però, capita a noi malati invisibili, la guarigione non è così semplice né veloce come per gli altri. Te ne parlerò meglio negli episodi successivi del podcast, ma per ora voglio portare la tua attenzione su questo punto: se ad un'articolazione che è già compromessa dall'artrite aggiungiamo anche un trauma, magari a causa di un incidente come quello che è capitato a me, non è così scontato riprendersi. Lì c'è già un grave problema in quell'articolazione.

Ogni giorno, la capacità del nostro corpo di rigenerarsi non è abbastanza; ci occorrono, dunque, settimane, mesi, anni. E lo stesso vale per tutti quegli acciacchi che aggiungono infiammazioni al corpo, dalle influenze al colon irritabile.

In un certo senso, siamo fatti di cristallo: dobbiamo trattarci bene, perché se non lo facciamo noi, non lo farà nessun altro, a cominciare dalla vita. I traumi, purtroppo, possono capitare, possono arrivare e non è mai una bella cosa. Spesso, quando succede, ci chiediamo: perché a me? Non bastava quello che ho già? Me lo sono chiesto tante volte nel mio mezzo secolo di vita. Me lo sono chiesto anch'io: perché a me?

Ad esempio, me lo chiedevo già nel 1999, quando, tra un lavoro interinale e l'altro, mi ero concesso di usare un po' dei miei risparmi per un viaggio in Kenya. Come ti raccontavo anche nell'episodio precedente, il viaggio è qualcosa che mi ha sempre appassionato, non tanto come vacanza in sé, ma come occasione per esplorare, come possibilità di conoscere cosa c'è oltre la mia porta, la propria città o il proprio Paese. Perché i territori che mi piace esplorare restano una parte di me per sempre, dopo che li ho visitati. A quel punto, il destino di quei posti non è più qualcosa di lontano che non mi riguarda, ma sono effettivamente un'area in cui ho trascorso una parte della mia vita. Sono convinto che tutto questo, tutta questa specie di consapevolezza aumentata ed espansa, mi arricchisca come individuo e mi renda più sensibile ai problemi altrui e ai bisogni delle popolazioni che abitano.

Nel '99, dunque, partii per l'Africa. Il Kenya... l'Africa aveva sempre riempito la mia fantasia di bambino, mi era sembrata il viaggio per eccellenza e la scelta migliore in quel momento. E quando si era presentata l'occasione, quindi, non me l'ero lasciata scappare: un buon prezzo per 9 giorni e una sistemazione che sembrava ottima. Cosa potevo volere di più che filasse tutto liscio? Naturalmente, ma non andò così.

In una settimana, riuscii a gioire di un mare fantastico e di un pezzettino del Parco dello Tsavo, con la fauna selvatica e gli spazi infiniti di una pianura così grande che non si poteva neanche immaginare quanto. Figurati che tutto il parco è grande quanto il Veneto ed è solo uno dei tanti parchi del Kenya, forse neanche il più grande!

Avevo visto anche tanta povertà, alla quale pensavo di essere abituato dopo il viaggio in India. Ma anche in questo caso mi sbagliavo.

All'uscita dal villaggio turistico, un uomo armato di coltello mi minacciò per avere 2 dollari. Tutto questo mi aveva fatto spaventare enormemente, ovviamente, ma non tanto sul momento. Ripensandoci dopo, mi ero reso conto della fortuna che avevo avuto, nascendo in un posto dove è molto più facile vivere.

Il giorno prima di ripartire per l'Italia, un grande contenitore di tè bollente del villaggio turistico mi si rovesciò addosso. Pura sfortuna, se vogliamo. Era uno di quei contenitori da cui si prende il tè per la colazione, quindi piuttosto grosso, e la quantità di liquido caldo che c'era all'interno era davvero tanta. Semplicemente, mi ero trovato nel posto sbagliato e nel momento sbagliato e, quando il contenitore cadde, chissà come, mi investì in pieno.

In un attimo, memore dei miei corsi di pronto soccorso fatti nella Misericordia di Pontremoli, mi buttai in piscina per fermare l'ustione e questo sarebbe bastato a evitarmi la chirurgia plastica una volta rientrato a casa.

Ma il rientro non fu tanto semplice.

L'ustione che mi causò era di secondo grado, con aree di terzo grado. Era estesa su tutta la gamba destra, nell'inguine e in una parte della coscia sinistra: zone molto delicate.

Insomma, l'ospedale più vicino che potesse gestire un'ustione di quel genere era a 800 km da dove mi trovavo io, nella zona di Malindi. Questo, in Kenya, significava che, in quegli anni, quasi due giorni di viaggio tra strade sterrate e sconnesse, con posti di blocco continui che a volte chiedevano un'offerta per lasciarti passare. Questo, almeno, fu quello che mi venne detto. Mi resi conto più avanti di essere stato molto fortunato anche in quel caso: il mio volo di rientro per l'Italia sarebbe partito il giorno successivo e il mio compagno di viaggio, pura fortuna anche questa, era un medico. Anche se non era attrezzato per un primo soccorso decente per quella situazione, si prese la responsabilità di farmi rientrare in Italia, oltre a fornirmi sul momento un sacco di farmaci che aveva portato con sé, per fortuna.

Il comandante, infatti, ci aveva espressamente rifiutato l'imbarco. Allora mi arrabbiai molto ma, pensandoci ora, lo capisco: neanch'io mi sarei preso la responsabilità di me stesso in una situazione del genere. Non ero un bello spettacolo da vedere in carrozzina e senza neanche la possibilità di indossare i vestiti. Offrivo ai passanti e ai viaggiatori sconcertati lo spettacolo di un giovane sofferente e sfigurato da un paio di arti in cui la pelle non c'era più.

In Italia, mi ricoverarono al reparto dei grandi ustionati di Parma, visto che risiedevo lì. Non entro nei dettagli di quel ricovero, ma non furono settimane piacevoli, come puoi facilmente immaginare. Quello che era iniziato come un periodo spensierato, una vacanza in Kenya, si era trasformato in breve tempo in una corsia di ospedale. Dopo questo evento, prima di partire per un posto, mi informo molto bene su quanti sono gli ospedali sul posto e quanto distano da dove mi troverò, e anche quanto sono attrezzati.

In quell'ospedale a Parma, l'unica cosa che mi aiutava a passare il tempo erano i libri e, ancora una volta, la musica. Avevo con me solo pochi CD e un lettore portatile, ma mi sembravano oro. Scoprii Alanis Morissette, l'artista pop del momento. Conservo ancora l'album che era uscito in quell'anno di quell'artista, ma chissà perché non lo ascolto mai! Sul versante rock, invece, fu l'occasione per riscoprire chitarristi storici come Stevie Ray Vaughan, Jimmy Hendrix e Jason Becker, tutti divinamente bravi. Non poteva mancare, ovviamente, anche Steve Vai: dopo quelli dei Led Zeppelin, i suoi erano i dischi che ascoltavo di più. In quell'ospedale, mi furono davvero molto utili.

Si può ascoltare tante volte, trovando sempre qualcosa di nuovo o un livello di ascolto che la volta precedente non abbiamo colto. Persino il mio ottimo orecchio non riusciva a stargli dietro al primo ascolto. Mi fermai in ospedale per 26 lunghissimi giorni; poi i medici mi dissero che, sorprendentemente, la pelle si era riformata abbastanza bene e non ci sarebbe stato bisogno di chirurgia plastica. Pericolo scongiurato! Ci vollero però un paio d'anni prima che i segni dell'ustione scomparissero quasi del tutto, ma il mio corpo era giovane, era forte, avevo grandissima fiducia che si sarebbe ripreso senza problemi.

Proprio quando pensavo che il peggio fosse passato, la vita aveva in serbo per me qualcosa di ancora difficile: un altro colpo inaspettato.

Venni dimesso e, dopo due settimane, pensai di andare un po' in bici, come mi avevano suggerito, per aiutare la muscolatura a riprendersi. Muoversi era importante, mi dissero, per cercare di riabilitare la gamba destra, che era rimasta ferma troppo a lungo in quel letto di ospedale, senza neanche potersi piegare, tutta fasciata e dolorante com'era. Avrei approfittato del bisogno di trovare un nuovo lavoro per rimetterla in movimento e farle riprendere un po' della massa muscolare persa.

Come ti dicevo, però, purtroppo la sorte aveva altro in serbo per me: come se non bastasse quello che mi era appena successo, un giorno, tornando a casa mentre pedalavo, un'automobile non mi diede la precedenza e mi investì in pieno. La signora alla guida avrebbe poi dichiarato di non avermi visto. Mi investì e ricominciammo tutto da capo. Ricordo benissimo un grande dolore dappertutto. L'ambulanza che mi portò all'ospedale... quella no, non me la ricordo, però al pronto soccorso mi accolse un medico dal nome indimenticabile: si chiamava Dottor Barella ed era lo stesso che mi aveva accolto dal rientro in Kenya.

Mi riconobbe e mi volle ricordare con la giusta enfasi che non esisteva alcuna tessera a punti del pronto soccorso e non occorreva presentarsi così spesso. Questo mi tirò un po' sul morale. Mi chiese: “Dove ti fa male?” e io risposi: “Dappertutto.” E fu così che mi fecero qualcosa come 10 lastre per scoprire poi che la cosa più grave era un trauma cranico e al collo: il classico colpo di frusta. Dopo qualche giorno di osservazione, anche in questo caso il pericolo sembrava scongiurato, ma rimaneva un gran mal di testa e un colpo di frusta da gestire.

La convalescenza richiese tre mesi abbondanti, due dei quali passati con il collare giorno e notte. Ancora oggi, nei giorni in cui ci sono dei cambi di tempo, intendo il tempo atmosferico, ho il privilegio di sentirli con almeno 12 ore di anticipo. Anche se sono passati tanti anni da allora, le nevralgie nelle zone colpite da quell'incidente arrivano sempre. Ecco cosa mi ha lasciato tutta questa storia: il 1999, quindi, fu un anno terribile per me, difficile. Per diversi mesi non riuscii nemmeno a cercare un lavoro, ma nella seconda metà dell'anno mi assunsero come programmatore presso una software house della città. Ero al settimo cielo: finalmente le cose cominciavano ad andare bene anche per me!

Mi sono posto molte volte la domanda di cui ti dicevo all'inizio: non bastava già l'ustione? Perché anche l'incidente in bici? Perché a me? Chiunque subisca incidenti, e in particolare noi malati invisibili, ce lo chiediamo molto spesso. Non riusciamo ad accettare che le cose accadano per caso. Vogliamo avere delle spiegazioni, vogliamo che ci sia un motivo per cui le sfortune ci abbiano colpito. Quando le spiegazioni non le abbiamo, io credo che...è umano...ce le creiamo!

L'idea che siamo soli nella vita è difficile da accettare, e allora cominciamo a trarre tutte le conclusioni del caso, quelle che ci confortano di più.

Fresco del viaggio in India dell'anno precedente, mi convinsi che una qualche entità superiore mi avesse protetto, spezzando in due una tragedia più grande che avrebbe dovuto essere nel mio destino. Due incidenti gravi ma sopportabili, anziché uno solo enorme che mi avrebbe portato magari alla morte. Questa era la mia convinzione di allora, uomo poco più che ventenne. Ma sono passati tanti anni da quell'incidente e oggi ho una coscienza diversa, più matura. Continuo a pensare com'ero in quel momento e a quanto facilmente mi ero illuso. Era quello che volevo credere, quello a cui avevo più bisogno di credere in quel momento. A chi non piace sentirsi protetti e guidati?

E poi, come esseri umani, come ti dicevo, secondo me fatichiamo ad accettare che le cose più terribili accadano per caso o per eventi ingovernabili al di fuori della nostra portata. Siamo portati a cercare un rifugio, a trovare un motivo che possa spiegare quello che ci è successo, e siamo disposti ad accettare quello che ci fa stare meglio; quello che fa stare meglio il nostro cuore, spesso mettendo a tacere la razionalità. Questa che ti sto raccontando, ovviamente, è una concezione del tutto personale della realtà. Pretendo che sia quella corretta? Nessuna credenza deve essere considerata migliore o peggiore delle altre; semplicemente, questa è la mia. Non riesco più a trovare un senso in tutto questo e credo che a volte sia più utile liberarci dal tormento di voler cercare per forza un motivo, una causa degli eventi.

Per me, la realtà è che le cose semplicemente accadono e di questo dobbiamo farci una ragione e guardare a quello che possiamo fare per migliorare le cose. Anche se, nel caso delle patologie di cui soffriamo noi malati invisibili, possiamo migliorarle veramente poco, ma dobbiamo provare.

Attenzione!

Non sto dicendo che dovresti affrontare tutto con leggerezza o incurante di quello che ti succede. Come sarebbe possibile, d'altra parte, mentre ti vedi cambiare poco a poco, magari peggiorando di giorno in giorno? Ma voglio dirti di trovare quel giusto equilibrio, di provarci almeno; di trovare quel punto di equilibrio in cui il passato non viene rimpianto; si accetta che le cose brutte accadano e possano accadere e, di conseguenza, anche quelle belle. E al futuro, magari cerchiamo di non pensare troppo.

Rifletti su questo: se il Simone del doppio incidente di tanti anni fa avesse potuto sapere cosa gli sarebbe toccato dopo, oggi come credi che si sarebbe sentito in quel momento?

È davvero un dono, secondo me, non sapere cosa ci accadrà.

Pensiamo piuttosto a cosa possiamo fare oggi. Io sono il primo che non riesce a trovare questo punto di equilibrio; ci sto lavorando, diciamo. E lo stesso augurio che rivolgo a me, cioè di riuscirci, questo buon proposito lo rivolgo a te.

Una volta ho letto un pensiero che mi ha colpito profondamente.

Non ricordo chi fosse l'autore, ma mi era parso di buon senso e voglio ragionarci per un attimo insieme a te. Diceva: “Il momento perfetto per essere felice è adesso, non ieri o 20 anni fa e neanche tra 20 anni, quando magari i tuoi figli saranno grandi e tu sarai in pensione. Non aspettare domani per essere felice; o che una certa condizione si verifichi. Sii felice adesso, ora.” (Fine della citazione).

Ma come faccio a essere felice oggi, mi dirai tu, se sono un malato invisibile? Beh, non lo so, non ho tutte le risposte, ma voglio mettermi a cercarle. Deve pur esserci qualcosa che ci rende felici, no? Al di là delle nostre condizioni difficili, e io ho intenzione di trovarla, almeno quella che è efficace per me. Oltre a raccontarti la mia versione della felicità, al di là di tutto, provare non costa niente. In ogni momento, ricordiamoci di essere felici! Siamo sinceri: a volte è davvero una scelta. Proviamo a cominciare le giornate con il muso, ad esempio. Cerchiamo la pazienza per spiegare ancora agli altri, per l'ennesima volta, come stiamo.

Che tu soffra di disordini del sonno o della malattia di Crohn, tiroidite autoimmune o le mie stesse patologie, ora hai un'arma in più per far conoscere agli altri i tuoi sentimenti; e ti ritrovi in quello che dico, almeno, ora hai questo podcast.

Condividilo con le persone che sono con te nella tua vita: colleghi, parenti, chiunque abbia bisogno di sentire una voce determinata a far capire come stiamo noi invisibili. Oppure puoi condividerlo con chi, come noi, soffre di questo tipo di patologie e potrà sentirsi compreso, meno solo o meno sola. “Grido muto” nasce proprio per questo: per far conoscere le esperienze di chi vive malattie invisibili, una realtà troppo spesso ignorata.

Creare questo podcast è stata una sfida in termini di tempo, energie e competenze da acquisire, specialmente nelle condizioni di vita che ti sto raccontando. Oltre che una sfida, è stato anche un impegno economico. Se il mio lavoro ti ha colpito, considera di supportarmi su Patreon, dove potrai fare una piccola donazione a sostegno del mio lavoro. Anche un piccolo contributo può fare la differenza e aiutarmi a continuare a dare voce a chi spesso non ne ha. Il link lo trovi proprio lì, nella descrizione di questa puntata del podcast, in quel posto dove nessuno guarda mai.

Per ora ti saluto e ti aspetto, dunque, martedì prossimo in un nuovo episodio molto importante, in cui ti racconterò l'evento incredibile che mi è successo al culmine della mia vita da musicista, quando alcune nuvole scure cominciavano a prendere forma sopra di me. Stammi bene.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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⚡ Fibromialgia, Artrite e Burnout: la mia battaglia contro l'esaurimento cronico continua! 💪🌟

“[...] Tutti i malati invisibili nel nostro Paese stanno subendo una ENORME INGIUSTIZIA: perché la loro capacità di affrontare la vita è ridotta. Così come per una persona con disabilità può essere ridotta la capacità motoria, per noi è ridotta la capacità di sopportare il peso di qualsiasi cosa, ma sembra un nostro capriccio; sembriamo sfaticati agli occhi degli altri. Niente di più sbagliato!”

Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 8), anziché leggerlo, puoi farlo qui:

Gli anni delle scuole superiori, tra il '91 e il '96, sono stati molto belli da un punto di vista della mia crescita personale e musicale, ma anche molto difficili per tutto il resto. Oggi ho il sospetto che le malattie iniziassero a manifestarsi, ma in quegli anni non potevo neanche immaginarlo. In questo episodio ti racconto dell’esaurimento, una condizione psicofisica che chi soffre di malattie invisibili tende a vivere molto più facilmente.

[...]

Quel periodo lo avevo iniziato in bellezza, di ritorno da un viaggio in Sardegna in cui eravamo stati a trovare i nostri nonni paterni e, naturalmente, anche in visita allo splendido mare della regione. Durante quella vacanza, ero andato a supplicare un vicino di casa dei nonni perché mi prestasse la sua chitarra per un pomeriggio. Non riuscivo a stare senza! Ora, non vorrai fare dei paragoni azzardati; ti dico solo che questo succedeva anche a Jimi Hendrix, a suo tempo, uno dei chitarristi più influenti della storia.

Oggi lo capisco perfettamente: suonare, infatti, è un po' come una droga. E a proposito di droghe, proprio in quel periodo avevo iniziato ad assumere farmaci regolarmente per qualche mese. Avevo dei dolori alle ginocchia, un po' forti. Ero giovanissimo; non poteva essere niente di serio, io mi dicevo. Il medico curante mi aveva dato del Nimesulide, ma i dolori non passavano e continuai a prenderlo a cicli per molte settimane. Quando finalmente il male passò, venne attribuito a “qualcosa di legato allo sviluppo”.

A te sembra normale che un ragazzino di 13 anni debba prendere il Nimesulide a cicli? Non lo era, e già questo, forse, avrebbe dovuto fare scattare qualche campanello d’allarme. Ma poi era tutto normale; si andava a giocare a pallone e al fiume a nuotare nell'acqua gelida, e non ne risentivo più di tanto.

L'idea di iniziare le superiori mi aveva messo un certo fermento addosso, anche se la scuola di ragioneria ad indirizzo informatico non era stata una vera e propria scelta, ma piuttosto un obbligo imposto dalla scarsissima varietà che Pontremoli poteva offrire. Diciamo che per me era la meno peggio e credevo che mi avrebbe aiutato, più avanti, a trovare lavoro facilmente.Nonostante tutto, mi restava un senso di entusiasmo speciale, come mi capitava sempre prima di iniziare qualsiasi cosa.

Le mie aspettative furono deluse molto presto, perché se alle scuole medie avevo avuto sempre voti molto alti, alle superiori mi fu subito evidente che la musica era cambiata. Ci voleva molto più impegno e quando i primi voti pessimi cominciarono ad arrivare, non la presi molto bene. Cominciai a pensare di non essere adeguato e ogni giorno, paradossalmente, anziché dedicare più tempo allo studio, mi buttavo sull'unica cosa che mi dava un po' di gioia: la musica.

Nel '91, io e mio fratello maggiore avevamo messo insieme le forze e acquistato il nostro primo lettore CD, una cosa del tutto nuova che consentiva di ascoltare la musica con una qualità pazzesca, una qualità che oggi non abbiamo più, sostituita dalla bassa qualità dei vari servizi di musica in streaming.

Quando uscivo da scuola, esausto, la corriera impiegava più di un’ora a riportarmi a casa, perché doveva fare il giro di tutti i paesi della valle e il nostro era quello più in alto. Nei giorni peggiori ci impiegava un'ora e tre quarti. Da ottobre in avanti, mi sedevo a tavola per mangiare, da solo, alle 14:35 del pomeriggio, e non facevo in tempo a finire il mio piatto di pasta che il sole calava dietro la montagna del paese. Da noi, la notte arrivava molto presto. Io mi sdraiavo sul letto, con delle cuffie di ottima qualità, ad ascoltare l'unico CD che avevo: il concerto dei Deep Purple a Stoccolma del 1970. Può sembrarti strano, ma tra le urla di Ian Gillan e gli assoli di chitarra strazianti di Ritchie Blackmore, mi addormentavo quasi subito. Mi calmavano; e se conosci quel gruppo capirai quanto sono strano!

Alla fine del disco, il mio cervello percepiva il silenzio e allora mi svegliavo quasi subito, con un senso di smarrimento e solitudine. Dov'era andata quella musica così bella? E poi via, si iniziava a studiare. Facevo tutto in fretta, il più in fretta possibile, per liberarmi da tutte quelle cose che mi interessavano davvero poco e potermi così dedicare finalmente alla musica.

Nel periodo natalizio, per la prima volta io e il mio gruppo andammo a suonare per altri: una festa di Capodanno tra ragazzi, credo non più di un centinaio di persone. Nonostante avessimo solo chitarre, facemmo del nostro meglio e fu davvero emozionante, così tanto da essere sul punto di bloccarmi, ma tutto andò bene.

Al secondo anno di scuola accadde una cosa terribile: i voti stavano prendendo una brutta piega. Fui costretto ad aumentare l'impegno e così, durante l'inverno, oltre a non vedere più il sole e a rinunciare anche alle passeggiate nei boschi con il mio cane, dovetti anche intensificare lo studio, sacrificando la passione musicale.

Verso la fine della primavera, ero completamente scarico. Non riuscivo più a ragionare lucidamente; mi sembrava che il peso di ogni cosa del mondo fosse sulle mie spalle e che la condizione che stavo vivendo, la scuola, non avrebbe mai avuto fine. Pensavo ai duri anni che avevo ancora davanti e poi all’università; ai faticosi viaggi in corriera e alla musica che avrei dovuto sacrificare. Di fronte a una montagna così grande da scalare, mi chiedevo se la ricompensa, sulla cima, sarebbe stata abbastanza da giustificare la scalata. Decisi che...no, non ne valeva la pena.

Volevo abbandonare gli studi.

Fortunatamente, quella Santa donna che è mia madre, dopo discussioni estenuanti anche per lei, mi convinse a non farlo: e meno male, perché con le conseguenze di quel diploma sto mangiando ancora oggi. Mi disse di continuare, di fare quello che potevo e poi avremmo visto.

Non so se tu, che mi stai ascoltando, abbia mai usato audiocassette. Te le ricordi? C'era dentro un nastro che si arrotolava mentre le si ascoltavano, come la nostra vita. Ma alla fine del nastro, la cassetta si poteva riavvolgere e ricominciare, o cambiare lato, mentre per noi il tempo scorre solo in una direzione. In quella cassetta, come in tutte le altre, c’era un foglietto dentro la custodia in plastica. Mio fratello aveva scritto tre parole sul dorso di quel foglietto: “Led Zeppelin” e un 4 in numeri romani.

Ma sì, proviamo a sentire cos'è!

Mi misi sul letto, cuffie addosso, e premetti “Play”. In quel preciso istante, la mia vita musicale cambiò per sempre. La prima canzone della cassetta era qualcosa che non avrei mai immaginato neanche in 100 vite: qualcosa di alieno, possiamo dire. Una canzone assurda, in cui una voce sguaiata introduceva gli strumenti che suonavano una melodia quasi irritante, con il batterista che andava per conto suo, senza seguire il tempo degli altri. “Ma che roba è?” Poi, tutti zitti. Di nuovo quella voce insopportabile, la melodia stranissima di prima e via così fino alla fine.

Sembra assurdo, ma c’era qualcosa di veramente ipnotico in quella melodia, tanto che ci arrivai in fondo. La seconda canzone era orecchiabile, una specie di rock and roll bello carico, la terza di nuovo strana, la quarta un capolavoro: “Stairway to Heaven”. Credo che chiunque l'abbia ascoltata almeno una volta nella vita. Alla fine di quell’album, avevo il cervello un po’ sconvolto, ma dentro di me avevo gli occhi spalancati e la bocca aperta. Evidentemente, quella roba strana era musica; si poteva fare anche così.

Per qualche tempo non ascoltai altro: quella voce sguaiata, la chitarra possente, il basso con i suoi ritmi incalzanti e un batterista che, per la prima volta da che avevo memoria, era un piacere ascoltare e non era solo qualcosa in sottofondo che dava il tempo. Incredibile! Nessuno dei miei conoscenti condivideva con me la passione per questo strano, disturbante gruppo. Dall’esterno sarò sembrato un pazzo, sempre con le cuffie in testa ad ascoltare qualcuno che urla su suoni strazianti. Questa mia nuova passione mi isolava ancora di più dal mio mondo di allora. Scoprii che restare calmo, solo con me stesso a fare qualcosa che amavo, mi aiutava a concentrarmi su qualcosa, dimenticando tutto il resto. Nessuno capiva, ma non mi importava: nel poco tempo libero, scimmiottavo i Led Zeppelin con la chitarra, e questo mi bastava a sentirmi meglio.

Paradossalmente, in questo isolamento, ritrovai me stesso. Piano piano, rifugiandomi in quegli ascolti, il periodo terribile passò e l’estate arrivò nuovamente, carica di novità stimolanti ed eventi fondamentali per la mia evoluzione musicale.

E dal momento che avevo ritrovato un minimo di serenità, con mia sorpresa le cose andarono meglio anche a scuola. Alla fine, non ci fu nessuna conseguenza pesante sul mio curriculum scolastico. Mancavano solo tre anni alla fine; ormai ragionavo così.

Ricordo sempre con tanta emozione quell’anno, perché è stato quello in cui ho incontrato la prima delle situazioni insormontabili della vita. In quel caso, in qualche modo ce l’avevo fatta, come ce l’avrei fatta in futuro. Ma con il passare del tempo avrei notato che ogni botta sarebbe stata più difficile delle precedenti da superare.

Ogniqualvolta mi si presenta una situazione senza via d’uscita, è come rivivere la crisi in corso più tutte le precedenti, a partire da quella in cui i Led Zeppelin e la chitarra mi avevano salvato. Ogni volta è più difficile uscirne, e nemmeno la musica può nulla, oramai.

Oggi, come credo che capiti ad ogni malato invisibile, vivo crisi di fatica ed esaurimento continuamente. A volte, faccio persino fatica a riconoscerne una dalla successiva.

Quando ti alzi terribilmente stanco, e ogni giorno hai meno energie di quando sei andato a letto, è facile che qualsiasi cosa ti sembri una situazione senza via d’uscita: la famiglia, se ne hai una; magari dei figli da mandare a scuola, che vanno seguiti, ma anche un animale domestico. Qualsiasi cosa, anche piccola, ti sembra – ed è – difficilissima da completare. Figuriamoci il lavoro. Eppure è così importante per me, terminare queste cose. C’è già una brutta situazione in corso, della quale non si vede la fine. E così, ogni cosa incompleta o che non si può finire per me diventa un’eco della mia vita da ammalato, situazione che non finirà mai. Almeno ciò che posso, ho bisogno di vederlo chiuso, finito, a posto.

Le cose però possono accumularsi, essere sempre di più, sempre più pesanti. Non completarsi.

Se non hai particolari patologie e pensi che tutte queste cose che ti ho elencato prima siano già pesanti anche per te, figurati com’è la vita per me, e immagina com’è per tutti gli altri malati invisibili.

Sì, perché a noi non vengono fatti sconti. La famiglia la devi comunque gestire. La spesa. I traslochi. I genitori anziani, i suoceri. La cura di te stesso, il mutuo da pagare. Figurati poi com’è lavorare in queste condizioni: scadenze, impegni, ingegno per trovare soluzioni sempre nuovi a problemi sempre diversi, mentre il mal di testa è sempre lì, la tua difficoltà a concentrarti non sembra lasciarti andare, e chiunque ti chiede qualcosa che si aggiunge alla lista di cose da fare, sempre urgenti, che non te ne fanno completare altre. Questo, almeno, in ufficio. Non oso pensare a chi svolge un lavoro fisico: muratori, operai, facchini, agricoltori, eccetera!

Ecco perché dico che tutti i malati invisibili nel nostro Paese stanno subendo una enorme ingiustizia: perché la loro capacità di affrontare la vita è ridotta. Così come per una persona con disabilità può essere ridotta la capacità motoria, per noi è ridotta la capacità di sopportare il peso di qualsiasi cosa, ma sembra un nostro capriccio; sembriamo sfaticati agli occhi degli altri. Niente di più sbagliato!

Ricorda tutto quello che ti ho raccontato finora, e che, se mi hai seguito con attenzione, dovrebbe cominciare a prendere una forma più chiara. Pensa a come dev’essere vivere così, sempre in balia di un problema fisico che, lentamente come il ghiaccio, ti penetra nell’animo. Capisci ora perché si dice che i malati invisibili tendano ad isolarsi? Capisci perché siamo tendenzialmente nervosetti?

Se mi stai ascoltando ma non soffri delle patologie che ti sto raccontando, questo mi rende felice, ma spero di riuscire a trasmetterti la conoscenza su quello che noi invisibili viviamo tutti i giorni.

Se invece ti riconosci in questo eterno ciclo di esaurimento e ripresa, magari anche depressione, sappi che ti capisco benissimo. Non servono patologie croniche per esaurirsi o cadere in depressione, e anche queste, lo so, sono malattie invisibili, per gli altri non esistono.

Fatti coraggio, anche se so che è difficile, trova i tuoi Led Zeppelin.

Per me, almeno allora, è stata essenziale la musica: trova i tuoi Led Zeppelin. Per te, il palo in cui aggrapparsi durante la tempesta può essere qualcos’altro: magari coltivare un fiore, leggere un libro, andare continuamente in un luogo in cui ti senti un po’ meglio. Tutto aiuta, anche se lì per lì ti sembra che sia inutile.

Bisogna continuamente ritornare a fare qualcosa che ci fa stare un po’ meglio, attingere alle scorte della bellezza, della tranquillità senza sentirsi giudicati. Credo che se costruirai queste condizioni, gradualmente potrai stare, se non bene, almeno un po’ meglio.

Stammi bene!

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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La Vista 👁️: perché fibromialgia 🤕 e artrite 🦴 possono comprometterla!

In questo episodio ti parlerò della vista, di come sia difficile il mio rapporto con questo senso fondamentale e di come abbia influenzato la mia vita anche in passato.

Se vuoi ascoltare anziché leggere, puoi ascoltare o seguire qui l'episodio di questo podcast (il n. 4):

[...]

Non so tu, ma una delle applicazioni che io uso più spesso sullo smartphone si chiama lente di ingrandimento. L'applicazione non fa altro che usare la fotocamera dello smartphone per ingrandire quello che si inquadra. Sembra una piccola cosa, ma a 50 anni e con le mie patologie è una cosa fondamentale. Ho due paia d'occhiali, come tutte le talpe dei fumetti e molti dei cinquantenni: uno per vedere da vicino, che mi serve per leggere o guardare gli ingredienti di un prodotto, e l'altro per tutto il resto, incluso il mio lavoro al computer. Gli ottici insistono sempre per farmi dei progressivi, ma per il momento sono riuscito a non cedere. Mi sembrerebbe un segno di sconfitta.

Ci sono però dei giorni in cui il mio malessere è così importante da coinvolgere anche la vista, e lì non ci sono occhiali, app o progressivi che tengano. Sono stati fatti mille controlli, ma le lenti che utilizzo sono già le migliori possibili per me. Quando sto davvero male, la mia vista si offusca, le prestazioni dell'occhio calano e non riesco a leggere niente che non sia scritto molto, molto grande, neppure con gli occhiali giusti. Se dimentico a casa gli occhiali per leggere da vicino, sono menomato. In effetti, certe cose non le posso proprio fare.

All'inizio non lo capivo; non capivo perché la mia vista calasse così all'improvviso e poi, il giorno dopo, magari andasse benissimo. Pensavo che il calo fosse dovuto all'età, anche se era stato improvviso. Solo che poi la vista tornava e mi dicevo: “Ma porco cane, com'è che ci vedo di nuovo così bene? E ieri che è successo?” Ieri non riuscivo a capire quale fosse l'evento che scatenava questo calo della vista. Mi ci è voluto un po' a capire che il calo della vista coincideva con quei giorni maledetti, quelli in cui il dolore non è facilmente gestibile. E ti dirò di più: in quei giorni anche le immagini in movimento e le luci forti aumentano il mio malessere, mi danno un fastidio tremendo, come d'altra parte anche i suoni e i rumori che non cerco volontariamente. Mi ci vuole il silenzio, lo cerco come un naufrago cerca la terra.

Altre volte la vista non cala, ma all'improvviso delle fitte terribili colpiscono gli occhi, partendo dalla base del collo posteriormente e risalendo tutto il cranio, oppure come una scarica che arriva dall'interno attraverso lo zigomo. Anche il calo della vista è una forma di degrado invisibile che non riguarda soltanto me. Una delle più comuni, forse, di cui in generale si tende a non tenere conto. Paradossalmente, il calo della vista è una cosa che non si vede, non se ne tiene conto sul lavoro, ad esempio, e non si immagina che una persona con questi problemi possa impiegare più tempo per svolgere una mansione, specialmente in ufficio o in un laboratorio in cui si lavora sui piccoli dettagli. Non ne teniamo conto neanche guidando, quando l'automobile che ci sta davanti fa una velocità che non è quella che vorremmo noi. “Dai, muoviti!” Non capiamo che quell'autista può fare quella velocità per un motivo ben preciso.

La mia vista non è mai stata al top, per dire così, anche prima che i miei problemi iniziassero. Ricordo che in seconda elementare mi portarono dall'oculista perché dalla prima fila dei banchi non vedevo bene la lavagna. L'oculista mi appioppò un paio di occhiali spessi dalla montatura scura che in varie versioni porto ancora oggi: miopia e astigmatismo, non ci facciamo mancare niente. Però, dopo, era stato molto più facile leggere le parole delle canzoni.

Nel 1985 il mio nonno materno morì. Anche lui aveva avuto problemi di vista, ma gravi. La cecità lo aveva costretto su quel divano antico troppo a lungo e, alla fine, dopo tanti anni, aveva preso a muoversi sempre meno, anche per colpa delle viuzze del paesello che erano fatte interamente di sassi. Gli mettevano molta paura di cadere e così il suo corpo era andato prima del normale, non muovendosi più. Era un uomo che aveva visto la guerra da vicino (la seconda Guerra Mondiale) e ne aveva sopportate tutte le difficoltà, dopo. Con la scomparsa della sua generazione, tutti noi avevamo perso tantissimo, ma io non me ne rendevo conto allora; avevo solo 8 anni.

Questo evento tragico cambiò radicalmente anche la mia vita.

La nonna si era anche lei consumata per l'età e per aver accudito il nonno per molti anni nella sua infermità, fino a rallentare anche lei e a fermarsi senza più riprendere la sua capacità di movimento. Nel frattempo lamentava dolori in tutto il corpo. Si sa come sono i vecchi, mi dicevano un po' tutti. Più tardi avrei capito molto meglio come si sentiva la nonna.

Ora comunque non la si poteva più lasciare sola, specialmente in una casa antica che si sviluppava su tre piani, con scale strette e scalini traballanti. Mio padre pensò a come poter fare, chiese quando sarebbe potuto andare in pensione e, con nostra sorpresa, scoprì che gli mancava poco. Fu così che lasciammo la casa di Livorno nel 1986 per trasferirci nel paesino sulle montagne insieme alla nonna.

A differenza dei miei fratelli più grandi, io ero molto felice in un primo momento, perché per me quel paesello rappresentava il posto in cui potevo giocare liberamente. Nei fine settimana ci trovavo i miei amici speciali: Danilo, Marco, Lorenzo e tutti gli altri. Come me, avevano i loro nonni o altri parenti in paese e tornavano regolarmente a trovarli. L'abbandono della casa di Livorno, però, mi mise addosso comunque un senso di pesantezza. A qualche livello capivo che stavo lasciando per sempre quella casa e tutta la mia vita ne avrebbe risentito. Stava succedendo davvero, e la scelta che avevano fatto i miei genitori sarebbe stata determinante per spingermi a fondo nel mondo della musica, anche se in quel momento non potevo ancora saperlo. Sapevo però che tra tutte le cose più care che non volevo perdere, c'era il mitico mangiadischi e per fortuna lo portai con me.

Come se non fossero abbastanza il cambio di casa, di scuola, di abitudini, la vita in un piccolo paese era molto diversa da quella che conoscevo in città. Pontremoli, già piccola, era a 20 km dal paese e gli amici che conoscevo non c'erano tutti i giorni. Non era come mi ricordavo: loro non erano lì ogni volta che c'ero io. Giustamente, avevano le loro vite da un'altra parte e iniziai a rendermene conto.

Le settimane sembravano interminabili, scandite com'erano soltanto da giorni di scuola, compiti e catechismo. Aspettavo i fine settimana con ansia. A ottobre venne a vivere con noi Jacqueline, un cucciolo di pastore tedesco dai modi aristocratici, che ci avrebbe tenuto compagnia per diversi anni. I compiti e l'amore per il mio cagnolino mi tenevano occupato, ma naturalmente anche la musica. Ascoltavo quello che passava il convento, cioè ancora sigle di cartoni, fiabe registrate su cassette che avevamo portato con noi da Livorno, e tanta, tantissima radio. A volte nei programmi radio si parlava di paesi lontani, di equilibri mondiali, di cose che non capivo bene, ma su cui passavo ore e ore a fantasticare. Ricorda che internet non c'era allora e nei giorni migliori si riusciva al massimo a sintonizzarsi su Italia 1 o a telefonare a qualche amico dal telefono fisso, quello grigio, enorme e pesante, con la ghiera che ruotava per comporre tutti i numeri.

Ogni tanto passava in tv o in radio qualche programma musicale e allora era festa grande, soprattutto quando davano qualcosa degli Europe e i loro assoli di chitarra caotica e acida trattenevano la mia attenzione. Chi non ha mai ascoltato “The Final Countdown” alzi la mano! E poi c'era anche Madonna, il mio idolo pop del momento, insieme a Michael Jackson. In breve tempo, i ritmi delle sue canzoni diventarono una parte della routine quotidiana. Nella mia testa, come ti dicevo, riuscivo e riesco ancora a riprodurre con la mente qualsiasi brano che mi piaccia, e quindi televisione o no, anche Madonna era sempre con me, con i suoi testi scabrosi per l'epoca, come la canzone “Like a Virgin”. Ero ancora nell'età dell'innocenza, ma capivo benissimo che non era una canzone per bambini.

Dopo tanti vocalizzi di Madonna e un disastro di Cernobyl, mi ritrovai alla fine della quinta elementare, come per magia.

Nei giorni successivi al disastro nucleare, ero a giocare nei campi prima che la radio ci avvertisse di non farlo. Ancora oggi mi chiedo se essermi preso la pioggia radioattiva abbia influenzato in qualche modo la mia storia clinica. Ne parlammo anche durante l'esame di quinta nel tema, ma senza capire bene la portata dell'evento. Per noi bambini, era stato poco più di un momento in cui non potevamo stare all'aria aperta nei prati e in cui certe cose non si potevano mangiare, nemmeno se erano quelle dell'orto della nonna.

Fu un'estate speciale e spensierata, tra le gite al fiume e i vari giochi con gli amici, ma come diceva De André nelle sue canzoni:

Come tutte le più belle cose, durasti solo un giorno, come le rose.

Alle medie, all'inizio, tutti mi sembravano più grandi di me, anche se avevamo la medesima età e io stesso cominciavo a irrobustirmi. Non raggiungevo più le tonalità di prima e da quell'evento mi resi conto che ormai ero grandicello. Notavo con un misto di eccitazione e stupore i cambiamenti del mio corpo: diventavo più alto, più robusto, più forte. Senza avvisare, spuntarono anche i primi peli della barba e mi dava fastidio pensare che per tutta la vita avrei dovuto raderla. Per fortuna, successivamente presi la decisione di non farlo mai più.

Le medie furono un momento molto difficile, allo stesso tempo molto importante per me. Ci voleva più sforzo per fare i compiti ed ero impegnato per molto più tempo rispetto a prima. Mio fratello continuava a mettere su dischi, anche nei lunghi pomeriggi d'inverno in cui la luce del sole spariva prestissimo.

Un giorno, tra le cose che faceva passare sul giradischi, notai che c'era qualcosa di estremamente diverso da tutto quello che avevo ascoltato fino a quel momento: un gruppo che suonava quasi esclusivamente le canzoni che piacevano a me. Atmosfere sospese, tristi, minacciose, sognanti e spirituali che si intonavano benissimo con quelle che vedevo fuori, dove le giornate nebbiose e piovose si somigliavano così tanto da sembrare tutte uguali. All'inizio, quella musica era stata qualcosa di disturbante, ma con il tempo mi parve sempre più normale. Era quella che si intonava meglio ai miei pensieri.

Il chitarrista del gruppo mi sembrava qualcosa di divino e ho questa sensazione ancora oggi. Riusciva a far produrre suoni completamente diversi tra di loro. Quella chitarra la faceva sussurrare, urlare; la faceva piangere. Riusciva a farle fare il suono di un animale e a piegare il suono per fare in modo che le transizioni da una nota all'altra fossero più dolci e armoniose. Anche quando la canzone aveva un tono imponente e la chitarra doveva farsi sentire molto bene, il suo nome era David Gilmour e me lo sarei ricordato per sempre. I Pink Floyd iniziarono così a entrare prepotentemente nel flusso dei miei pensieri musicali.

A differenza degli altri gruppi, però, era molto più difficile suonare le loro canzoni, nella mia testa, solo con il mio pensiero. Avevo scoperto una musica molto più complessa, ricca, piena di suoni che non erano neanche musica, ma che inseriti in quei brani li rendevano del tutto interessanti. Non avrei mai immaginato che la musica potesse essere così e in tutto questo, il mio orecchio poté risultare ancora più allenato a riconoscere i suoni, ricordarli e a cercare di riprodurli a piacimento.

Quando ripenso a quegli anni, la musica è l'unica cosa che ricordo con passione. Mi ha letteralmente salvato dalla noia mortale di un luogo in cui l'estate durava solo due mesi e il resto era tutto inverno.

I Pink Floyd li ascolto ancora oggi, a distanza di tanto tempo. Fanno parte del mio terreno musicale, li trovo ancora attuali sia nelle musiche che hanno prodotto che nei testi brillanti e poetici che sono riusciti a trasporre in musica. Quando sono particolarmente giù, sono tra i pochi gruppi che mi piace ancora ascoltare. Le loro note sono confortanti, non tanto perché mi riportano agli anni nel paesello, ma perché mi suonano ancora dentro nell'animo.

Oggi, anzi, è ancora più facile trovarsi in sintonia con le atmosfere cupe e decadenti delle loro armonie. È così che ti senti quando la tua vita e il tuo corpo sono sempre più decadenti, e in tempi rapidi. La rabbia che trasmettono alcuni dei loro brani è del tutto appropriata al momento.

Ci si sente arrabbiati, vittima di un'ingiustizia che non ha un colpevole. Ci si chiede: “Perché a me?”, che poi è la classica domanda senza un senso. Quello che sto passando io, purtroppo, non conosce bontà o cattiveria, ricchezza o povertà. È forse l'unica cosa davvero democratica a questo mondo.

Tranne un'altra, a pensarci bene.

C'è un'altra cosa ancora che mi piacerebbe fosse democratica nel mondo di oggi: la possibilità che, se sei malato, tu possa essere visto, riconosciuto. Come dicevo, le patologie che mi affliggono non si vedono dall'esterno. Ed è proprio questo uno dei grandi problemi miei e delle persone che si trovano in una condizione simile alla mia. Ci sono tante patologie che non si vedono e per le quali la vista non è d'aiuto per riconoscerle. Oltre alle mie, di cui ti parlerò meglio più avanti, ce ne sono tante: la depressione, la cefalea a grappolo, l'endometriosi, il morbo di Crohn, la celiachia. Sono tantissime. Chi ne soffre, all'esterno, appare sanissimo perché la sua malattia non provoca segni visibili. Ed ecco perché io e altri pazienti condividiamo tutti la stessa ingiustizia. Come si fa a capire come stai se chi ti vede non può vederlo e non può capirlo al volo? Sia la vista che l'udito non sono abbastanza. Anzi, sono fuorvianti.

Una persona depressa molto spesso va al lavoro come tutte le altre, può addirittura apparire allegra. Chi soffre di cefalea a grappolo può assumere dei farmaci che attenuano il dolore e può svolgere le sue normali attività con un dolore ridotto, ma pur sempre presente. E chi lo vede non capirà che sta soffrendo. Soprattutto quello che non si può capire è che la stessa sofferenza, anche se non è estrema, lo diventa quando si protrae all'infinito.

Ecco allora uno dei perché di questo podcast che prende forma più chiaramente: noi malati invisibili dobbiamo farci sentire, dobbiamo far sapere agli altri che la nostra sofferenza è reale, perché purtroppo fanno fatica a capire e non ne hanno neanche colpa, diciamocelo. Non è per nulla facile. Però quello che dobbiamo chiedere loro è uno sforzo di immaginazione e se questo podcast può aiutare persone sane a capire come stiamo noi invisibili, beh, allora non dobbiamo perdere questa occasione. Se pensi che il mio messaggio sia importante, allora ti chiedo di condividere questo podcast, di farlo conoscere il più possibile. Facciamo in modo insieme che i miei pensieri possano diffondersi e stimolare un cambiamento di prospettiva nelle persone che ancora non sanno quanto può essere profonda la nostra sofferenza e magari potranno aiutarci a vivere meglio. Te ne sarò davvero molto grato, ed è importante questa presa di coscienza, terribilmente importante per una sana convivenza in questa strana società che ci chiede e, anzi, ci impone che tutti siamo sempre perfetti e performanti, anche se non possiamo più. E già che ci siamo, magari anche sorridenti.

Nel prossimo episodio ti racconterò le prime fasi dell'insorgenza di una delle mie patologie e di come ho iniziato a suonare uno strumento, lo scopo della mia vita. Nel frattempo, stammi bene, ci sentiamo martedì.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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